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Domenica 28 ottobre, 147 milioni di brasiliane e brasiliani sono stati chiamati a votare, direttamente, nell’ottava elezione presidenziale dopo il periodo della dittatura durato dal 1964 al 1985. La votazione si è svolta per via elettronica. Così a mezzanotte – ora brasiliana – il Tribunale Supremo Elettorale ha trasmesso i risultati completi dell’elezione per la presidenza e per i governatori dei 13 Stati, più il Distretto Federale (Brasilia), cioè in totale 14.

Il Brasile – che ha una struttura federale – è composto da 26 Stati. La metà aveva già eletto il proprio governatore al primo turno, il 7 ottobre 2018. In altre parole, gli altri candidati alla carica di governatore – che hanno un ruolo importante nella struttura del sistema politico – erano già stati “insediati”, avendo ottenuto la maggioranza assoluta il 7 ottobre. Quelli che dovevano ancora essere designati, lo sono stati domenica 28 ottobre. La scelta dei governatori riguardava Stati ricchi e densamente popolati, compresi quelli di São Paolo, Minais Gerais, Rio de Janeiro, Paraná, etc.

I risultati delle elezioni presidenziali sono ovviamente importanti. Ma trascurare la ripartizione dei governatori nell’attuale contesto è una pericolosa negligenza politica. Ritorneremo su questo aspetto.

Il retroterra delle elezioni

Due dinamiche socio-economiche devono essere tenute in considerazione per comprendere il contesto di una tale elezione in Brasile e, soprattutto, per cogliere questo sviluppo, in parte anomalo, del potere economico e politico. Le tendenze proprie del processo di accumulazione del capitale e della distribuzione del plusvalore prodotto dalla forza lavoro e monopolizzate dai gruppi dominanti ci segnalano che il Brasile è caratterizzato, contemporaneamente, dalla presenza di

1°: disuguaglianze sociali molto profonde, con caratteristiche ancora in gran parte riconducibili al periodo della schiavitù, terminata solo nel 1888. Questa data tardiva è il prodotto dell’inerzia dovuta alla presenza di una formazione sociale di tipo schiavistico durata oltre due secoli, come hanno magistralmente messo in evidenza gli studi di Jacob Gorender;

2°: disuguaglianze regionali esacerbate in un paese dalle dinamiche simili a quelle di un continente.

Questa disuguaglianza spaziale e sociale si è ulteriormente accentuata con gli effetti della stagnante riforma agraria (dal 2003, primo governo Lula). Questa ha favorito un esilio della popolazione rurale, a tappe, verso le grandi città. Alla radice di questo fenomeno i colpi inferti dall’estensione delle cultura ad altra redditività (soia transgenica, arance, canna da zucchero destinata in gran parte ai biocarburanti, etc.), dagli allevamenti estensivi (per la carne bovina) e intensivi (gigantesche fabbriche per produrre polli in batteria, ad esempio), dalle politiche estrattiviste che comportano il saccheggio di vari minerali, idrocarburi e la deforestazione di vaste aree di territorio, in particolare in Amazzonia. Questo colossale territorio funge anche da serbatoio per le società transnazionali che vi attingono per la ricerca di molecole (piante, alberi, insetti vari, funghi…) potenzialmente in grado, alla fine della catena, di produrre nuovi farmaci o nuovi materiali. In breve, si tratta di un’enorme privatizzazione del vivente.

Tutta questa conquista territoriale è stata portata avanti attraverso una “vera caccia criminale” contro i poveri, gli indigeni (indiani amazzonici, in particolare), i Neri dei quilombos, i territori “autonomi” formati dai Neri sfuggiti alla schiavitù e/o in cerca di rifugio alla fine del XIX secolo. Vere e proprie bande criminali, finanziate da grandi proprietari terrieri e dagli speculatori immobiliari, perseguitano contadini senza terra e “immigrati urbani” senza casa.

Questi ultimi sono stati (e lo sono tuttora) scacciati a seguito di progetti immobiliari o a causa della megalomania nella costruzione di impianti “sportivi” necessari alla realizzazione dell’impero olimpico (nel 2016 a Rio de Janeiro) – sotto la guida del CIO, con sede a Losanna – o dei Mondiali di calcio (nel 2014), su ordine della FIFA, nota organizzazione filantropica con sede a Zurigo, a quel tempo guidata da Sepp Blatter, al quale senza dubbio andrebbe assegnato “il pallone d’oro” della truffa…invitato (privato) a Mosca in occasione dell’ultimo mondo, per evitare un possibile arresto.

La mancata comprensione di questi elementi socio-economici e storici elementari porta i commentatori “colti” – in realtà veri e propri primitivi del pensiero – a ripetere in continuazione dati relativi al numero di omicidi e alla “violenza” – quasi “naturale”, quasi “culturale” – che dominano il Brasile. In questo modo, riprendono in un certo senso un tipo di discorso “bolsonarista”, senza nemmeno rendersene conto, tanto le loro menti sono obnubilate dai comunicati, molto sintetici, diffusi dalle agenzie di stampa.

Dilma Rousseff, Michel Temer, Jair Bolsonaro

I risultati completi – compresi i voti dei 500’727 elettori brasiliani che hanno votato in 99 paesi – erano disponibili pochi minuti dopo la mezzanotte. Il voto elettronico ha permesso, premendo il numero 13, di scegliere il candidato del “Fronte Democratico”, in realtà il Partito dei Lavoratori, o il 17, il capitano in pensione e deputato federale per 27 anni: il neofascista Jair Bolsonaro.

Il risultato del voto presidenziale del secondo turno: 55,13% per Jair Messiah Bolsonaro, con 57’977’423 voti; Fernando Haddad: 44,87%, ovvero 47’040’574 voti; quindi un vantaggio di 10 milioni di voti a favore dell’ammiratore della dittatura, colui che promette e attuerà un’accelerazione delle controriforme sociali ed economiche già avviate dal sordido Michel Temer. Un Temer che, senza timore, ha sostituito Dilma Rousseff, dopo la sua destituzione nell’agosto 2016. Michel Temer era stato candidato alla vicepresidenza formando un ticket con Dilma Rousseff, il che spiega non solo la sua successione, ma anche la sua determinazione a eliminarla. Termina il suo mandato con il 4% di “opinioni favorevoli” e diversi processi che lo attendono, forse…

Dilma Rousseff è stata sconfitta al primo turno delle elezioni (il 7 ottobre) per la carica di senatrice nell’importante stato di Minais Gerais, con il 15,21% dei voti, nonostante un investimento finanziario di oltre 5 milioni di reais. È stata battuta da un reazionario legato a Bolsonaro, Rodrigo Pacheco (del partito dei Democratici: un vero e proprio ossimoro). In realtà essa è arrivata addirittura al quarto posto. Il suo “destino”, come quello di Temer, anche se certamente diverso, illustra la farsa politica ed elettorale messa in atto dal PT durante le elezioni presidenziali dell’ottobre 2014. Le conseguenze ultime si sono manifestate chiaramente il 28 ottobre 2018.

Risultati che parlano da soli

Jair Messiah Bolsonaro è l’ottavo presidente direttamente eletto dopo il periodo della dittatura militare del 1964-1985. È il terzo militare a vincere la presidenza con voto diretto. Nel 1910, Hermes Fonseca, ex ministro della Difesa, ammiratore dell’esercito prussiano e cattolico conservatore, viene eletto a questa carica. Introdusse il “servizio militare obbligatorio”. Visse in Svizzera per sei anni negli anni ’20.

Nel 1945, Euricio Gaspar Dutra (1883-1974) fu eletto presidente e rimase in carica dal gennaio 1946 al gennaio 1951. In precedenza era stato anche ministro della guerra dal 5 dicembre 1936 al 3 agosto 1945.

