In un’intervista a una rivista venezuelana Marc Saint-Upéry, osservatore attento del processo bolivariano dal vicino Ecuador, descrive senza reticenze i due blocchi eterogenei che si fronteggiano e polemizza con quelli che ricalcano le veline del SEBIN per descrivere l’eterogeneo fronte degli oppositori. Saint-Upéry analizza anche le contraddizioni del blocco di destra negli Stati Uniti, che renderebbero poco probabile l’intervento militare auspicato da Guaidó.
GUIDO REVETE – Lei è stato uno dei primi intellettuali a denunciare, in modo critico, quanto successe durante il colpo di Stato in Venezuela nel 2002. Il “pareggio catastrofico” venezuelano attuale si può comparare con quanto successe in quegli anni?
MARC SAINT-UPÉRY– Non sono sicuro di essere stato “uno dei primi”, ma immagino che vi riferiate a un testo pubblicato nel 2002 nel sito non più attivo “La Insignia”. In modo sintomatico, è stato il primo testo che ho pubblicato sul Venezuela in tutta la mia vita. Nel contempo denunciavo in modo molto forte il golpe di Carmona e avanzavo diverse critiche alla gestione di Chávez.
Segnalavo che “la rivoluzione bolivariana” era “più vigorosa a parole anziché nei fatti”, che aveva “trascurato quasi totalmente la necessità di democratizzare, decentralizzare e rendere trasparenti le politiche pubbliche e di promuovere l’iniziativa indipendente e la partecipazione attiva dei vari settori sociali” e che le sue politiche soffrivano di un “miscuglio confuso di pragmatismo moderato, promesse di assistenzialismo generalizzato e retorica incendiaria senza un reale sostegno”, accompagnata da “aspetti crescenti di opportunismo e di corruzione”, e “un certo caos amministrativo dovuto a un insieme di inesperienza e burocratizzazione”.
Sottolineavo anche che Chávez aveva scommesso “esclusivamente sul verticalismo plebiscitario e su una grossolana e aggressiva contropropaganda di Stato, che lo resero insopportabile persino a una parte dei suoi stessi alleati progressisti”. Mi pare abbastanza per un testo scritto 17 anni fa.
Sappiamo che tutte le tendenze che allora descrivevo si sono acuite fino a diventare catastrofiche, con un regime che si propone come unica soluzione una scalata autoritaria e, a partire dal 2016, chiaramente dittatoriale.
Questo è uno dei motivi per i quali non si possono comparare le due situazioni. Da un lato, nonostante le derive caudilliste, già allora esplicite, del regime bolivariano, le tentazioni dittatoriali erano allora dalla parte dell’opposizione (anche se erano lontane dall’ottenere un consenso al suo interno). Ma non c’era un apparato militare e poliziesco disposto a sostenerle in modo unanime.
D’altra parte, la società era più o meno divisa a metà, sebbene il chavismo avesse consolidato un vantaggio di circa il 60% contro il 40% negli anni successivi. Oggigiorno l’appoggio a Maduro è chiaramente minoritario, in parte ottenuto con la coercizione (funzionari) o col ricatto biopolitico (accesso al cibo e risorse, tessera della patria, ecc.). Si sostiene su un apparato militare e poliziesco implicato in ingenti reti di affari leciti e illeciti in collusione con il potere, così come in dispositivi di repressione molto sviluppati sia giudizialmente sia tramite la logistica del terrore armato. E, ovviamente, la società venezuelana e le sue infrastrutture materiali e istituzionali sono adesso in rovina, con tutte le conseguenze che conosciamo, compreso il salasso dell’emigrazione.
GR- Come si dovrebbe affrontare in modo progressista l’aperto intervento statunitense senza cadere nel falso dilemma dell’appoggio incondizionato al governo di Nicolás Maduro?
