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Il fenomeno del macronismo sta guadagnando forza in Europa negli ultimi mesi come nuova opzione per puntellare la costruzione europea nel suo senso neoliberista. Questo testo intende analizzare questo fenomeno a partire dalla realtà politica francese di cui è frutto.

Per capire il fenomeno di Macron e la sua ascesa dobbiamo capire il contesto di crisi politica e della rappresentanza in cui egli si è forgiato. Le elezioni presidenziali e legislative sono avvenute in un clima di grande incertezza. In tre dei grandi partiti (i Repubblicani, il Partito Socialista e i Verdi) si sentiva arrivare la crisi politica. Il sentimento di rifiuto rispetto alla “solita minestra” ha spinto le maggioranze ad aprire delle primarie per la scelta delle candidature. Però queste primarie hanno contribuito a rendere la crisi ancora più visibile. Tutti, e tutte, i favoriti, che inoltre avevano partecipato ai governi precedenti, sono stati eliminati nelle primarie. Nicolas Sarkozy, ex Presidente della Repubblica, screditato politicamente e colpito da vari scandali di corruzione e di finanziamento illecito, non è passato in questo turno (infatti è tutt’ora imputato nel processo sul finanziamento libico alla sua campagna del 2007). Manuel Valls, Primo Ministro durante il governo del PS, e Cecile Duflot, ex ministra dell’Ecologia, dello Sviluppo Sostenibile e dell’Energia (dei Verdi) durante una parte della precedente legislatura, neppure hanno avuto l’appoggio necessario nelle primarie. In realtà è la prima volta che un Presidente uscente (François Hollande), non si presenta per essere rieletto. Tuttavia a Emmanuel Macron, ex banchiere, ministro dell’economia durante la seconda metà del governo Hollande, non è toccato lo stesso discredito. L’obiettivo di questo testo è di analizzare la singolarità di ciò che è successo a quello che si è venuto a chiamare macronismo, le sue implicazioni a livello francese e europeo, nonché le lezioni che ne deve trarre la sinistra.

Per analizzare questo fenomeno dobbiamo intendere la crisi politica al di là della già menzionata difficoltà a riproporre i vecchi candidati. La legislatura di Hollande ha messo in scena l’esaurimento di due modelli: quello dell’alternanza che si era stabilito in Francia negli ultimi decenni e quello del Partito Socialista stesso. Nonostante le promesse di Hollande di esercitare una politica dura contro il sistema finanziario, designato come responsabile della crisi, la sua pratica di politica economica fu fedele alla linea del partito di questi ultimi decenni, applicando le riforme neoliberiste in concordanza con quello che esigevano le autorità economiche internazionali. In questo senso, non solo ha omesso di riformare il sistema finanziario, ma anzi ha aiutato il sistema produttivo con meccanismi finanziari sostenuti dallo Stato. Sul terreno sociale ha approvato la durissima riforma del lavoro, anche senza l’appoggio di molti deputati del suo partito, motivo per cui il primo ministro Valls ha optato per l’approvazione per decreto (il famoso 49-3 che scatenò il movimento Nuit Debout).

La seconda questione che ha generato molte polemiche è stata la sua politica migratoria e securitaria, con la proclamazione dello stato di emergenza come conseguenza dei molteplici attentati, la sospensione degli Accordi di Schengen in Francia e la possibilità di applicare la soppressione della nazionalità a persone condannate per terrorismo (misura che alla fine non è stata portata fin in fondo di fronte alla forte opposizione; non veniva neanche richiesta dalla destra, eccetto le idee del Fronte Nazionale). A livello delle politiche ambientaliste ha mantenuto il pugno duro contro gli attivisti di Nantes, contrari alla costruzione dell’aeroporto dì Notre Dame des Landes. Oltre a queste misure, si è immesso in una dinamica autoritaria con una forte repressione di movimenti sociali e degli scioperi, alimentando la tensione sociale. In definitiva il governo del PS ha approfondito la crisi sociale, acutizzando inoltre la crisi di convivenza e alimentando il discorso della necessità di difesa dell’identità francese.

Come si sono comportati gli altri attori politici con rappresentanza parlamentare? Mentre il PS preparava il terreno per la sua scomparsa politica, i Verdi che avevano partecipato alla prima parte della legislatura sono usciti abbastanza scossi dal bilancio del governo. La destra tradizionale (i Repubblicani) non è riuscita a capitalizzare tutto il possibile da questo discredito, a causa dei successivi scandali di corruzione dei suoi dirigenti e del dinamismo crescente del FN, che li ha momentaneamente messi fuori gioco nello spettro della destra. Il FN è stato l’unica forza che ha saputo in un primo momento approfittare di questa crisi, crescendo notevolmente in questi ultimi anni. Ricordiamo che nelle elezioni regionali di fine 2015 ha ottenuto la maggioranza dei voti, presentandosi come “il primo partito di Francia”. Ci troviamo quindi di fronte a un forte processo di disgregazione delle alleanze politiche presenti nelle ultime legislature. La somma di ciò che corrispondeva ai blocchi di sinistra (PS + PCF e volendo i Verdi) e la destra (i Repubblicani e i loro satelliti) è passata dal rappresentare circa il 90% dell’elettorato nel 1981 al 40% poco prima delle elezioni del 2017.

Le candidature emanazione del cuore della vita politica francese, indipendentemente dal loro grado di responsabilità o di implicazione, hanno dimostrato la loro grande difficoltà a sostenere lo spazio dell’alternanza. Saranno infatti i candidati che si sono presentati facendo politica dai margini, in opposizione retorica al sistema, che avranno il maggiore successo. Questo modello di analisi ci permette, in un primo momento, di capire perché tre movimenti a priori antagonisti tra di loro (En marche, il FN, e France insoumise) hanno potuto avvantaggiarsi elettoralmente dello stesso fenomeno. Tuttavia sembra un rischio limitare l’analisi ad una opposizione binaria tra il sistema politico tradizionale e i populismi, per due motivi: può dare una falsa immagine di crisi terminale di un sistema parlamentario limitato (e, in questo senso, portarci a sovrastimare la capacità di una forza populista di sinistra di trasformare profondamente lo Stato per via elettorale) e si tratterebbe solo di un’analisi della crisi istituzionale, cioè a un livello sovrastrutturale (dove le risposte si potrebbero trovare allo stesso livello), senza rendere conto dei movimenti teutonici tra le classi sociali in un contesto di crisi economica e di offensiva neoliberista. Per problematizzare un po’ di più questa questione ci baseremo sull’analisi che propongono Bruno Amable e Stefano Palombarini sull’evoluzione del blocco dirigente in Francia, combinato con altri testi che studiano l’evoluzione del capitalismo francese.

La crisi del PS e la fine del modello dell’alternanza

Amable e Palombarini partono dalla crisi del sistema basato sull’alternanza in Francia come contesto necessario per l’emergere di un nuovo blocco politico. Per entrambi gli autori il declino di questo sistema di alternanza sarebbe conseguenza della fine dei suoi due principali attori (i blocchi di sinistra e di destra) così come li conoscevamo. Questa crisi non colpisce allo stesso modo ognuno dei due blocchi, ma è molto più cruda nel caso di quello della sinistra. Mentre il blocco della destra starebbe soffrendo mutazioni e si starebbe riposizionando a partire dalla sua sconfitta nella passata tornata elettorale, non starebbe soffrendo comunque una crisi di profondità tale da mettere in discussione la sua esistenza come attore politico. Nel caso del blocco della sinistra, invece, la correlazione tra la sua scomparsa e la crisi del PS sembra innegabile. Questa specificità porta i due autori a stabilire come punto di partenza delle contraddizioni del sistema di alternanza il tournant de la rigeur operato dal governo di Mitterand all’inizio degli anni 80. Questo tournant (svolta) fu il frutto della conclusione del dibattito cruciale all’interno del PS di quell’epoca intorno alla dicotomia tra protezione sociale e integrazione europea (decidendo infine per quest’ultima). La corrente chiamata modernista, capeggiata da Michel Rocard, minoritaria nel partito negli anni ‘70, fu la principale promotrice di questa linea, e avrebbe vinto la partita poco dopo l’arrivo al governo dell’Union de la Gauche (formata dal PS e dal PCF) in 1981. A partire da lì questo blocco ha seguito un percorso riconoscibile a livello europeo: l’evoluzione delle forze storicamente socialdemocratiche che hanno assunto le riforme strutturali che l’integrazione europea esigeva, hanno segnato loro stesse il proprio forte indebolimento, dopo decenni di contraddizioni irrisolvibili tra promesse elettorali di politiche sociali estensive e un allineamento pratico sui dettami neoliberisti.

Questa politica ha comportato per il PS un divorzio crescente con settori della sua base elettorale provenienti dalla classe lavoratrice e che non si sono sentiti i beneficiari di questa globalizzazione alla francese. Le politiche neoliberiste hanno fortemente esaurito il blocco della sinistra (formato in quel momento dal PS e dal PCF), traducendosi essenzialmente nel discredito del PS e nel disorientamento del PCF, che aveva giocato la sua carta principale di mantenimento di una posizione subalterna e di appoggio critico al PS. Seguendo questo ragionamento, possiamo osservare come l’erosione di questo blocco di sinistra ha risentito della crescente difficoltà a mobilitare le proprie basi, soprattutto nel periodo elettorale.

Questa crisi ha anche rappresentato un’opportunità per il rocardismo (corrispondente alla tendenza guidata da Michel Rocard). Man mano che avanzava la modernizzazione dell’economia, si è iniziato a mettere in piedi, da parte del socialiberismo, un nuovo soggetto politico che potesse fungere da base sociale in accordo con il programma di riforme strutturali. Come ammise in Terra Nova (il principale think tank associato al PS) bisognava difendere un programma basato sull’integrazione europea e sulle politiche di offerta in ambito economico, e allo stesso tempo mantenere un una posizione aperta sulle questioni cosiddette sociali: a favore del matrimonio ugualitario, ivi incluso il rafforzamento di segnali di femminismo istituzionale, con un discorso (a priori) per l’uguaglianza, l’integrazione, contro il razzismo, ecc.

Riteniamo che questa dinamica ha implicato una profonda contraddizione per il PS come forza elettorale: la sua apertura verso un programma di modernizzazione neoliberista ha minato fortemente la sua base elettorale popolare. Allo stesso tempo ha aperto la porta perché si producesse una ricomposizione politica basata sui postulati della corrente modernista del PS; la formazione di un nuovo soggetto politico implicava finirla con un PS come principale rappresentante della classe lavoratrice. Amable e Palombarini identificano questo movimento come il primo passo verso la formazione di un nuovo blocco politico e elettorale: un blocco borghese.

A questo si aggiunge che, nella fase attuale in cui il paese attraversa molte crisi che si esprimono sia a livello nazionale (crisi politica, economica e sociale) che internazionale (il ruolo della Francia nella costruzione europea e la sua posizione geopolitica, la crisi ecologica e delle migrazioni), il sistema stesso di rappresentazione e di governo basato sull’alternanza ha mostrato i suoi limiti. La difficoltà di discernere a livello economico tra il PS e la destra, l’incapacità del PCF di capitalizzare la crisi del PS e la minaccia di una estrema destra in ascesa sono fattori chiave per spiegare il disincanto crescente dell’elettorato francese negli ultimi decenni. Nel loro focus istituzionalista, Amable e Palombarini analizzano questa situazione come una crisi del blocco sociale dominante: questo sarebbe incapace di aggregare abbastanza settori sociali per potere dare un appoggio elettorale sufficiente a far passare le loro politiche con l’appoggio minimo di una massa critica.

Avendo tagliato progressivamente i legami con la propria base popolare, la strategia di costruzione di un nuovo blocco politico si è data con la progressiva sostituzione della tradizionale polarizzazione tra sinistra e destra con la polarizzazione tra europeismo e sovranismo. Senza abbandonare l’appellativo di sinistra (specialmente in fase elettorale), l’apparato del PS è stato il principale promotore del cambiamento degli assi di polarizzazione nel dibattito politico in questi ultimi trent’anni. Verso la fine della precedente legislatura si è cominciato a parlare della necessità di una rappresentanza elettorale di questo nuovo blocco politico. Infatti, vari personaggi del PS come Manuel Valls avevano segnalato in questi ultimi anni la necessità di una nuova forza politica che abbandonasse il nome socialista. È a partire da questi elementi che possiamo cominciare a analizzare l’ascesa folgorante di Macron nell’anno precedente le elezioni presidenziali del 2017.

