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Le politiche monetarie espansive per certi versi sembrano non finire mai. Dalla Fed trapelano notizie su una possibile diluizione temporale del programma di normalizzazione sui tassi d’interesse. Intanto la Banca centrale europea ha appena deciso di concludere il suo Quantitative easing questo dicembre, confermando però fino all’estate del prossimo anno una politica molto accomodante con tassi invariati ai minimi storici e con massicci reinvestimenti di titoli per un periodo assai prolungato. Vale a dire che la massa di titoli acquistati in questi anni di Qe non torneranno al mercato, ma resteranno nella pancia dell’istituto di Francoforte, mantenendo alti i livelli di liquidità in circolo. Tant’è che Draghi, nell’ultima conferenza annuale, ha affermato come siano «ancora necessari stimoli significativi della politica monetaria».

La ripresa, dunque, è al di sotto delle aspettative e diverse difficoltà continuano a registrarsi nell’eurozona. Il panorama internazionale, innanzitutto, è caratterizzato da profonde incertezze, a partire dai tira e molla di Usa e Cina su dazi e guerre commerciali. Una degenerazione completa di tale contesa potrebbe non giungere mai a compimento, ma in ogni caso gli operatori finanziari restano prudenti nei confronti di un quadro instabile e al contempo snervante, causato da una guerra commerciale a bassa intensità che le due potenze mettono in campo ormai da tempo.
A tale contesto si aggiungono le crisi locali di alcuni importanti paesi emergenti, conseguenza anche dell’aumento del valore del dollaro.

La Bce, dunque, si mostra cauta nell’invertire la rotta delle proprie scelte. C’è chi la accusa di favorire paesi come l’Italia attraverso politiche accomodanti. In realtà la Germania, grazie al Qe, è stato il paese che più di tutti ha goduto del consistente acquisto di titoli pubblici, dato che la mole di questi titoli acquistati è in proporzione alla quota che ogni paese detiene nel bilancio della banca centrale. Indubbiamente, però, i paesi periferici hanno evitato l’acuirsi di una crisi dei rispettivi debiti sovrani, evitando così il peggio. Ma non è bastato.

L’Italia, infatti, torna a rischio recessione. Nel terzo trimestre del 2018 la crescita del Pil è con il segno negativo, seppur per un punto decimale soltanto. Il rischio è che tale tendenza venga confermata anche per il trimestre successivo, finendo per formalizzare tecnicamente il ritorno della recessione. In questi ultimi mesi diversi indicatori statistici vanno in questa direzione. Il Centro studi di Confindustria ha evidenziato come nel mese di novembre la produzione sia scesa dello 0,5% rispetto a ottobre. La società Markit elabora un indice (Purchasing managers index) che considera nuovi ordini, consegne, scorte e occupazione nell’industria. Tale indice descrive le aspettative delle imprese e quando tale parametro risulta inferiore a 50 si prefigura una contrazione delle attività.

L’Italia in ottobre e novembre si attesta al 49,3, un dato che nel manifatturiero scende addirittura a 48,6, lasciando presagire che anche nel quarto trimestre del 2018 il Pil possa essere negativo. I dati negativi non possono essere semplicemente imputati alle tensioni tra il nuovo governo e i vertici continentali e neppure all’aumento dello spread. I problemi derivano da un rallentamento economico globale che ha ricadute in Europa (basti pensare che in Germania il Pil per il 2018 è previsto passare dal 2 all’1,5%) e di conseguenza sulle esportazioni italiane, a cui va aggiunto un contenimento dei consumi interni in qualche misura alimentato anche da tensioni politiche che aumentano il grado di incertezza. Insomma è in corso un rallentamento diffuso che il modello industriale nostrano, caratterizzato da bassa produttività, nanismo e modesta innovazione, non è in grado di contrastare, né di aggirare con crescenti dosi di sovranismo politico e autosufficienza economica.

*Fonte: https://ilmanifesto.it/turbolenze-monetarie-a-bassa-intensita/