Sigillare i confini dello stato nazione non è garanzia di solidarietà: sposta la competizione tra gli italiani e tutti gli altri. Al contrario, per fermare la guerra tra poveri bisogna riconoscere la composizione dei subalterni.
Sul sito Rinascita! c’è un intervento di Carlo Formenti dall’eloquente titolo «Utili idioti». La verve e il livello di polemica ricordano i durissimi scontri della tradizione marxista e, perché no, anche marxiana (basti pensare alla polemica del pensatore di Treviri contro Proudhon in Miseria della filosofia, per fare solo un esempio). Ciò che sorprende non riguarda solo i contenuti ma anche il modo piuttosto brutale di attaccare il bersaglio. Toni che sembrano figli di altri tempi, di quando le convinzioni sul progresso erano deterministicamente positiviste. Di quando il futuro era previsto con certezze che i fatti del secolo successivo avrebbero reso sempre meno monolitiche, più interlocutorie o perlomeno meno trancianti. Un po’ di prudenza oggi, dunque, non sarebbe superflua. Invece ecco quella che Formenti definisce «sinistra no border» venire accusata di svolgere la funzione degli «utili idioti» o peggio ancora di appartenere «a strati di classe che non pagano il prezzo sulla propria pelle […] quegli stessi strati di classe [che] non accetterebbero mai di vedersi ridurre, status e privilegi come conseguenza degli effetti collaterali di massicci trasferimenti di risorse al Sud». Insomma idioti o un po’ stronzi.
Le riflessioni di Formenti sulle trasformazioni dell’economia, sul ruolo dei media, sulla critica all’operaismo sono sempre state interessanti, ma negli ultimi tempi hanno preso uno sbocco politico indigesto. Il pezzo apparso su Rinascita! ruota attorno a un brano di Angela Nagle, giornalista e saggista, citato lungamente e a cui fanno seguito alcune brevi considerazioni finali dell’autore. Nagle ricostruisce la sconfitta patita da movimenti, partiti e sindacati a partire dalla fine degli anni Settanta per poi spiegare come le politiche no border da sempre siano appannaggio delle destre ultraliberiste, per le quali la libera circolazione di umani è del tutto funzionale a incrinare i rapporti di solidarietà nelle classi subalterne e a perseguire un progetto indisturbato di sfruttamento su scala sovranazionale. Sottolinea poi come, in assenza di forti movimenti, la sinistra radicale sia rimasta ancorata unicamente alla sfera dei diritti civili, abbandonando quelli sociali. Insomma i «benpensanti di sinistra divengono utili idioti al servizio del big business». La globalizzazione nel distruggere l’economia produce una tabula rasa in tanta parte del mondo, finendo per dare vita a un imponente fenomeno migratorio che da un lato impoverisce «il potenziale dei paesi di origine, dall’altro deprime i salari dei lavoratori dei paesi di destinazione». Indubbiamente un esercito industriale di riserva svolge un’efficace funzione di contenimento dei salari nei paesi occidentali e non solo, indubbiamente una certa sinistra si è soffermata unicamente sulla dimensione dei diritti civili e individuali, come è indubbio che agiscano fenomeni di sfruttamento imperialistico (Nagle ricorda correttamente come «l’Occidente incassa dall’Africa molti più soldi in interessi sul debito di quelli che invia in ‘aiuti’ in quel continente», specie se al debito pubblico si sommano quelli privati, si dovrebbe aggiungere). Ma assimilare le presunte politiche no border al neoliberismo costituisce una semplificazione che favorisce molteplici incomprensioni. Se da un lato è vero che la destrutturazione del mercato del lavoro si afferma anche attraverso l’immissione di manodopera straniera e pagata meno dall’altro le politiche neoliberiste si sono guardate bene dall’adottare politiche di apertura effettiva alle ondate di migrazione. Anzi si sono sempre premurate di coartare i nuovi arrivati rendendo sempre più complesse le occasioni di regolarizzazione e dell’esercizio di diritti. I muri, le leggi speciali, le politiche di controllo sociale non sono certo prerogativa di scelte sovraniste. Neoliberismo e controllo autoritario in questi anni sono andati a braccetto.
Tuttavia il fenomeno migratorio non si esaurisce qui. Recentemente gli storici Tommaso Detti e Giovanni Gozzini, nel loro libro L’età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017, hanno sottolineato come i processi migratori siano anche il frutto della crescita che ha contraddistinto alcuni paesi. I due affermano che «i poveri della terra non corrispondono quindi ai migranti che mediamente hanno maggiori possibilità economiche e relazioni sociali capaci di farli partire». I fenomeni migratori, dunque, sono anche un sottoprodotto dello sviluppo diseguale che va affermandosi a livello globale.