MSU -Sebbene il protagonismo di personaggi sinistri nei peggiori momenti dei governi di Reagan e Bush, o di quelli schierati nella frazione più reazionaria della lobby cubano-americana come quella di Marco Rubio, possa suscitare orrore, bisogna analizzare tutto a sangue freddo.
Da un lato, risorge la frazione “neoconservatrice”, intervenzionista degli anni 2000 guidata da John Bolton, che non ha molto interesse per il Venezuela, visto che il suo sogno ricorrente è piuttosto rivolto a bombardare Teherán, anche se non riesce a resistere all’opportunità fantastica che gli offre il disastro venezuelano (e nicaraguense) nel quadro di un riflusso continentale dei governi “progressisti”. Si osserva un’alleanza di questa frazione “neocon” con falchi più specializzati in politica emisferica, come Elliot Abrams o lo stesso Rubio.
Dall’altra parte, esiste un contesto di straordinario vuoto di potere alla Casa Bianca, come mai si è visto da quando gli Stati Uniti sono una potenza mondiale. Infatti, Trump non ha molto a che fare in questa faccenda, anche se temporaneamente si è lasciato convincere da Rubio che nell’elettorato cubano della Florida c’era la chiave di svolta di una sua probabile rielezione, e da Bolton che non si poteva trascurare l’opportunità di riaffermare al meno una parte dell’egemonia emisferica.
Anche se, in realtà, non c’è nessuna possibilità di invertire tendenze “pesanti” come l’influenza economica e commerciale cinese.
La pantomima dell’agenda di Bolton esposta “per errore” alle telecamere con la nota “cinque mila soldati in Colombia” dimostra bene il carattere di bluff di tutto questo. Quanto successe come tragedia nella fase 2001-2003 di presa del potere da parte di Cheney-Rumsfeld e la loro gente e della preparazione della guerra in Afghanistan e in Iraq, si ripete come farsa adesso. Ora, i “neocons” non solo non dispongono del consenso “patriottico” del Congresso o dell’opinione pubblica (all’interno della quale è molto forte l’ostilità nei confronti di un’agenda bellicista), ma addirittura non hanno l’appoggio del Pentagono e dell’apparato di sicurezza.
In questo stesso momento, Washington sta negoziando una pace vergognosa con i talebani il che equivale alla caduta di Saigón al rallentatore: 17 anni di guerra (la più lunga nella storia degli EE.UU.) per niente. E nonostante il freno che gli ha messo Bolton, Trump non ha rinunciato a ritirare le truppe americane dalla Siria, mentre nel suo recente discorso sullo Stato dell’Unione, ha denunciato un’altra volta le “foolish wars” (le guerre assurde) di Washington.
In quanto allo establishment militare statunitense, sebbene concordi che il regime di Maduro sia un disastro e un pericolo – non militare ma in termini di narcotraffico e di “sicurezza umana” dei suoi alleati regionali, dovuto all’esplosione migratoria, e che occorra esercitare tutta la pressione politico-economica possibile per farlo cadere – non ha nessun entusiasmo per un intervento armato. Non solo perché il Venezuela non è né Granada né Panamá, ma perché lo stato maggiore yankee misura perfettamente i rischi di un impantanamento letale in un conflitto civile e militare che non vedrà l’affrontarsi di due campi ben delimitati – cosiddetti chavisti contro cosiddetti antichavisti. Piuttosto assomiglierà a una guerra di milizie di tipo libanese o jugoslava, con almeno mezza dozzina di frazioni e di fronti e interazioni molto complesse e perverse fra attori politico-militari autonomi, gruppi delinquenziali e logiche balcanizzate di depredazione del territorio e delle sue risorse (fenomeni di cui da qualche anno si notano segnali premonitori).
Questo spiega che nonostante il loro tradizionale “unilateralismo”, i “neocons” hanno adottato una tattica “multilaterale” che non solo coinvolge il Gruppo di Lima – paesi conservatori che però non vogliono nemmeno un conflitto bellico regionale molto pericoloso – ma anche l’Unione Europea, e ora persino l’Uruguay. Tutta l’operazione con Guaidó è stata preparata con l’attiva mediazione politica di Ottawa e Bogotà, che hanno proprie ragioni, diverse – di principio per i canadesi, di realismo ed esperienza per i colombiani – di non volere la guerra.
