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Il pomeriggio del 7 marzo scorso l’alimentazione elettrica è collassata in più del 80% del Venezuela.

Si è trattato dell’acme di una crisi elettrica che dura da un decennio, un collasso che era stato ripetutamente preannunciato dai lavoratori dell’industria in tutti questi anni, nonostante i tentativi del governo di silenziare le denunce attraverso la repressione. Nella maggior parte del Paese il servizio è stato ripristinato solo dopo più di 36 ore e in alcune zone l’interruzione è durata più di 100 ore. In alcune regioni, come lo Stato di Zulia, il servizio non si è normalizzato se non la settimana successiva. Il black out, soprattutto nelle zone interne, si è aggiunto a problemi già gravi circa la fornitura di acqua, gas e benzina, alla penuria di generi alimentari e allo sfacelo degli ospedali pubblici. A causa dell’aggiustamento dei conti iperinflazionario applicato dal governo, il denaro contante è praticamente inservibile e il collasso delle comunicazioni ha annullato la possibilità di fare acquisti con carte di credito e di debito, paralizzando così il commercio. Il governo ha sospeso tutte le attività lavorative tra venerdì 8 marzo e mercoledì 13. Si sono moltiplicati episodi di saccheggio e rivolte spontanee in gran parte del Paese. Tra le vittime del black out figura un imprecisato numero di morti tra i pazienti ricoverati negli ospedali in conseguenza del blocco delle attrezzature di rianimazione.

Il ministro dell’energia elettrica, il militare Motta Domínguez, ha inizialmente assicurato che il black out sarebbe durato tre ore. La bugia è subito stata evidente, ma il governo, in una fuga in avanti, ha tirato fuori il solito alibi del “sabotaggio”, dandogli una nuova formulazione: la “guerra elettrica”. Il ministro delle comunicazioni, Jorge Rodríguez, ha assicurato che si trattava del più grande attacco terroristico nella storia del Paese e che Maduro personalmente stava dirigendo le operazioni necessarie a recuperare l’alimentazione elettrica. In un tentativo di mostrarsi come un’autorità nel mezzo del caos, lunedì 11 marzo Maduro ha pubblicato un video in cui dà ordini via radio e denuncia che sarebbero stati tre gli attacchi subiti. Ma la maggioranza dei venezuelani è rimasta tagliata fuori dalle comunicazioni per parecchi giorni, così che ha appreso della versione ufficiale con ritardo.

La tesi del sabotaggio è stata respinta da dirigenti operai del settore e perfino da alti ex funzionari del governo di Chávez. L’ex ministro dell’energia elettrica, Héctor Navarro, ha replicato alle versioni governative di un “attacco cibernetico” spiegando che la diga di Gurí funziona con apparecchiature analogiche. Ha attribuito il collasso alle conseguenze della corruzione e alla mancanza di manutenzione. Alí Briceño, segretario esecutivo della federazione dei lavoratori elettrici (Fetraelec), ha spiegato che i lavoratori hanno denunciato un incendio che ha colpito la trasmissione di energia in tre linee che collegano Gurí con sottostazioni nel centro del Paese. Gli amministratori militari non provvedono da anni alla pulizia preventiva per impedire che la vegetazione spontanea invada le torri, sicché, in conseguenza di un incendio boschivo, una delle linee si è surriscaldata e ha smesso di trasmettere energia. Le altre due linee sono collassate in un effetto domino a causa del sovraccarico dovuto all’interruzione della prima linea. Briceño ha aggiunto che ci sono state decisioni amministrative sbagliate per imperizia dei militari nel tentativo di ristabilire il servizio, ciò che ha prolungato l’interruzione.