Svolse un ruolo nella congiura per fondare l'”Estado Novo” nel 1937, con Getulio Vargas. Un progetto che combinava un’affermazione nazionalista di fronte dei vecchi imperialismi, un potere autoritario, una certa politica di sviluppo (avviando una politica di sostituzione delle importazioni) e un feroce anticomunismo.

Insieme a questa opzione, di fronte al boom argentino, il Brasile concluse l’inizio di un’alleanza con gli Stati Uniti, che divenne realtà durante la seconda guerra mondiale, in una direzione politicamente opposta a quella dell’Argentina.

Il terzo militare dopo il 1945, eletto a suffragio universale diretto, è un semplice capitano, poiché aveva fallito la propria carriera, riciclato come deputato federale di São Paolo e confermato per 27 anni: Jair Messiah Bolsonaro.

L’esame dei risultati ottenuti nei vari Stati permette di circoscrivere meglio la vittoria di questo candidato neofascista (in grassetto i pochi Stati in cui Fernando Haddad è al primo posto, con tutte le percentuali di voti e il numero di voti).

São Paolo: Jair Bolsonaro (JB) ha ottenuto il 67,97% dei voti, ovvero 15’305’786 elettori; Fernando Haddad (FH), 32,03% con 7’212’092.
Rio Grande Do Sul: 63,24% (JB), ovvero 3’893’737 voti; 36,76% (FH), 2’263’171.
Rio de Janeiro: 67,95% (J.B), 5’668’950; 32,05% (FH), 2’673’278.
Minais Gerais: 58,19% (JB), 6’100’107; 41,81 (FH), 4’382’952.
Santa Caterina: 75,92% (JB); 24,08% (FH), 949’724.
Paranå: 68,43% (JB) 4’224’416; 31,57% (FH), 1’948’790.
Pernambuco: 66,5% (FH), 3’297’944; 33,5% (JB)’ 1’661’163.
Mato Grosso: 66,42% (JB), Sul 1’085’824; 33,58% (FH) 549’001.
Matto Grosso do Sul: 65,22% (JB), 872’049; 34,78 (FH),465’025.
Maranhão: 73,26% (FH) 2’428’790; 26,74% (JB), 886’547.
Espírito Santo: 63,06% (JB); 36,94% (FH), 747’768.
Distrito federale: 69,99% (JB), 1’080’411; 30,01% (FH), 463’340.
Acre: 77,16% (JB) 290’632; 22,84% (FH), 86’009.
Alagoas: 59,92% (FH), 912’034; 40,08% (JB)’ 610’093.
Amapá: 50,2% (JB), 185’096, 49,8% (FH), 183’606.
Amazonas: 50,27% (JB), 885’391; 49,73%(FH), 875’805.
Bahia: 72,69% (FH), 5’484’901; 27,31% (JB), 2’060’092.
Cearã, 71,11% (FH), 3’407’454; 28,89% (JB), 1’384’586.
Goais: 65,52% (JB, 2’124’739); 34,48% FH), 1’118’060.
Para: 54,82% (FH) 2’112’577; 45,19% (JB), 1’742’092
Rio Grande do Norte: 63,41% (FH), 1’131’027; 36,59% (JB), 652’562.
Paraíba: 64,97% (FH)1’450’709; 35,03% (JB), 782’034.
Roraima: 71,57% (JB), 183’233; 28,43% (FH), 72’791.
Rondônia: 72,18% (JB), 594’968; 27,82% (FH), 2
Piauí : 77,05% (FH), 1’417’113; 22,95% (JB), 442’095.
Sergipe: 67,54% (FH), 758’797; 32,46% (JB), 364’621.
Tocantins: 51,01 (FH), 371’376; 48,99 (JB), 356’681.

