La ventiquattresima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP24) si è appena conclusa a Katowice, Polonia (il 15 dicembre 2018). Invece di far riferimento al recente Rapporto Speciale del GIEC (in inglese IPCC-Intergovernmental Panel on Climate Change) come base per adottare le misure urgentissime necessarie per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C rispetto al XVIII secolo, la Conferenza è a malapena riuscita a stabilire le regole che ogni Stato dovrà seguire per rendere conto delle proprie emissioni di gas serra dopo il 2020. L’IPCC viene di fatto invitato ad occuparsi dei suoi amati studi, il “rialzo delle ambizioni” viene rinviato ad una data successiva e i paesi “in via di sviluppo” devono accontentarsi di vaghe promesse per quel che riguarda lo sviluppo del Fondo verde per il clima (Green Climate Fund – GCF).
Parlare di situazione d’urgenza: con cavolo!
La COP21, a Parigi (15 novembre-12 dicembre 2015), aveva stabilito la rotta: “rimanere ben al di sotto dei 2°C di riscaldamento rispetto all’era preindustriale, pur continuando gli sforzi per non superare 1,5°C”. In seguito a questa decisione, il GIEC era stato incaricato di preparare un rapporto speciale sulla questione dell’1,5°C. Pubblicato nell’ottobre 2018, questo rapporto allarmante è giunto alla conclusione che l’umanità ha ancora una decina di anni (al massimo) per evitare una grande catastrofe di ampia portata e che sono necessari cambiamenti fondamentali a tutti i livelli della società per ridurre le emissioni di gas serra del 50% nel 2030 e annullarle completamente nel 2050.
A Katowice, gli Stati Uniti, sostenuti da Russia, Arabia Saudita e Kuwait, hanno dato battaglia per evitare che l’allarme degli scienziati venisse preso in considerazione dai governi del mondo. Ci sono riusciti, poiché il COP24 alla fine si è limitato a ringraziare il GIEC per il lavoro svolto e per aver completato il suo rapporto nei tempi stabiliti. La dichiarazione di 8 pagine adottata dalla conferenza non fa alcun riferimento all’urgenza assoluta sottolineata dal GIEC.
Mentre i piani climatici dei governi nazionali (I cosiddetti “contributi nazionali determinanti – cnd – come vengono chiamati nel gergo tecnico) prospettano un riscaldamento catastrofico dai 2,7 ai 3,7°C, nessuno Stato ha adottato misure concrete atte a rafforzare i propri impegni. Vedremo più avanti come colmare il divario tra le parole di Parigi e le azioni dei governi…se si riuscirà a colmarlo.
Addio alle responsabilità differenziate
Il fatto di avere ignorato la diagnosi del GIEC non è l’unica ragione di indignazione di fronte a questa COP. La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Rio, 1992) afferma che il riscaldamento globale è una “responsabilità comune ma differenziata”. Si tratta quindi di distribuire gli sforzi tenendo conto del fatto che i cosiddetti paesi “sviluppati” sono i principali responsabili storici del riscaldamento globale. Questa clausola, fondamentale per i paesi del Sud, è stata, fin dall’inizio dei negoziati, nel mirino dei paesi ricchi, in particolare degli Stati Uniti. Tuttavia, con il pretesto della standardizzazione delle procedure di contabilizzazione delle emissioni, la COP 24 ha rappresentato un’ulteriore tappa verso la sua graduale eliminazione.
La COP24 ha infatti deciso che le emissioni di CO2 di un paese ricco – che potrebbe benissimo smettere immediatamente di bruciare carbone per produrre elettricità – sono poste sullo stesso piano di quelle di un paese povero – che non ha i mezzi finanziari e tecnologici per sviluppare alternative verdi. Questa equivalenza sarebbe certamente giustificata se il sostegno dei paesi sviluppati alla transizione energetica del Sud fosse reale, sostanziale, incondizionato e proporzionale alle loro responsabilità storiche. Ma non è così. I 100 miliardi di euro all’anno promessi a favore del “Fondo verde per il clima – GCF” a partire dal 2020 (una somma tra l’altro del tutto insufficiente per finanziare la transizione e l’adattamento) rimangono di fatto una semplice promessa sulla carta, e i paesi ricchi continuano a rimanere sordi di fronte alle richieste di risarcimento dei paesi più poveri per le perdite e i danni causati presso di loro dai tifoni più violenti e da altri eventi meteorologici estremi.
Cinicamente, coloro che, come Donald Trump, negano la realtà del cambiamento climatico “antropogenico” – pur essendone i principali responsabili – non esitano ad usare il pretesto dell'”urgenza ecologica” per soffocare le esigenze di giustizia sociale. Giustizia nelle relazioni Nord-Sud, naturalmente, ma anche nel rapporto tra ricchi e poveri, al Nord come al Sud. Il movimento dei Gilets gialli ha dimostrato chiaramente che non può esserci soluzione alla crisi climatica attraverso una politica neoliberale che da, in nome della competitività, fa regali ai ricchi e, dall’altro, tassa i poveri in nome dell’ecologia. Eppure è questa politica ipocrita e ingiusta che i governi vogliono intensificare, affermando di farlo per salvare il clima. In particolare attraverso l’istituzione (rinviata ad una successiva COP) di un prezzo globale del carbonio e di un nuovo “meccanismo di mercato” per generalizzare la mercificazione degli ecosistemi, con i diritti di emissione negoziabili come elemento chiave.
La crescita o il clima? Gesù o Barabba?
A conclusione di questa COP, i commenti della maggior parte degli osservatori ricorrono all’immagine del bicchiere mezzo pieno e del bicchiere mezzo vuoto. Si deplora la lenta attuazione di “un buon accordo”, quello concluso a Parigi. Ma questa lentezza non è dovuta solo all’incapacità della presidenza polacca della COP, alla sua sottomissione agli interessi del carbone (la COP24 è stata sponsorizzata dal più grande produttore di carbone europeo, il gruppo JSW: Jastrzebska Coal Company[1]), o dalla crisi aperta dal cattivo Trump nel “modello” multilaterale di gestione delle relazioni internazionali… In realtà vi è una ragione ben più profonda, legata all’impossibilità di risolvere l’equazione climatica senza rompere con la logica produttivistica del capitalismo. Di fatto emerge immediatamente la necessità di rivedere il non-detto della COP21, per portare alla luce il lato oscuro del “buon accordo” di Parigi…
Salvare il clima significa fermare la crescita. In parole povere, dobbiamo produrre meno e condividere di più, cosa che il capitalismo è strettamente incapace di fare. In altre parole, c’è un profondo antagonismo tra la soluzione della crisi climatica, da un lato, e la logica dell’accumulazione capitalistica, dall’altro. Da un quarto di secolo, le diverse COP non hanno fatto altro che ruotare attorno a questo dilemma: la crescita o il clima? Gesù o Barabba? L’accordo di Parigi dava l’impressione che fosse stata trovata una soluzione, ma si è trattato solo una dichiarazione d’intenti, una sorta di gioco di prestigio. Perché, dietro le quinte, il “buon affare” è stato sostenuto da un progetto capitalistico folle e criminale: il ” superamento temporaneo ” della soglia di pericolo del riscaldamento globale. Barabba è libero, Cristo è stato sacrificato, Pilato se ne lava le mani.
Uno scenario da apprendisti-stregoni
L’idea è la seguente: la soglia di 1,5°C sarà superata nel 2030-2040 – la crescita per il profitto lo esige! – ma le “tecnologie a emissioni negative” e la geoingegneria contribuiranno a raffreddare il clima nella seconda metà del secolo. Dormite in pace, brava gente, tutto è sotto controllo… Implicito nell’accordo di Parigi, questo scenario è ora abbastanza esplicito nelle pubblicazioni scientifiche che servono come base per i negoziatori sul clima – persino nei lavori del GIEC.