Una tesi ufficiale senza prove

Di fronte alla mancanza di prove di sabotaggio, il governo ha cominciato ad inventarle, a mo’ delle peggiori farse giudiziarie fasciste o staliniste. Secondo il ministro Jorge Rodríguez, dei tweet pubblicati dopo il black out da funzionari statunitensi e dal presidente dell’Assemblea nazionale, Guaidó, “dimostrano” che essi erano a conoscenza in anticipo dell’interruzione. Rodríguez ha anche assicurato che martedì 12 marzo alcuni seguaci di Guaidó avrebbero pianificato il sabotaggio del ripristino del servizio aumentando il consumo elettrico nelle case … accendendo simultaneamente varie apparecchiature elettriche! In un altro degli assurdi sforzi per supportare la tesi della “guerra elettrica”, l’11 marzo il giornalista Luis Carlos Díaz è stato arrestato dal Servizio Bolivariano di Intelligence Nazionale (Sebin) a causa di dichiarazioni rese il 27 febbraio scorso, in cui stabiliva un’analogia tra un’ipotetica interruzione dell’accesso a Internet da parte del governo e un black out elettrico. Il numero due del governo, Diosdado Cabello, ha assicurato che queste dichiarazioni indicavano che il giornalista sapeva in anticipo dell’interruzione. Alla fine, perfino per le autorità giudiziarie chaviste questa versione è risultata insostenibile e l’accusa al giornalista è stata derubricata da “sabotaggio” a “istigazione a delinquere”, in un nuovo attacco alla libertà d’espressione.

Contemporaneamente è stata scatenata una persecuzione ai danni dei lavoratori elettrici. Cabello, riferendosi ai lavoratori che sono stati arrestati, ha detto che «è per un’indagine seria che si sta realizzando per il modo in cui si è attentato alla vita dei venezuelani». L’operaio Geovanny Zambrano, obbligato a un pensionamento forzato come ritorsione per aver denunciato lo scorso 18 febbraio il peggioramento delle condizioni lavorative e i guasti nell’infrastruttura elettrica, è stato sequestrato l’11 marzo dal Sebin ed è scomparso per undici ore. Liberato, è stato poi nuovamente arrestato il giorno successivo. Viene perseguitato per le sue denunce di febbraio e ancora oggi, mentre scriviamo, nessuno sa dove si trovi. Angel Sequea, un altro lavoratore della Corpoelec, a capo dello staff e responsabile operativo in Guayana, è stato arrestato dal Sebin il 7 marzo e assassinato il giorno dopo. Secondo i suoi carcerieri, l’assassinio si è verificato durante una “sommossa” nella prigione. Un altro detenuto politico assassinato.

Il popolo venezuelano è ora ostaggio sia di una dittatura civico militare che di una campagna di ingerenza e assedio economico da parte del governo imperialista degli Usa. Durante il black out, il governo di Trump ha annunciato il ritiro del suo personale diplomatico da Caracas e il governo Maduro ha risposto “espellendo” i funzionari che erano stati ritirati. La deprecabile escalation di ingerenza continua. Tuttavia, ciò non costituisce in sé una prova del fatto che il collasso elettrico sia stato provocato mediante un’azione di sabotaggio cibernetico da parte degli statunitensi. Sarebbe antiscientifico invertire l’onere della prova e dare per assodato, in assenza di prove e fino a che non si dimostri il contrario, che vi sia stato sabotaggio.

Questo non sarebbe altro che complottismo.

Non sarebbe la prima volta che il governo mente su presunti sabotaggi per sfuggire alle proprie responsabilità, è accaduto tante volte. Il caso più famoso è quello dell’esplosione del 25 agosto 2012 nella raffineria di Amuay, in cui morirono più di 40 persone, con oltre 150 feriti. Nel 2013 il governo diede per confermato il “sospetto” avanzato sin dal primo momento, che cioè si trattava di un sabotaggio terroristico.

