Sulle concitate vicende che hanno portato al varo della “Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2018 (DEF)”, con i dirigenti del M5S sul balcone di Palazzo Chigi ad esultare insieme ai loro sostenitori in piazza, è opportuno fare due ordini di considerazioni prima di entrare nel merito delle decisioni assunte.
Due considerazioni introduttive
La prima è politica: i due partiti che compongono il governo, avendo creato una fortissima aspettativa nel loro elettorato popolare sulle misure da intraprendere, erano quasi con l’acqua alla gola; temevano che qualsiasi scelta che fosse anche solo sembrata un palese passo indietro avrebbe invertito l’orientamento favorevole dell’opinione pubblica nei loro confronti. Questo era tanto più vero per i grillini in grande affanno di fronte al ruolo arrembante del loro alleato, alle palesi dimostrazioni d’incapacità politica ed amministrativa dei suoi ministri e alla mancanza di risultati che le parole e il sorriso perenne di Di Maio non potevano più compensare; ma valeva in parte anche per la Lega, pure molto rafforzata dalla campagna barbarica contro i migranti, ma bisognosa di dare al suo popolo piccolo e medio borghese di imprenditori, evasori e sfruttatori, di cittadini plaudenti le misure securitarie a difesa della “loro roba”, la pulizia delle strade dai derelitti schiacciati dalla polarizzazione sociale e il carcere per chiunque oserà occupare una piazza o uno stabile vuoto, anche qualcosa di più concreto in danè o in schèi.
La seconda è legislativa e materiale: la strada della realizzazione delle misure annunciate, cioè la sua articolazione nella legge finanziaria è lunga e complessa; per verificare la reale concretezza degli assunti bisognerà conoscere le precise formulazioni del disegno di legge che dovrà essere varato entro il 15 ottobre.
Per ora vale l’effetto, non certo secondario e politicamente significativo, dell’annuncio che il Consiglio dei Ministri si è pronunciato per un consistente aumento del deficit annuale di bilancio (2,4%) e per ben tre anni, superiore di 0,8 punti percentuali rispetto (e in aperto contrasto) alle indicazioni delle istituzioni europee.
La quadratura del cerchio?
Quale problema avevano davanti gli uomini del M5S e della Lega? Come risolvere la quadratura del cerchio volendo nello stesso tempo aumentare le spese con il reddito di cittadinanza e la revisione parziale della Fornero e ridurre in diverse forme le imposte con la conseguente contrazione delle entrate per lo Stato? I due elementi sono evidentemente contradditori. La soluzione avrebbe dovuto essere quella di reperire i soldi là dove ci sono, cioè ridare allo stato le decine di miliardi che sono stati trasferiti alle imprese e ai padroni nel corso degli anni attraverso diverse riduzioni di imposizione fiscale o di finanziamento più o meno diretto. Ma questo sarebbe stato in totale contrasto con la natura e i programmi dei due partiti nonché con gli interessi dei settori borghesi che rappresentano.
Il deficit pubblico accumulato è infatti il risultato delle scelte liberiste che da oltre 25 anni hanno portato in Italia (ma anche negli altri paesi) a una costante riduzione delle imposte sia individuali per i ricchi (IRPEF), sia per le imprese (IRES, IRAP), che è stata una costante dei governi del centro destra (Berlusconi e Lega), di quelli del centro sinistra (D’Alema, Prodi, Renzi e Gentiloni), e di quelli “tecnici di coalizione” (Monti).
I due partner di governo si sono dati il compito di distribuire diversamente dai governi del PD, più legato agli interessi della grande borghesia inserita nel quadro capitalista europeo, la ricchezza prodotta, cioè il plusvalore ricavato dallo sfruttamento delle classi lavoratrici, tra i vari settori del padronato piccolo e grande, molti dei quali pressati dalla forte concorrenza capitalista internazionale.
La corsa al taglio delle tasse sulle imprese
Pochi giorni fa il Sole 24 ore pubblicava un articolo assai significativo “Corsa mondiale al taglio delle tasse sulle imprese” che dettagliava paese per paese gli enormi sgravi fiscali di cui hanno beneficiato le società e di cui beneficeranno ancora di più in futuro dopo che Trump ha rilanciato la corsa al ribasso. In genere mentre in passato il prelievo fiscale sulle imprese aveva aliquote intorno al 33-34%; oggi si viaggia sul 24-25% (ad eccezione della Francia che è ancora al 33,33%, ma lo sarà per poco) con l’Italia al 24%; alcuni paesi sono già scesi sotto il 20% e l’Irlanda guida la corsa addirittura con il 12,5%; gli Usa sono al 21% e Germania è al 15,825%, ma l’imposizione in questo paese sale poi di molto per effetto delle imposte locali.
Ora al centro del DEF di Salvini e Di Maio c’è esattamente la proposta di ridurre ancora l’imposizione fiscale sia sulle persone fisiche (nel 2021 si dovrebbe scendere a due sole aliquote, con quella superiore sugli alti redditi appena al 33%, oggi è al 43%), e quella sulle imprese che dovrebbe progressivamente scendere al 15%.
Per ora la prima fase della flat tax avverrebbe tramite l’innalzamento delle soglie minime per il regime semplificato di imposizione su piccole imprese, professionisti e artigiani e il taglio dell’imposta sugli utili d’impresa (Ires) per le aziende che reinvestono i profitti e assumono lavoratori aggiuntivi.
Ma c’è anche di più nelle scelte pentaleghiste: c’è anche il tanto desiderato condono; vedremo presto se sarà più o meno tombale, su quali livelli sarà definito, se sarà fiscale od anche contributivo, quanto sarà ingiusta la cosiddetta “pace fiscale”, cioè il premio a quelli che hanno rubato allo stato e alla collettività penalizzando le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, che non possono sfuggire al fisco sottostando al sostituto di imposta.
Salvini e Di Maio sul terreno fiscale sono quindi del tutto interni alle scelte dei governi precedenti ed in continuità con le politiche liberiste dominanti.
Il reddito di cittadinanza e l’intervento sulla Fornero
Qualcuno obietterà: “già, ma allora il reddito di cittadinanza e l’intervento sulla Fornero dove lo mettiamo?” Premesso che è necessario dare un reddito per vivere a tutti, noi abbiamo sempre sostenuto che un intervento sul salario sociale va fatto, ma deve essere correlato a un contemporaneo vasto progetto di spesa e di investimenti pubblici funzionali a soddisfare i bisogni della società creando posti di lavoro stabili e remunerati adeguatamente al fine di spezzare le spirali della povertà, insieme a una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e a una rinnovata lotta per aumenti salariali. Non è questo l’intenzione del governo che parla genericamente d’investimenti pubblici di cui non è per nulla chiara l’entità e la direzione. Il reddito di cittadinanza, o per usare il termine del PD di “inclusione”, non è in contrasto con le impostazioni liberiste che presuppongono la piena libertà di sfruttamento del lavoro e la garanzia dei profitti congiunte a un intervento pubblico più o meno caritatevole per impedire contradizioni sociali troppo forti per gli equilibri del sistema.
Per quanto riguarda il “superamento della Fornero” (ma essa andrebbe abrogata del tutto), bisognerà vedere in concreto come si tradurrà. E’ opportuno ricordare che non solo i lavoratori hanno necessità di andare in pensione, ma che anche le aziende sono interessate a liberarsi di una manodopera logora e che ancora dispone di contratti meno svantaggiati, per poter assumere una forza lavoro giovane, quindi più produttiva e sfruttabile, assunta con le nuove e vantaggiose (per i padroni) forme contrattuali. La Lega deve andare incontro alle esigenze dei lavoratori che la sostengono, ma ancor più sostenere gli interessi dei padroni a cui è collegata. E questo vale anche per il M5S.
Bisognerà vedere quale potrà essere la penalizzazione sull’entità dell’assegno pensionistico, soprattutto se esso sarà calcolato con il metodo contributivo; da verificare poi se questo passaggio diventerà lo strumento per la generalizzazione del sistema contributivo, obbiettivo comune di tutta la vorace combriccola politica e sociale capitalista a partire dall’attuale presidente dell’INPS e di colui che la Lega vuole mettere al suo posto.
Infine sul deficit di bilancio
Ho lasciato per ultimo, ma non per ultimo, la riflessione sul tema che oggi tutti i media sparano in prima pagina: il reperimento delle risorse portando il deficit di bilancio al 2,4%.
In fondo è quello che anche noi di sinistra abbiamo sempre chiesto ci dicono alcuni; rompere con le imposizioni del Fiscal compact europeo, rompere con l’assurdità del pareggio di bilancio inserito nella Costituzione, non aver paura di finanziare in deficit la spesa pubblica e il rilancio dell’economia e quindi del lavoro.
E’ vero, un governo di sinistra vera, sostenuto dalle classi lavoratrici dovrebbe farlo e potrebbe farlo anche di più. Ma lo dovrebbe fare non riducendo le tasse ai ricchi e alle imprese, ma aumentandole per reperire il massimo di risorse per una vasto piano sociale ed occupazionale. E lo dovrebbe fare anche dicendo chiaramente che non intende “onorare” il debito, che anzi lo rigetta in tutto o in parte, costituendo esso una ingiusta compressione dei salari, delle pensioni, dell’occupazione e dello stato sociale a sostegno delle rendite finanziarie. Per realizzare tutto questo dovrebbe effettivamente rompere i vincoli capitalistici del mercato e mobilitare i lavoratori; in altri termini mettere in moto un processo sociale in grado di creare i rapporti di forza necessari per reggere lo scontro con le forze padronali sia a livello nazionale che a livello internazionale. E’ il nodo che si era posto in Grecia e che il governo Tsipras, pur avendo la spinta popolare del voto su referendum, ha risolto negativamente piegandosi al memorandun liberista.