Gli ultimi sondaggi di Ibope o Datafolha erano molto vicini ai risultati effettivi’ “La “sorpresa” elettorale non è stata quindi molto grande.

È necessario tornare al 2013 per comprendere a fondo l’inizio della svolta politica manifestatesi in queste elezioni. Esso prende avvio nel giugno di quell’anno durante il quale si era messa in luce tutta la codardia del PT, incapace di rispondere con azioni (movimento per il trasporto gratuito, tra gli altri) e un deciso contrattacco alla presenza di gruppi radicali di destra in quel movimento. Un movimento che riuscì a mettere non solo il PT sulla difensiva, ma anche le formazioni della sinistra radicale che si sono divise sull’analisi della “natura del movimento” – con sociologi che ne sondavano l’anima e il cuore, standone alla larga beninteso – incapaci di rispondere – in una mobilitazione pluralista – alle provocazioni dell’estrema destra. Quella situazione fu un segnale evidente che si era formato un fossato tra, da un lato, una parte della popolazione, in particolare settori pauperizzati e una frazione della gioventù, e, dall’altro, la cosiddetta “classe politica”.

È in questo contesto che è iniziata la mobilitazione, ben organizzata, contro il governo di Dilma Rousseff, che non solo non applicava le sue “promesse” elettorali, ma moltiplicava le concessioni ai ruralisti (proprietari terrieri).

Ad esempio, ha nominato Kátia Abreu alla direzione del ministero dell’Agricoltura dal gennaio 2015 al maggio 2016. Ora, quest’ultima era stato per anni (dal 1995 al 2005) – in qualità di proprietaria di una grande azienda agricola nello Stato del Tocantins – la presidente dell’associazione dei proprietari rurali di questo Stato. Poi, proseguendo nella sua carriera, è diventata presidente della CNA (Confederazione dell’Agricoltura e dell’Allevamento in Brasile) tra il 2008 e il 2011, svolgendo con fermezza il suo ruolo di difensore dei ruralisti. Essa ha rappresentato le rivendicazioni e gli interessi di questi ultimi. Gli stessi della “frazione B” (Beef), del complesso reazionario: BBB, cioè Beef (allevamento bestiame), Balles (armi) e Bible (Bibbia). Tutto questo non ha posto alcun problema alla sua “amica” Dilma Rousseff.
All’indomani di una simile sbandata governativa, si è cominciato ad organizzare la mobilitazione della destra contro il governo del PT e, simbolicamente per personalizzare la campagna, contro Dilma Rousseff.

Questa mobilitazione è cominciata nello stesso momento in cui la crisi economica cominciava a colpire duramente il Brasile, di fatto già nel 2014, con un picco nel 2015-2016, prolungandosi nel 2017.

Il risultato è stato l’impoverimento di uno strato sociale che aveva pensato di poter progredire nella “scala sociale” – pochi passi, non di più! – che ha così deciso di esprimere la propria delusione cercando un “capro espiatorio”. Era tutto pronto per essere servito! Infatti, è emerso, in modo evidente, dagli “scandali di corruzione” che hanno colpito tutti i partiti, ma in particolare il PT perché la sua immagine era legata all’opposizione al regime della corruzione che da tempo operava nella politica brasiliana; qualcosa di simile allo stupore di alcuni di fronte ai principi del clero cattolico, confrontato con le pratiche pedofile.

Da qui il passo è stato breve, grazie ad una circostanza particolare. L’operazione “mani pulite” alla brasiliana (Lava Jato) ha destabilizzato tutti i partiti politici. La parziale autonomia della magistratura, la giudiziarizzazione della cosiddetta vita politica e, infine, i metodi utilizzati – riprendendo il modello italiano ammirato dal giudice Sergio Moro, cioè quello di convincere gli accusati a trasformarsi in testimoni d’accusa (potendo così contare su una riduzione della propria pena detentiva) denunciando i propri amici e compagni di partito, sono tutti elementi che hanno contribuito a sviluppare un continuo e crescente flusso di “casi”, sempre più difficili da contenere. Si è così formato un intreccio tra la crisi economica, quella del regime politico, del rapporto tra istituzioni e “controllo della popolazione”, fino a misure di militarizzazione di uno Stato da parte del potere centrale, come nel caso di Rio de Janeiro. Jair Bolsonaro, nel frattempo e con i suoi sostenitori, preparava il terreno.