Ma, contraddittoriamente, il presunto attacco terroristico più grave della nostra storia non è mai stato commemorato in quanto tale, né è mai stato pubblicata un’informativa con le conclusioni definitive dell’indagine. Prima dell’esplosione, i lavoratori petroliferi con alla testa i rivoluzionari del sindacato C Cura e del Psl, avevano denunciato il collasso operativo delle raffinerie e la sempre maggior frequenza e gravità degli incidenti, ottenendo dal governo per tutta risposta licenziamenti e persecuzioni. La “guerra elettrica” avrà probabilmente lo stesso esito dell’“attacco terroristico” di Amuay: l’oblio ufficiale.

Il saccheggio boliborghese ha creato le condizioni per il collasso

La repressione del governo non potrà occultare ciò che numerosi lavoratori ed esperti denunciavano da molti anni: che la corruzione, l’incompetenza e il disinvestimento avrebbero reso inevitabile un collasso del servizio elettrico.

L’ex viceministro dell’energia elettrica del governo Chávez, Víctor Poleo, intervistato nel 2016 dal giornalista Víctor Amaya, assicurava che dal 2005 si avvertiva il deterioramento del sistema e che dal 2007 l’offerta di energia non copriva la domanda, tanto da rendere necessari dei razionamenti. La corruzione ha divorato i progetti di produzione di energia, come la diga Tocoma nel fiume Caroní, che doveva essere costruita tra il 2002 e il 2012 con un costo di due miliardi di dollari. Il contratto, appaltato all’impresa brasiliana Odebrecht, si è andato gonfiando fino ad arrivare alla cifra di dieci miliardi di dollari e non è mai stato portato a termine.

I progetti di parchi eolici negli Stati di Falcón e Zulia son anch’essi falliti e producono meno dell’1% dell’energia consumata nel Paese, nonostante i tanti milioni di dollari che sono stati gettati dall’apparato corrotto del chavismo. La produzione termoelettrica è anch’essa crollata, lasciando che il Paese restasse dipendente in enorme misura dalla diga del Gurí. E così è accaduto che il chavismo, durante gli anni della maggiore abbondanza petrolifera della sua storia, si è guadagnato il disonorevole merito di distruggere l’industria elettrica, arrivando al 2010 a una dichiarazione di stato di emergenza elettrica che si sarebbe convertita in una delle operazioni di saccheggio e corruzione più bestiali della nostra storia.

Nel 2009, una grave siccità provocò un’importante caduta nella produzione di energia nella diga di Gurí. Il deterioramento degli impianti termoelettrici impedì di sopperire alla domanda di energia e la situazione degenerò sfociando in un severo razionamento, contro il quale vi furono grandi proteste popolari in regioni come Mérida e Zulia. Nel febbraio 2010, Chávez decretò l’emergenza elettrica[2] e provvide a stipulare decine di contratti senza gara per l’importazione di impianti e apparecchiature. Una delle società più beneficiate da queste contrattazioni eccezionali fu l’impresa “Derwick e Soci”, un’oscura compagnia diretta da giovani borghesi di Caracas senza esperienza nel settore elettrico, che così ottennero una dozzina di contratti per un valore superiore ai due miliardi e mezzo di dollari per l’importazione di apparecchiature.

Comprarono da un’impresa nordamericana attrezzature usate con un sovrapprezzo stimato, da indagini realizzate da giornalisti di vari mezzi di comunicazione venezuelani (tra cui Armando.info) in più di 1,4 miliardi di dollari. Queste indagini hanno portato alla luce che Derwick realizzava operazioni connesse all’importazione di attrezzature elettriche anche un anno prima della dichiarazione dello stato d’emergenza elettrica: un indizio, questo, che ci fu concertazione col governo chavista per le operazioni sporche.

È stato scandaloso lo sfarzo esibito dai cosiddetti “bolichicos” (giovani borghesi bolivariani rampanti: N.d.T.) mentre il Paese soffriva le micidiali conseguenze della crisi elettrica. Ad esempio, uno dei proprietari di Derwick, Alejandro Betancourt, ha comprato una tenuta di 1.600 ettari in Spagna al completo e un castello medievale[3], mentre la maggior parte della ferraglia importata nel 2010 è fuori servizio. Alcune attrezzature non hanno mai funzionato. L’annunciato “scudo elettrico di Caracas”, progetto nel quale sono stati dilapidati milioni di dollari, è stata un’autentica farsa.

La Pdvsa è stata uno degli acquirenti degli impianti elettrici rivenduti dalla Derwick. Tanto profondo è stato l’intreccio dei “bolichicos” con boliborghesi come Rodolfo Sanz o Rafael Ramírez, che la stessa Derwick è entrata nell’affare del petrolio, in associazione con imprenditori russi della Gazprombank e col governo venezuelano, nell’impresa mista Petrozamora, che sfrutta un giacimento nello Stato di Zulia. E anche lì sono scoppiati scandali di corruzione. Gran parte dei soldi della “emergenza elettrica” sarebbe stata lavata attraverso le banche svizzere, mentre un’altra parte è stata trasferita in paradisi fiscali come le Barbados.

Questa è stata “l’eredità elettrica” di Chávez. Nell’ottobre del 2012, il sindacato elettrico di Lara (Sitiel) denunciò la morte di sette lavoratori a causa di violazioni delle condizioni di sicurezza industriale da parte delle autorità, nonché della repressione: «I lavoratori ricevono costantemente visite e convocazioni da parte del Sebin; e perfino quando un lavoratore si assenta, giustificato o meno, chi fa i controlli è il Sebin». La campagna del governo per occultare gli effetti della corruzione e del disinvestimento, incolpando invece i lavoratori di presunti atti di sabotaggio, è arrivata al punto di determinare, in alcune aree popolari colpite dai black out, linciaggi e sequestri di lavoratori. Il sindacato Sitiel menziona il caso dell’assassinio mediante linciaggio di un lavoratore nello Stato di Aragua, nel 2012. Quell’anno, mentre faceva campagna per la sua rielezione, Chávez riconobbe che persistevano i problemi elettrici, ma disse che se non fosse stato per il governo le persone avrebbero cucinato a legna e sarebbe vissuta a lume di candela.

Col peggiorare della crisi, nell’aprile del 2013 Maduro ha occupato militarmente l’industria. Sono state create zone militari di sicurezza per restringere la libertà sindacale dei lavoratori elettrici. Si è parlato di una “Grande Missione Elettrica”, un’altra farsa. I problemi continuarono ad aggravarsi col disinvestimento e venne dichiarata una nuova militarizzazione nell’aprile del 2017, dopo grandi e ricorrenti black out nel 2015 e 2016. Un’altra grande interruzione si è verificata nell’agosto del 2017. La situazione era così grave che dirigenti sindacali del chavismo ruppero la disciplina di partito e criticarono la gestione militare.

Elio Palacios, dirigente del sindacato dei lavoratori elettrici del Distretto Capitale, di Vargas e Miranda, rese una dichiarazione all’inizio di febbraio del 2018, quando sei Stati erano senza luce, denunciando l’imminenza di un collasso elettrico generalizzato. Tra le cause menzionava la “fuga dei tecnici”, a causa dei salari miserabili e delle vessazioni lavorative, della manutenzione carente e dell’incompetenza delle autorità militari, a partire dal ministro Motta Domínguez, che definì “tecnicamente analfabeta”. Il deficit di personale qualificato, calcolato da Palacios nel 60%, obbligava i lavoratori a fare turni anche di 30 ore continue. «Ci troviamo in un brodo di coltura per un black out … non si tratterà di un sabotaggio, né di operazioni errate da parte dei lavoratori … Le telecomunicazioni ne saranno colpite, così come tutti i servizi di base, come l’acqua potabile, perché le pompe funzionano con energia elettrica, e l’estrazione del petrolio. In poche parole, si paralizzerà il Paese. Questa è una situazione che in pratica avverrà inevitabilmente, da tutti gli scenari che si stanno vedendo», avvisava Palacios. Inoltre, denunciava l’utilizzo di delinquenti da parte del governo per assaltare i sindacati, nonché le manovre dei tribunali e delle istituzioni per impedire che si realizzassero elezioni sindacali.

Come rispose il governo Maduro a queste gravi denunce? Con i suoi soliti metodi, inviando la polizia politica a sequestrare il dirigente sindacale il 14 febbraio 2018. Decine di dirigenti operai e lavoratori sono stati licenziati e perseguiti per aver denunciato il tracollo operativo.

La risposta di Guaidó al black out ne ha evidenziato tutto l’opportunismo e l’incapacità. Si è limitato a dire che la luce sarebbe tornata «quando cesserà l’usurpazione» e a lanciare altri messaggi dello stesso tenore demagogico. L’unica risposta sul terreno della mobilitazione l’hanno data spontaneamente le comunità popolari. E neppure ha illustrato con chiarezza ciò che il suo “Piano per il Paese” propone per uscire dalla crisi, vale a dire la privatizzazione dei servizi pubblici. L’opposizione di sinistra propone una strada opposta ai piani di Guaidó: recuperare l’industria elettrica appoggiandosi sull’organizzazione dei lavoratori e realizzare importanti investimenti con le risorse ottenute dal mancato pagamento del debito estero e dalla nazionalizzazione del petrolio. Invece dell’amnistia per i funzionari civili e militari corrotti, compresi quelli che hanno distrutto l’industria elettrica, come propongono Guaidó e l’Assemblea Nazionale, è necessario confiscare le proprietà dei corrotti e prendere provvedimenti per il rimpatrio dei loro capitali.

Il grande black out di marzo segna un’altra pietra miliare nel processo di distruzione economica alimentato da politiche governative borghesi e mafiose, come l’appropriazione della rendita petrolifera mediante la sovrafatturazione di importazioni, l’amputazione della produzione nazionale per pagare il debito estero, o la svendita dell’industria petrolifera e le concessioni minerarie a grandi multinazionali. Questa politica è stata più distruttiva di mille sabotaggi. Il complottismo della “guerra elettrica” non è altro che il tentativo propagandistico del governo di nascondere le vere cause della crisi, presentandosi come vittima per giustificare l’acutezza della repressione e i crimini contro i lavoratori e il popolo venezuelano.

*Simón Rodríguez Porras è un compositore e coautore del libro ¿Por qué fracasó el chavismo? Un balance desde la oposición de izquierda. È membro del Partido Socialismo y Libertad, che è stato legale fino al 2016, quando la maggioranza dei partiti venezuelani si è vista negare la rappresentazione elettorale. È anche militante della Unidad Internacional de los Trabajadores – Cuarta Internacional, e, oltre a svolgere lavoro intellettuale e di partito, utilizza il suo Blog – Contraluz – per fare analisi di congiuntura ed esortare i venezuelani a organizzare mobilitazioni autonome.

(Traduzione di Valerio Torre. Tutte le note sono del traduttore)

Note
[1] Si vedano, riguardo al presunto “colpo di stato”, i due articoli pubblicati su questo sito, “Venezuela: e ora?”, e “Venezuela: il 4 agosto della sinistra rivoluzionaria”.
[2] “Presidente Chávez declaró emergencia eléctrica en el país”, Aporrea, 8/2/2010 (https://tinyurl.com/y2frtngy).
[3] “La burguesía venezolana ‘exilia’ su dinero a España”, El Mundo, 4/7/2016 (https://tinyurl.com/y6phgqf8). Si veda anche “Alejandro Betancourt, el ‘bolichico’ que se hizo millonario con los apagones”, Clímax, 15/3/2019 (https://tinyurl.com/y6k82gbz).