Quando parlo di “farsa”, questo non esclude il rischio di perdere il controllo. Tuttavia quelli che si oppongono a qualsiasi ingerenza estera per principio e ci avvertono che l’interazione complessa fra tutti questi protagonisti e le loro agende è pericolosa e che equivale a giocare con il fuoco, dimenticano due cose: ingerenze ce ne sono già da tutte le parti, non solo ovviamente da parte dei cubani, russi e cinesi, ma addirittura ingerenze volgari e manipolatrici dei servizi venezuelani nella dinamica della diaspora nei paesi vicini o nel conflitto colombiano, attraverso l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), tra gli altri. Non solo c’è molta gente che gioca con il fuoco in Venezuela ma lo stesso regime madurista da tempo ormai ha acceso l’incendio.
GR- Nel caso dell’opposizione venezuelana, cosa ci si può aspettare da una èlite incapace di per se stessa di qualsiasi azione politica, che ha dovuto rifugiarsi direttamente sotto la tutela di Washington?
MSU – Bisognerebbe capire bene di che cosa si parla quando si parla di “élite” o di “destra” in Venezuela. Purtroppo, perfino alcuni esponenti della sinistra non chavista riprendono acriticamente la matrice interpretativa del SEBIN [Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional] o dell’apparato di propaganda del governo quando si tratta di definire chi, all’opposizione, è “radicale” o “moderato”, chi è di “estrema destra”, ecc.
Queste etichette non mi sono mai parse chiarificatrici, e per giunta non credo che ci sia molta “estrema destra” in Venezuela oggi, almeno nel senso di un Jair Bolsonaro, per esempio. Quello che vedo è che ci sono settori antichavisti storici che provengono dalla IV Repubblica, e settori conservatori e/o liberali emergenti che hanno conosciuto solo il chavismo, alcuni addirittura con un certo radicamento giovanile e plebeo, come nel caso dello stesso Guaidó e di altri dirigenti di Voluntad Popular (VP). E in quanto ad essere “radicale” o “moderato”, non si chiarisce mai se si stia parlando di tattica o di ideologia. Tutto ciò, inoltre, nel contesto di una società in cui le nozioni di destra e sinistra vanno sfumate da una analisi dei comportamenti concreti nel contesto della gestione del reddito, che può essere molto simile tra cosiddetti chavisti e cosiddetti antichavisti. Non conosco molto bene l’opposizione venezuelana, che sempre mi è parsa da lontano composta da personale politico molto mediocre, ma nemmeno ho visto circolare analisi sottili e convincenti sul tema da parte delle sinistre.
Se mi fido di quello che mi dicono certe fonti, sembrerebbe piuttosto che la mossa di Guaidó e VP è un piano B preparato in anticipo in previsione del fallimento delle nuove tappe di negoziazioni segrete – alla fine del 2018 e inizio 2019 – sabotate un’altra volta dal governo, che cerca solo di guadagnare tempo.
Per questo Diosdado Cabello insiste tanto che avrebbe incontrato Guaidó appena prima del 23 gennaio. Può essere vero, però è anche abbastanza ironico: il regime è così consapevole della propria abiezione morale agli occhi della popolazione che pensa che basti dire che un politico dell’opposizione si è riunito con i rappresentanti del governo per screditarlo.
Più che rifugiarsi sotto la tutela di Washington, mi sembra che ci sia stato una specie di bluff incrociato, di una scommessa un po’ teatrale e pericolosa, tra VP e i neocons statunitensi, ognuno cercando di strumentalizzare l’altro al servizio dei propri immediati scopi, con la complessa mediazione di diversi attori che svolgono il ruolo del poliziotto cattivo (Almagro, il Gruppo di Lima) o del poliziotto buono (Uruguay, l’Unione Europea). Sia la presunta minaccia di intervento militare statunitense, sia la presidenza di Guaidó sono finzioni produttive che hanno sbloccato una situazione totalmente bloccata dal potere, ma che possono entrare in una spirale di distruzione in funzione dell’estrema volatilità dello scenario. Pertanto, a rigore, la domanda non è se esiste un Piano B ma se c’è un Piano C.
Ciò nonostante, sono totalmente d’accordo con le analisi che suggeriscono che la razionalità criminale della dirigenza chavista non è quella di una dirigenza politica o militare convenzionale, ma nemmeno di una dittatura come quella di Pinochet. Parlando di negoziazione e uscita pacifica “si viene bene nella foto” come indicava Jeudiel Martínez, ma perché avvenga tale negoziato, prima deve esserci qualche tipo di rottura. L’altro aspetto che si diffonde sempre di più perfino nei settori popolari è un sentimento alimentato dalla nausea e la disperazione: “non ci importa nulla dell’accusa di ingerenza, che vengano pure gli yankee e si portino via questa razza di delinquenti”. Questa è la realtà a cui ci ha portato quell’aberrante mostro del bolivarismo e la complicità con questo da parte delle sinistre continentali e mondiali.
GR – L’amministrazione imprevedibile di Trump è preparata ad affrontare le conseguenze geopolitiche di un possibile intervento militare in Venezuela?
MSU – Chiaramente no. Che lo dica io non ha importanza, ma quel che conta è che lo dica l’opinione maggioritaria del Pentagono e dell’intelligence statunitense, come già detto. Ma ecco il paradosso: nel caso della destituzione di Trump, con il suo successore Mike Pence avremmo un allineamento molto più organico tra la presidenza e i falchi neoconservatori, secondo una sinergia tra fondamentalismo ideologico e tracotanza geopolitica. Vale a dire che, curiosamente, alla sinistra non conviene desiderare l’impeachment di Trump. Ma pure un governo Pence dovrebbe affrontare una fortissima opposizione da parte del Congresso e dell’opinione pubblica, e molta reticenza nei confronti di un’agenda intervenzionista dello stesso apparato di sicurezza. Ciò nonostante, si tratterebbe di una configurazione molto più pericolosa per la pace nella regione e nel mondo in generale.
GR- Allora, in un’ipotetica transizione effettiva del potere, cosa potremmo aspettarci da un governo diretto da queste fazioni?
MSU– Ma, di quali fazioni stiamo parlando? Da una parte si fa riferimento ad un governo di riconciliazione nazionale che dovrebbe avere un’ampia base d’appoggio, includendo settori chavisti in collisione con Maduro. D’altra, se VP vince la sua scommessa, darebbe ad intendere che sta cercando di imporre la sua egemonia all’interno dell’opposizione, soprattutto a quelli che si sono mostrati reticenti davanti alla strategia di forzatura costituzionale della presidenza dell’Assemblea Nazionale.
In quanto al contenuto programmatico, bisogna capire che siamo in una configurazione equivalente a un ricostruzione post bellica. Persino un economista marxista-leninista come Manuel Sutherland considera che è necessaria un’apertura economica, vale a dire una liberalizzazione, per ricostruire un minimo di tessuto percorribile e una soglia di produttività accettabile. Pertanto non serve nessun baccano semplicista contro la privatizzazione dato che la privatizzazione mafiosa e neopatrimoniale dell’apparato produttivo (e la sua successiva distruzione) e delle risorse del sottosuolo è già avvenuta, nel modo più selvaggio possibile, sotto la gigantesca appropriazione indebita chavista-madurista. Nello stesso tempo, perfino la destra più recalcitrante sa che sarà impossibile imporre unilateralmente a una popolazione così radicalmente impoverita aumenti di tariffe dei servizi pubblici e delle necessità basilari. La gente semplicemente non ce la fa. E come dice il succitato Jeudiel Martínez, parlare di una privatizzazione del sistema sanitario sarebbe una follia in un paese nel quale si sta richiedendo l’aiuto umanitario.