I due partiti che hanno dominato il campo politico dalla fine della dittatura sono stati molto scossi e lo sono ancora:
1° il PSDB (Partito della Socialdemocrazia Brasiliana), in cui la figura emblematica era ed è Fernando Henrique Cardoso, che ha vissuto l’esilio a Parigi durante parte del periodo dittatoriale
2° il PT lulista; Lula è stato uno dei personaggi fondamentali di quel nucleo che aveva lanciato il PT nei primi anni Ottanta, diventando poi l’uomo del “lulismo”, dopo essere stato il leader del PT.

Il fatto che questi due partiti abbiano costantemente formato le alleanze politiche e finanziarie tra le più “marce” per controllare il legislativo (Assemblea dei deputati e il Senato) scredita ulteriormente le altre formazioni politiche complici quali il PMDB (ora MDB di Temer) o il Partito Democratico Laburista (PDT) il cui leader è Ciro Gomes, candidato a queste elezioni presidenziali del 2018 nelle quali ha ottenuto il terzo posto con il 12,47% dei voti, mentre Géraldo Alckmin del PSDB ha raggiunto appena il 4,76% dei suffragi.

In questa breccia aperta da questa moltiplicazione di shock, si sono inserite piccole formazioni politiche. Tra queste, il PSL (Partito Social-Liberale) di Jair Bolsonaro, che inizialmente ha trovato sostegno tra le fazioni dell’esercito i cui membri sono stati molto attivi nella campagna elettorale. Poi ha allargato il suo sostegno ad una rete di comunicazione controllata dalle chiese evangelica e pentecostale che da anni rendono la vita difficile alla Chiesa cattolica. Queste chiese organizzano le loro basi (attive durante la campagna) con un sistema di solidarietà – che consiste nel ridistribuire una frazione delle somme rubate ai “loro” fedeli ad una piccola percentuale di eletti riconoscenti – e una macchina di socializzazione, soprattutto per i disperati che vivono nelle grandi città e provengono dall’esilio rurale.

A tutto ciò si aggiungere quello che l’Economist (27 ottobre-2 novembre 2018) descriveva come un’adesione esitante di una frazione della grande capitale con il seguente obiettivo: “Sotto la presidenza di Bolsonaro, il Brasile [di chi?] può sperare in una riforma [del settore pubblico], in un’economia in rapida crescita [stimolata dalle privatizzazioni il cui difensore è il consigliere di J. Bolsonaro: Paulo Guedes] e con un presidente che controlla le sue pulsioni autoritarie”. Un vero programma per il capitale brasiliano!

Ma tra questi progetti, queste visioni prospettiche tecnocratiche, e le forze sociali e politiche messe in movimento, la collisione è quasi certa.

Ritorneremo sulla situazione in Brasile, tra l’altro esaminando le elezioni dei governatori, le reazioni popolari “immediate” e l’annuncio della Folha de São Paulo secondo il quale “Bolsonaro trasloca il suo bunker a Brasilia”, cioè l’inizio della formazione di un nuovo governo che apre un nuovo periodo politico in Brasile. Tanto più che queste elezioni prolungano quelle della Colombia, del Cile, dell’Argentina di Macri, di diversi poteri autoritari – di origine diversa in America Centrale – e del disastro totale del governo Maduro in Venezuela, che diventa, sulla base di ciò che la popolazione sta effettivamente vivendo (quando non è esiliata in massa), uno spauracchio al quale ricorrere con grande facilità.