Molti giornali e il PD polemizzano sul fatto che la scelta del governo farà schizzare verso l’alto il cosiddetto spread, che i mercati la sanzioneranno e che l’Europa aprirà una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia. Più sobria la reazione del Sole 24 ore che si limita a precisare che si può aumentare il deficit ma solo se serve a crescere e a sviluppare investimenti per il rilancio. Inutile fare previsioni su quel che avverrà perché i meccanismi non sono così automatici e perché in questa storia c’è un intreccio sinergico tra dinamiche economiche e considerazioni politiche dei governi e degli stati.
Da una parte ci sono le regole liberiste del fiscal compact, che hanno una loro logica, sono quelle che servono a tenere in equilibrio (precario) un’Unione Europea costruita in forme assolutamente contradditorie scaricando sulle classi lavoratrici tutte il peso di queste contraddizioni; il non rispetto può mettere in moto la speculazione dei mercati e rendere estremamente difficile e molto costoso l’accesso al credito da parte dello stato.
Naturalmente queste regole valgono per quello che valgono e non sono eguali per tutti. Francia e Germania, data la forza del loro paese e dei loro fondamentali macroeconomici, hanno potuto permettersi deficit di bilancio ben superiori senza che nessuno potesse dire niente e che i mercati fossero scossi.
Ma poi ci sono anche gli atti e le convenienze politiche; anche settori fortemente liberisti, negli ultimi anni, di fronte alle crisi possibili hanno assunto scelte più pragmatiche e le norme europee sono state variamente interpretate e stiracchiate. Ed è stato proprio il governo Renzi a beneficiare di queste disponibilità politiche, riuscendo ad ottenere significativi margini di flessibilità nella definizione delle leggi di bilancio. Il Manifesto ieri parlava giustamente di un “tira e molla” possibile tra il governo italiano e Bruxelles, anche perché, in fondo, uno 0,8 percentuale di punto in più non è la fine del mondo ed è possibile che nel difficile quadro europeo attuale nessuno voglia aprire uno scontro troppo forte con l’Italia.
Significativa in proposito la dichiarazione del commissario europeo agli affari economici Moscovici di questa mattina: “ Non abbiamo alcun interesse ad aprire una crisi tra l’Italia e la Commissione, ma non abbiamo neanche interesse a che l’Italia non riduca il suo debito pubblico, che rimane esplosivo”.
E’ proprio su questa possibilità che puntano Salvini e Di Maio; anche le pressioni del Presidente della Repubblica che ha impedito le dimissioni di Tria sembrano andare in questa direzione.
Nuovi tagli alla spesa sociale
Per riassumere la destinazione delle risorse: 12-13 miliardi servono per sterilizzare l’aumento dell’IVA, 7-8 miliardi per intervenire sulla Fornero, 10 miliardi per il reddito di cittadinanza, qualche altro miliardo, forse 7 per il taglio delle tasse. Inoltre saranno necessari alcuni altri miliardi per pagare l’aumento degli interessi del debito, fatto che ridurrà l’avanzo primario.
Sono calcoli all’ingrosso ma qualcosa non quadra di evidenza. Il passaggio del deficit dall’1,6% al 2,4% difficilmente basterà per reperire le risorse sufficienti per finanziare tutte queste misure. E allora dove si prendono gli altri soldi? “Naturalmente”, dirà qualcuno, “dal taglio delle “spese inutili”: E’ quanto si sta facendo da molti anni e che ha dato come risultato inevitabile il taglio della spesa pubblica sociale con effetti devastanti in termini di servizi sociali, di sanità, di scuola, di intervento degli Enti locali, una delle cause del degrado che attraversa il paese. Dopo Belusconi, Monti e Renzi anche l’impresentabile duo Di Maio e Salvini andrà in questa direzione.
Il disegno di legge della finanziaria ci presenterà a breve ben amare sorprese. Alcuni elementi inducono a pensare che non ci saranno solo 3-4 miliardi di tagli lineari già ventilati ai ministeri, ma anche una nuova rapina di 5 miliardi al welfare. Vediamo quel che sarà scritto della futura legge. Prepariamoci a contrastare un provvedimento che premia gli evasori fiscali, che non prende i soldi là dove ci sono, che non ridà i diritti ai lavoratori, che darà qualche elemosina, ma solo facendola pagare amaramente col taglio della spesa sociale e con le tasse dei lavoratori dipendenti.