La povertà va diffondendosi nei paesi poveri come in quelli ricchi. Allo stesso tempo si affermano fenomeni di ascesa sociale relativa che, combinati persino con la diffusione di nuove tecnologie, hanno reso il mondo più piccolo e consentito ad alcuni segmenti sociali di muoversi come mai prima d’ora. Eterogenesi dei fini di un’economia di mercato che tutto fagocita.
Formenti giudica l’accusa di utili idioti proposta dalla giornalista statunitense come «fin troppo tenera», il «buonismo» sarebbe roba da «Dame di San Vincenzo», implicherebbe «la totale incapacità di riconoscere e combattere le cause di quell’immondo, ulteriore saccheggio che l’Occidente imperialista commette a danno dei popoli periferici e semiperiferici, espropriandoli delle loro migliori risorse umane». Ma dove vuole andare a parare allora la critica, mossa da crescenti segmenti della stessa sinistra radicale, alla sinistra no border o buonista? Formenti contrappone la necessità di estinguere i debiti che strangolano quelle popolazioni con la vocazione ad «accoglierne indiscriminatamente le masse in fuga dalla miseria, aggravando ulteriormente le condizioni delle classi popolari occidentali» già sufficientemente colpite dalla crisi, finendo per alimentare la classica guerra tra poveri.
Che fare allora? Qual è la proposta? Non è del tutto esplicitata, ma l’idea sembra fondamentalmente quella di inseguire le destre sul loro terreno. Certo si parte con la critica al sistema diseguale, allo sfruttamento internazionale, ma si finisce per rispolverare da sinistra l’«aiutiamoli a casa loro». Progetto antimperialista lodevole che si infrange di fronte alle centinaia di migliaia che arrivano in Europa.
Il no border di cui si parla non è un principio politico, anzi sembra un fantasma, e ricorda tanto il fantasma della teoria gender agitato da diversi cattolici nelle scuole. Il vero nodo è cosa si fa con i migranti. Non sembra utile disquisire sul fatto che non dovrebbero essere sradicati dalle proprie terre. Il dato è che sono qui. Che l’odio sociale contro di loro sta montando e contribuisce a disarticolare le classi subalterne, finendo per indebolirle da un lato e impedendole di comprendere la natura della posta in gioco dall’altro. Il sovranismo, volenti o nolenti, liscia il pelo ai peggiori istinti razzisti, anzi rischia di alimentarli, non certo contribuisce a circoscriverli. L’ambizione illusoria (in quanto trascura completamente come i principi ipercompetitivi si possano innervare anche su una scala nazional-statuale) del recupero della sovranità nazionale slitta inevitabilmente nel segmentare ulteriormente i soggetti più deboli, in funzione del loro passaporto. Il ritorno alla centralità dello Stato-nazione non esclude certo il piano inclinato dell’ipercompetizione, semplicemente lo declina in sedicesimi. Il recupero di sovranità, infatti, sembra giocarsi come carta principale la possibilità di svalutare la propria moneta, rincorrendo, appunto, il principio di ipercompetitività. Se questa è la prospettiva non è credibile considerare il recupero della sovranità nazionale un prerequisito per il cambiamento, in quanto non appare consequenziale alcuna torsione verso solidarietà e legami sociali dal basso. I sovranisti di destra non a caso adottano la medesima strategia facendo leva su un’ostilità alle diversità dal portato antropologico che favorisce inevitabilmente una compartimentazione aclassista e basata sul marchio etnico. La concorrenza si affermerà tra italiani e gli altri, l’effetto disciplinamento diventerà il dispositivo di governo principale. Il clima sociale che si va diffondendo è pessimo, ma propedeutico al contesto “rinazionalizzato”: chi non lo vede o non lo percepisce vive su un altro pianeta. Lavoriamo per la costruzione di ponti, di alleanze sociali tra diversi, oppure dobbiamo condurre una lotta antimperialista che non vuole vedere chi viene a vivere nel nostro paese?
La guerra tra poveri è già in corso, per cambiargli di segno bisogna riconoscere la nuova composizione sociale delle classi subalterne. Aggregare anziché separare. Ricomporre invece che sedersi sulle differenze esistenti. Niente di facile s’intende, ma non esistono banali scorciatoie. Altrimenti il modello originale (Lega e fascisti) risulterà sempre più affascinante e credibile della copia (sovranisti-antimperialisti di varia natura).
*Marco Bertorello collabora con il Manifesto ed è autore di volumi e saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre).