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Non è certo una sorpresa che il rapporto speciale dell’IPCC (Il comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici dell’Onu – più conosciuto con l’acronimo GIEC) sul riscaldamento di 1,5°C confermi come l’impatto dei cambiamenti climatici di origine antropica sono eccezionali e sono stati sottovalutati, sia dal punto di vista ambientale che da quello sociale.

Il riscaldamento di 1°C, che stiamo già sperimentando, è di per sé già sufficiente a causare grandi tragedie: ondate di calore senza precedenti, cicloni ultraviolenti, inondazioni, scioglimento dei ghiacciai e dislocamento delle calotte glaciali. Questi fenomeni danno la misura di ciò che ci attende se il riscaldamento antropico non verrà fermato il più presto possibile. La catastrofe non può più essere evitata, ma è comunque possibile e necessario limitarla al massimo.

Il rapporto non lascia alcun dubbio: il riscaldamento di 2°C avrebbe conseguenze molto più gravi del riscaldamento di 1,5°C incluso nell’accordo di Parigi (a seguito della pressione dei piccoli Stati insulari, dei paesi meno “avanzati”, degli scienziati e dei movimenti in difesa del clima). Stando a studi recenti, la soglia che ci farebbe entrare in un vero e proprio “forno planetario” potrebbe essere superata anche a 2°C. È quindi necessario compiere ogni sforzo possibile per garantire che il limite massimo di 1,5 °C. venga rispettato.

Il rapporto dell’IPCC stima che ciò sarà estremamente difficile, se non impossibile, anche ricorrendo in modo massiccio alle cosiddette “tecnologie a emissioni negative” o alla geoingegneria [le tecnologie ad emissioni negative mirano a rimuovere il carbonio dall’atmosfera, le tecnologie di geoingegneria dovrebbero limitare l’ingresso di energia solare nell’atmosfera]. Il rapporto evoca infatti lo scenario di un “superamento temporaneo”, compensato da un raffreddamento nella seconda metà del secolo, proprio grazie a queste tecnologie.

Si tratta di uno scenario estremamente pericoloso. Infatti, la situazione è così grave che il superamento temporaneo potrebbe essere sufficiente a provocare spostamenti non lineari e irreversibili su larga scala, quali la rottura improvvisa di gran parte delle calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide, con conseguente innalzamento di diversi metri del livello del mare. Questi spostamenti potrebbero innescare effetti a cascata, spingendo il sistema Terra verso un riscaldamento che tenderà ad autoalimentarsi. Inoltre, queste tecnologie da apprendisti stregoni alle quali si fa riferimento sono ancora ipotetiche e i loro effetti potrebbero essere molto negativi.

“Ogni tonnellata di CO2 non emessa conta”, affermano gli scienziati. Ogni tonnellata conta, in effetti. Per salvare il clima è quindi necessario che l’uso di tutti i combustibili fossili sia completamente bloccato il più presto possibile. E, allora, perché, allora, gli esperti non contano anche le emissioni derivanti dalla produzione e dal consumo di cose inutili o nocive – come, ad esempio, le armi -, o, ancora, dall’obsolescenza programmata dei prodotti o dall’assurdo trasporto di merci che servono solo a massimizzare i profitti delle multinazionali?

Una misura immediata per ridurre le emissioni generate dal trasporto aereo e marittimo internazionale dovrebbe consistere in una tassa progressiva sui combustibili fossili utilizzati. Il ricavato di questa tassa dovrebbe essere ridistribuito al Sud del mondo attraverso il Green Climate Fund.

Di fatto, qualsiasi strategia seria tesa ad evitare il superamento dell’1,5°C di riscaldamento comporta prioritariamente l’eliminazione delle produzioni inutili e nocive, oltre che l’abbandono dell’agrobusinnes a favore di un’agroecologia locale (che può fissare enormi quantità di carbonio nel suolo pur fornendo cibo sano per tutti e tutte). Ma questo significa rompere con la legge del profitto capitalista. Ora, questa legge è alla base di tutti gli scenari relativi all’evoluzione sociale che servono come base per le proiezioni climatiche. Il quinto rapporto dell’IPCC lo scrive nero su bianco: “I modelli climatici presuppongono mercati pienamente funzionanti e un comportamento del mercato concorrenziale”.

La valutazione dell’IPCC è decisiva quando si tratta di valutare il fenomeno fisico del cambiamento climatico. Tuttavia, le sue strategie di stabilizzazione sono vanificate dalla sottomissione della ricerca agli imperativi capitalistici di crescita e profitto. Lo scenario di un superamento temporaneo di 1,5°C – con il mantenimento dell’energia nucleare e il ricorso a tecnologie a emissioni negative o alla geoingegneria – è dettato principalmente da questi imperativi.

Il rapporto dell’IPCC su 1,5°C servirà come base per i negoziati della COP24. Queste trattative dovrebbero permettere di colmare il divario tra il massimo di 1,5°C deciso a Parigi e i 2,7°-3,7°C previsti sulla base degli attuali impegni dei governi (“contributi determinati nazionalmente”). Ma i capitalisti e i loro rappresentanti politici viaggiano con il freno tirato: per loro non entra in considerazione la rinuncia all’estrazione dei fossili, né tantomeno di rompere con il neoliberismo, o di affermare la sovranità alimentare, o, ancora, di socializzare il settore energetico che permetta di sviluppare un avvicinamento il più rapido possibile a un sistema 100% rinnovabile; in poche parole, nessun strategia che abbia a che fare con una transizione veramente adeguata o con la giustizia climatica. Al contrario: c’è un grande rischio che le ipotetiche “tecnologie a emissione negativa” vengano utilizzate come pretesto per indebolire ulteriormente gli obiettivi di riduzione delle emissioni.

“Ogni tonnellata di CO2 non emessa conta”. Ma chi tiene il conto, sulla base di quali priorità sociali, al servizio di quali bisogni, determinati da chi e come? Da un quarto di secolo ormai, i conti sono tenuti dai capitalisti e dai loro governi, in totale disprezza di qualsiasi forma di reale democrazia. Il risultato è noto: più disuguaglianza, più oppressione e sfruttamento, più distruzione ambientale, più accaparramento di terre, più appropriazione delle risorse da parte dei ricchi… e una minaccia climatica più grande che mai. È giunto il momento di cambiare le regole del gioco.

Una forte mobilitazione globale dei movimenti ambientalisti, sindacali, contadini, femministi e indigeni è necessaria e urgente. Non basta più indignarsi ed esercitare pressioni su coloro che decidono.

Dobbiamo insorgere, costruire la convergenza delle lotte, scendere per le strade e nelle piazze a decine di milioni, bloccare gli investimenti fossili, l’accaparramento delle terre e il militarismo, impegnarsi attivamente nel sostegno ai contadini e alle contadine, porre le basi per pratiche sociali che vadano oltre il quadro capitalistico…

La questione climatica è una questione sociale fondamentale. Solo gli/le sfruttati/e e gli/le oppressi/e sono in grado di fornire risposte adeguate ai loro interessi. Ecosocialismo o barbarie: questa è la scelta che si sta profilando in modo sempre più evidente. Il nostro pianeta, le nostre vite, la nostra vita, la vita stessa, valgono più dei loro profitti!