Macron e il blocco borghese

Come abbiamo segnalato, la candidatura di Emmanuel Macron è il prodotto della crisi politica e delle polarizzazioni frutto della mutazione della socialdemocrazia francese. Il suo arrivo al governo è un nuovo passo nel processo di ricomposizione politica in Francia. Durante la campagna elettorale Macron si è presentato come un outsider, qualcuno che non era contaminato dalla routine dei grandi partiti politici e che non sopportava la zavorra della crisi di rappresentanza. Infatti ha sorvolato deliberatamente sulla sua partecipazione nell’esecutivo di Hollande come ministro dell’Economia e insistette sul suo profilo di candidato “né di sinistra, né di destra”. Ha basato il suo discorso sulla necessità di un cambiamento nelle forme di fare politica, che si sarebbe tradotto in una “gestione efficace” dello Stato, e che avrebbe fatto uscire il paese dalla crisi. Allo stesso tempo non nascondeva la necessità di accelerare le riforme strutturali neoliberiste come unica via di uscita della crisi economica. Combinando questo discorso con quello della costruzione europea, è riuscito ad attrarre il sostegno delle classi dominanti e di una parte dell’elettorato delle classi alte e medie-alte. La sua elezione ha beneficiato chiaramente dello stato di polarizzazione del paese, vincendo con il 66,6% dei voti su Marine Le Pen nel secondo turno delle presidenziali. Una volta eletto, Macron ha premuto l’acceleratore nell’applicazione di queste riforme: la riforma del lavoro a colpi di decreti, la riduzione degli aiuti per gli affitti, e l’eliminazione delle imposte per le alte fortune sono state le misure più forti da quando ha assunto la presidenza. Più di recente, l’offensiva antisociale del governo è andata ancora oltre con una riforma universitaria che comporta nuovi meccanismi di selezione e, soprattutto, con un progetto di privatizzazione della compagnia ferroviaria SNCF.

La spina dorsale della sua politica economica si basa sull’istituzione delle riforme di austerità, combinate con dei favori nei confronti di alcuni settori socio-economici. Per l’economista Michel Husson, tanto il discorso quanto il contenuto del programma sono ispirati all’OCSE degli anni ’90, scommettendo sull’accelerazione del ritmo delle riforme economiche e proponendo che la popolazione debba essere resa consapevole della necessità di una “nuova era del cambiamento”. Di fronte alla crisi dell’accumulazione del capitale francese, l’obiettivo di Macron è di operare un tipo di “distruzione creativa”, favorendo la ristrutturazione di quei settori la cui produttività relativa era inferiore, e rafforzando quei settori che possono emergere come leader globali, sempre sotto l’egemonia del capitale finanziario.

Pertanto, le ricette non sono nuove. L’equipe di governo è composta da politici della destra moderata (come Edouard Philippe, primo ministro, o Bruno Le Maire, ministro dell’Economia), del PS più conservatore (come Gérard Collomb, ministro degli Interni), da figure del mondo delle imprese (come Muriel Pénicaud, ministra del Lavoro, precedentemente alla direzione delle risorse umane nella Danone) e da figure del progresso estetico (come il ministro dell’Ambiente, Nicolas Hulot). In sostanza, si tratta di un governo che rappresenta integralmente gli interessi della classe dominante, storicamente legata al commercio transnazionale e al capitale finanziario. Possiamo considerare che, se Tony Blair e la terza via furono il maggior esito di Margaret Thatcher, Macron è la conclusione ultima della terza via, una tappa supplementare, che include la liquidazione della organizzazione politica sulla quale si è costruito.