Ci saranno probabilmente molti conflitti sul bilancio, sui salari e sui servizi. Quanto rimane dei nuclei sindacali sani – sebbene mi immagino che saranno molto colpiti da questi vent’anni e in particolar modo dall’ultima decade, avrà un ruolo importante da giocare in questa transizione per formulare e negoziare soluzioni percorribili ed eque.
GR – Nel caso in cui questa transizione non avvenga, cosa dovremmo aspettarci dal governo di Nicolás Maduro? Per quanto tempo ancora può prolungarsi questo conflitto?
MSU – Non ho la sfera di cristallo, ma sono d’accordo con Alberto Barrera Tyszka che il governo ha un talento speciale per “trasformare la crisi in routine” e questo è molto preoccupante. Fino a quale soglia di distruzione del Paese e delle condizioni minime di vita della popolazione può resistere un sistema così perverso e cinico? Inoltre, il carattere di poliarchia con caratteristiche mafiose del regime rende abbastanza imperscrutabili e imprevedibili le mosse interne; sembrerebbe che non ci sia una vera unità di comando ma piuttosto un potere di ostruzione mutua tra certi gruppi e clan.
GR – A questo punto è innegabile che il governo di Nicolás Maduro ha perso l’appoggio della sua base popolare, la quale è evidentemente scontenta per la sparizione delle sue condizioni materiali di sussistenza, ma questo scontento non significa un appoggio politico effettivo al progetto politico dell’opposizione. Cosa succederà alle grandi maggioranze impoverite in questo scenario?
MSU – Al momento l’unico progetto politico dell’opposizione è l’uscita di Maduro ed elezioni libere; con questo le grandi maggioranze possono essere d’accordo. Probabilmente restano quartieri popolari che, più che appoggiare Maduro, hanno timore delle conseguenze reali o immaginarie di un ritorno della destra, ma credo che in effetti adesso siano una minoranza. Si pone piuttosto il problema di quello che in epistemologia sociale viene definito common knowledge: potrebbe essere che, individualmente o dentro i limiti della cerchia familiare, la maggioranza delle persone nei settori popolari siano ostili al regime madurista e persino delusi dal chavismo in generale, ma nessuno può avere la certezza che quest’opinione prevalga nella comunità di riferimento. Con questa miscela di propaganda, ricatto biopolitico e terrore puro, il governo sa molto bene come strumentalizzare l’effetto smobilitante del fatto di non sapere se l’opinione di uno è l’opinione di tutti. D’altra parte, tra le esigenze logoranti della lotta quotidiana per la sopravvivenza materiale , la mancanza di attori locali sufficientemente esperti nelle tecnologie di mobilitazione tradizionali della sinistra e dei movimenti sociali, sia perché sono stati cooptati o neutralizzati, e l’incertezza sul grado di violenza che è capace di scatenare il regime, non c’è grande margine di manovra per i settori popolari. Va notato che probabilmente solo la pressione internazionale impedisce che ci siano ancora più morti, pertanto il posizionamento astratto nell’essere anti ingerenza per principio risulta essere un po’ ipocrita.
*Marc Saint-Upéry è uno scrittore e giornalista di origine francese che da diversi anni abita a Quito. È autore del libro Il sogno di Bolívar, Le sfide delle sinistre sudamericane (Paidos, 2008) che analizza i primi anni della virata a sinistra latinoamericana. Su alencontre ha pubblicato di recente un’interessante rassegna dei miti sul “Venezuela socialista” in Francia e in Europa: https://alencontre.org/ameriques/amelat/venezuela/lire-le-venezuela-entre-negationnistes-et-euphemisateurs.html
Revista Florencia marzo 2019*