Questo progetto di “superamento temporaneo” è degno dei peggiori apprendisti stregoni, per almeno due ragioni:
1° le tecnologie in questione sono ipotetiche, anche pericolose (ecologicamente e socialmente);
2° disastri irreversibili – per esempio, una dislocazione delle calotte glaciali comportante un innalzamento di diversi metri del livello degli oceani! – potrebbe verificarsi durante questo intervallo.
Ma gli apprendisti stregoni sono ascoltati delle “élite” perché la loro “soluzione” sembra permettere di rimandare il dilemma della crescita a molto più tardi. In questo modo tale soluzione, lascia alle multinazionali dei fossili e alle banche che le finanziano il tempo necessario per rendere redditizi i loro enormi investimenti nel carbone, petrolio e gas. Di fatto, l’alleanza tra il potere dei fossili e quello della finanza determina il ritmo e le forme della transizione energetica.
Totalmente sottomessi agli imperativi del profitto e della competitività (tra imprese, ma anche tra Stati che proteggono le “loro” imprese), i negoziatori sono del tutto pronti a credere che il Dio della tecnologia verrà in soccorso della loro economia di mercato e del suo corollario: la crescita infinita. Da qui la loro indifferenza alla catastrofe in corso e il loro entusiasmo, che appare a volte sincero, nel cercare di farci credere di aver raggiunto un “accordo storico” – ancora un altro. Mentre la catastrofe avanza, la commedia continua.
Giustizia sociale, giustizia climatica: una sola lotta!
Dopo questa COP24, una cosa dovrebbe essere chiara: non c’è niente, assolutamente nulla da aspettarsi dai governi, dalle Nazioni Unite, dal “Dialogo di Talanoa”[2], dalla “High Ambition Coalition Coalition”, etc. Qualsiasi illusione sulla possibilità di convincere tutti i responsabili del caos, chiunque essi siano, del vantaggio che avrebbero a “prendere l’iniziativa” per “risollevare le ambizioni” conducendo una “giusta transizione” verso uno “sviluppo sostenibile”, etc. deve essere radicalmente abbandonata. Non gliene frega un tubo, punto a capo. Tutto questo bla bla bla, tutta questa commedia ha un solo obiettivo: addormentare i popoli, impedire le loro riflessioni, paralizzare le loro organizzazioni. È la strategia del ragno. Collaborare significa gettarsi nella sua rete!
In Belgio, ad esempio, la situazione di stallo nella strategia di collaborazione delle principali associazioni ambientaliste (e dei leader sindacali che le sostengono) è diventata evidente. Infatti, all’indomani della grande manifestazione sul clima di inizio dicembre (75’000 persone a Bruxelles), la “Climate Coalition” e la “Climate Express” hanno esortato il governo di destra a non cadere, mentre Greenpeace ha implorato il re del Belgio di convincere la classe politica dell’emergenza climatica. Senza successo, naturalmente. Non è ovvio che questo percorso è un vicolo cieco? Quando tutti i rimedi terrestri saranno esauriti, non resterà che implorare un intervento divino…
Questa situazione di stallo è del tutto simile a quella in cui si sono trovati i leader sindacali alla fine del 2014, quando hanno adottato il loro piano d’azione “per dare una possibilità alla concertazione”. Sappiamo cosa è successo: il governo di destra ha riconquistato la fiducia e smantellato, una dopo l’altra, parecchie conquiste sociali
Che si tratti di questioni sociali o ambientali, in Belgio come altrove, la conclusione è chiara: l’unico linguaggio che i dirigenti politici ed economici capiscono è quello della forza. È quindi necessario costruire un rapporto di forza e, per questo, c’è un solo modo: unire le lotte per la giustizia climatica e la giustizia sociale in una prospettiva anticapitalista.
*Articolo pubblicato sul sito web di Sinistra anticapitalista belga; Daniel Tanuro è l’autore de L’impossibile capitalismo verde, edizioni Alegre, 2011). La traduzione è stata cura dalla redazione di Solidarietà.