Un elemento degno di nota in relazione alla caratterizzazione della politica di Macron, che aggiunge importanti indizi a sinistra, è che, per Husson, l’attualizzazione di un programma nettamente neoliberale sarà frutto della sconfitta o del fallimento di quello che potrebbe essere definito keynesianismo. Tuttavia, può sembrare problematico dedurre che ci sia stata una pratica keynesiana nella politica economica francese in questi ultimi anni. Se guardiamo al contesto di crisi della politica istituzionale esposto precedentemente, possiamo comprendere questa struttura analitica non tanto come la sconfitta del keynesianismo in se, ma dalla sua ipotesi. La speranza riposta in François Hollande da una parte dell’elettorato della classe lavoratrice nel 2012 si situava nella speranza di una politica espansionista e redistributiva. L’abbandono delle (poche) promesse e l’emarginazione delle voci che hanno difeso questa strada dall’interno del PS ha ucciso, momentaneamente, quest’ipotesi. E se anche non fosse l’unico fattore della debacle dei socialisti, la vittoria di Benoît Hamon nelle primarie del PS cristallizza la contraddizione di questo partito rispetto a una politica espansionista: la base ha scommesso per un candidato dal profilo relativamente critico verso gli eccessi del neoliberalismo, ma il candidato è stato escluso dalla campagna una volta che è stato scelto.

Polarizzazioni multiple e la non rappresentazione delle classi lavoratrici

In un momento in cui il nuovo blocco politico sta ancora cercando di stabilire una base sociale coerente, la scomparsa della classe lavoratrice come attore politico rappresentato è un punto chiave. Abbiamo menzionato prima le crisi multiple e le contraddizioni che vive il capitalismo a livello europeo, generando una molteplicità di polarizzazioni. I due assi su cui si sono stabilite le coordinate del dibattito politico sono state la dicotomia tra l’integrazione economica internazionale e il sovranismo e, relazionato con queste, la questione dell’identità. Questo non vuol dire che la questione sociale sia scomparsa. La polarizzazione attorno a questa questione è stata particolarmente forte in Francia, dove il movimento operaio ha goduto storicamente di una capacità di organizzazione e di azione notevole, se paragonata ai paesi intorno. Anche se la struttura sindacale se n’è andata in modo calante in questi ultimi anni, con lo sciopero la SNCF sta dimostrando, ancora una volta, la sua capacità di orientare le coordinate del dibattito politico.

Le tensioni tra queste polarizzazioni sono un punto fondamentale per comprendere la strategia del blocco borghese e del governo di Macron. Vediamo come la focalizzazione sulla dicotomia su Francia vs globalizzazione o attorno alla questione dell’identità ha condotto progressivamente a una smobilitazione dell’elettorato della classe lavoratrice (specialmente nella sua parte più progressista). La differenza tra il voto operaio per i candidati socialisti e il risultato generale è andata diminuendo in ciascun elezione presidenziale: se nel 1981 la differenza positiva si situava attorno al 15%, nel 2012 è rimasta solo al 4% (Amable e Palombarini, 2017: 29), mostrando nitidamente l’erosione della relazione tra il Partito Socialista e il proprio elettorato. Come già facevano i guru del blocco borghese e nel PS, Macron ha scommesso sulla mancanza di rappresentanza politica della classe subalterna come garanzia di governabilità. Il presidente francese opera così un doppio movimento basato, in primo luogo, nell’integrazione retorica delle fasce popolari più precarizzate, ma che alla fine conduce all’approfondimento delle divisioni e nell’insieme della classe lavoratrice. Allo stesso tempo, focalizza il suo discorso in materia sociale nel “dare opportunità a tutti”, esprimendo la sua preoccupazione rispetto alla gente che sta fuori e attacca i settori della classe lavoratrice con contratti indefiniti, giudicandoli come dei privilegiati. Così, durante la campagna elettorale ha difeso la necessità di creare nuove forme contrattuali e di promuovere lo sviluppo di forme di lavoro sempre più finanziarizzate (come Uber, Deliveroo e altre) per permettere alla gioventù dei quartieri periferici (le banlieues) di trovare un lavoro, dando così una possibilità a “quelli che non sono niente”.

Negli ultimi mesi ha attaccato uno per uno i diversi settori per gli smisurati privilegi, attacchi il cui culmine è stata la pubblicazione del Rapporto Spinetta. Un rapporto che pone la necessità di riformare radicalmente lo statuto del personale assunto dell’impresa pubblica delle ferrovie SNCF (baluardo della classe operaia organizzata). In un espressione retorica classica del capitale a favore della dispossessione dei diritti, la crisi che attraversa il paese sarebbe frutto di tutta una serie di rigidità economiche e di privilegi di certi settori delle e dei lavoratori.

Il carattere di tribuno delle elite che ha acquisito Macron si è visto anche favorito dall’architettura del sistema rappresentativo francese. La simbiosi politica tra l’agenda economica del PS e la destra durante gli ultimi decenni ha ridotto il relativo ruolo di fiscalizzazione da parte dell’Assemblea Nazionale. Però in questo contesto di fragilità e di crisi delle istituzioni francesi, la funzione presidenziale non è, paradossalmente, quella che ha subito l’arresto peggiore. In questo sistema, quello della V Repubblica, che favorisce un presidenzialismo forte, la fragilità del regime parlamentare può di fatto favorire certe attitudini bonapartiste. Il sistema del doppio turno e la coincidenza tra le elezioni legislative e presidenziali favorisce d’inerzia la concentrazione in un presidente che si posiziona al di sopra dei partiti e raffrorza la sua autonomia relativa. Questi fattori hanno spianato la strada affinché il partito neoliberale si presentasse come unica soluzione di fronte al populismo di estrema destra del FN. Un partito neoliberale che alla fine prende come riferimento la storia della prosperità attraverso il libero sviluppo del mercato e il cui progetto nazionale è legato allo sviluppo del neoliberismo come condizione per la Francia di poter avere ancora un ruolo a livello internazionale.

Il macronismo come strategia europea

La strategia del blocco borghese rappresentata da Macron ha una proiezione chiaramente europea. La difesa della costruzione europea con il rinforzo della UE è uno sei suoi segni identitari. In un momento di crisi dell’UE, Macron offre un modello molto federalista nella costruzione europea, mentre il governo tedesco ha continuato a caratterizzarsi su base intergovernamentale. In tal senso, ha iniziato a darsi da fare per far sì che la sua proposta sia uno dei principali punti in vista delle prossime elezioni europee. Al termine del 2017 ha già iniziato a profilarsi un proto-gruppo di sostegno a Macron con 71 eurodeputati di diversi gruppi e paesi.

Di fronte al declino dei diversi partiti socialisti europei, si può prevedere che un gruppo parlamentare costruito intorno al macronismo potrebbe persino raggiungere il secondo posto dopo il Partito Popolare Europeo. Difendendo l’idea di una maggiore integrazione europea e aprendo la porta ad un asse complementare a quello dell’europeismo-antieuropeismo: un asse est-ovest dell’Europa, che tenderebbe persino ad offuscare l’asse principale stabilitosi negli anni passati intorno al centro-periferia o al nord-sud (e avrebbe potuto intrecciarsi con una critica di ordine sociale). Questa nuova proposta punta all’obiettivo di federare tanto le forze liberali quanto le frazioni più conservatrici dei socialisti e dei verdi (come già si era dimostrato con il sostegno di Daniel Cohn-Bendit alla candidatura di Macron alle presidenziali francesi). In questo modo sarebbero in grado di metabolizzare i vecchi partiti, divorandoli e digerendoli per formare un vettore di rinnovata direzione politica al servizio della borghesia – nella sua linea transnazionale. E anche se queste sensibilità non si integrassero direttamente nel gruppo parlamentare macronista, potrebbero orbitare intorno a questo gruppo. Prima della crisi del gruppo socialista in quanto referente della stabilità e della governance europea, il macronismo avrebbe partecipato, allo stesso modo che in Francia, in quello che sarebbe un principio di riconfigurazione politica per recuperare questa governance da parte delle classi dominanti. Una governance che a livello europeo si gioca sempre più sulle polarizzazioni descritte. La forza del macronismo, abbinata al recente risultato elettorale in Italia, risulta paradigmatica e indica il punto in cui si può mettere in opera il rinnovamento della rappresentazione politica delle elite. Un tipo di rappresentazione che, come in Francia, si sta basando sull’annullamento della classe lavoratrice come attore politico.

Al di là della UE, Macron cerca di rinforzare la voce della classe dominante francese a livello internazionale. La sua recente visita negli Stati Uniti ha mostrato che esiste una strategia trascendente al contesto europeo. Seguendo la stessa logica del contesto francese, si posiziona (anche senza controversie interne alla leadership) come contrappeso alle politiche protezioniste e climascettiche di Trump. Facendosi carico della crescente multi-polarità a livello geopolitico, Macron insiste nel presentarsi come la opzione affidabile per le classi dominanti a livello internazionale.

Le contraddizioni del momento Macron

Il macronismo e il consolidamento di un blocco borghese come opzione elettorale sembrano profilarsi per le classi dominanti come la strategia più favorevole per garantirsi un margine di governabilità. Una governabilità che, come abbiamo visto, è in pericolo a causa del declino dei sistemi alternati su cui si è mantenuta la costruzione dell’Europa negli ultimi anni. Tuttavia, questa costruzione è ancora fragile e ovviamente non risolve alcune contraddizioni fondamentali del periodo che stiamo affrontando.

La prima tra queste, la più evidente, riguarda la fragilità di un blocco politico in costruzione. L’applicazione di politiche antisociali ha dimostrato che la simpatia della società francese per il governo di Macron può corrompersi facilmente. Per la sua condizione di outsider, fuori dal corporativismo politico di stato, inizia a profilarsi una fase di logoramento, come dimostrato dai vari sondaggi elaborati in occasione del primo anniversario della sua vittoria. I suoi molteplici attacchi ai vari settori della società (studenti, ferrovieri, funzionari pubblici in generale) hanno risvegliato il mondo sindacale, portando alla grande convocazione di scioperi da parte dei lavoratori della SNCF, ai blocchi delle università, dando così una forte spinta a coloro che si appellano alla convergenza delle lotte.
Tale impulso, che è riuscito a spingere questa questione sociale nel dibattito politico nazionale, potrebbe fare sì che il governo debba fare marcia indietro su molte delle sue riforme.

La seconda contraddizione riguarda lo spazio della citata polarizzazione sulla quale si è costruito il movimento. Polarizzazione che, come abbiamo visto, ha momentaneamente permesso alle opzioni progressive di essere lasciate fuori dal gioco, ma allo stesso tempo può essere (ed è) beneficiata dall’estrema destra. La capacità dell’estrema destra di marcare l’agenda politica non è un elemento di novità, e si è visto nelle legislature passate. In tal senso, la recente legge sull’asilo politico e sull’immigrazione prevista dal governo integra degli elementi che ridurranno fortemente le garanzie e i diritti delle persone che chiederanno asilo in Francia, mentre allo stesso tempo viene definita la differenza tra rifugiato e migrante. Un anticipo di questa legge, che al termine del 2017 ha mostrato il modo in cui questo governo ha intenzione di gestire la questione migratoria, furono le circolari inviate dal ministro degli Interni, Gerard Collomb (vecchio PS), ai centri di accoglienza di emergenza per l’identificazione di tutti i migranti in condizione irregolare, per poterne così accelerare l’espulsione dal paese. Mentre dunque sembrava che il FN fosse momentaneamente fuori gioco, il tipo di politiche messe in campo apre uno spazio che può essere facilmente occupato dall’estrema destra.
In relazione a questo, la leadership del macronismo di trova in un limbo momentaneo, con le gambe d’argilla, come un nuovo estremo centro, messo fuori gioco dal discorso neoliberale tecnocratico, europeista e federalista, sostenuto con riluttanza dai vecchi partiti del regime politico in crisi. Di fronte ad un’estrema destra che continuerà a raccogliere gli insoddisfatti, alle forze popolari alternative non basterà mantenere in piedi una storia evocativa o una metafora fondante che fa appello ad un progetto nazionale ecosocialista e inclusivo. Sembra che la via d’uscita giace nella costruzione di una forza di partito in cui il mondo del lavoro (così come il clima o la salute, o ancora la rottura con la relazione salariale e il produttivismo) è presente non solo nei discorsi, ma nella materialità e nell’esperienza della sua costruzione.

Fonte articolo: http://vientosur.info/spip.php?article13992