“Si potrebbe (…) pensare ad una riforma che premi, attraverso una riduzione dell’aliquota, soltanto le aziende che si impegnano per migliorare, da un profilo sociale, ambientale ed economico, il territorio in cui vivono. (…) le aziende che investono in energia rinnovabile, che reinvestono i loro utili in azienda, che assumono personale in disoccupazione o in invalidità (…) quelle aziende che sottoscrivono contratti collettivi di lavoro o che versano ai loro dipendenti salari più che dignitosi, oppure ancora che mettono in piedi programmi di mobilità aziendali sostenibili per togliere traffico delle nostre strade”. Così scriveva Samuele Vorpe, responsabile del Centro competenze tributarie, sul Corriere del Ticino il 13 febbraio 2017, all’indomani della nettissima bocciatura in votazione popolare della Riforma III della fiscalità delle imprese.
Si sarebbe potuto appunto… ma si è preferito fare diversamente e molto peggio. Da allora sono state elaborate due riforme fiscali, una cantonale e una federale, che prevedono copiosi sgravi per le aziende senza nessun criterio qualitativo e con un punto in comune: il ricatto e la violazione della libera scelta dei cittadini e della cittadine, unendo sgravi fiscali certi a ipotetiche compensazioni sociali.
Per la riforma fiscale cantone si è trattato dei cosiddetti “aiuti alle famiglie”, finanziati attraverso a un semplice travaso di contributi dal fondo per gli assegni ordinari per i figli a un nuovo fondo, senza costi supplementari per le imprese. Stavolta, a livello federale, ci si vorrebbe far credere che i due miliardi di sgravi alle aziende saranno compensati da due miliardi di maggiori entrate per l’AVS spuntati dal nulla. In realtà quei due miliardi li pagheremo noi, contribuenti salariati, e li pagheremo tre volte: come lavoratori attraverso i contributi, come consumatori attraverso l’aumento dell’IVA e come contribuenti attraverso l’incremento delle quote versate dalla Confederazione.
Le proiezioni per le entrate dell’AVS allestite dal Dipartimento federale delle finanze non includono solo le misure previste dalla Riforma fiscale e dal finanziamento dell’AVS (RFFA), ma anche quelle relative al progetto AVS21 quali l’aumento dell’età di pensionamento delle donne a 65 anni e l’incremento dell’IVA (provvedimenti già contenuti nella Previdenza 2020, pure bocciata in votazione popolare). L’unica differenza è che i lavoratori, in cambio di maggiori esborsi, stavolta non riceveranno nemmeno un franco in più. Ci si potrebbero obiettare che la metà dei contributi la pagano i datori di lavoro; ma sappiamo bene – grazie a studi sul tema – che le aziende scaricano sui dipendenti dal 40% al 100% di questi costi. I salari reali già sono in calo, come ha ammesso, per la prima volta, lo stesso SECO lo scorso mese di dicembre, e ridurre ulteriormente il potere di acquisto della maggioranza della popolazione avrà inevitabilmente anche un impatto sulla domanda interna, motore della crescita degli ultimi anni.
La decisione di destinare all’AVS il 17% del punto percentuale di IVA, ora incassato dalla Confederazione, non è una “concessione” del Parlamento federale, ma solo l’attuazione di quanto votato dal popolo nel 1993. L’aumento dell’aliquota IVA per sostenere le entrate del primo pilastro in caso di problemi dovuti all’evoluzione demografica è entrato in vigore nel 1999 ed è allora che il 17% è stato “dirottato” verso le casse federali. Secondo la rivista dei consumatori K-Tipp questo “trucchetto” avrebbe privato globalmente le casse AVS della bazzecola di 45 miliardi. Ora si corre ai ripari, ma senza compensare le perdite subite.
Si chiedono ulteriori sacrifici ai salariati e alle salariate di questo paese, già sotto pressione, ma si mantengono inalterati i privilegi concessi ai proprietari-azionisti, pur sapendo che hanno un effetto “deleterio” (1) sulle casse delle assicurazioni sociali. Il Consiglio federale aveva avvertito, già nel messaggio sulla Riforma II, che con un’imposizione parziale dei dividendi al 70% il finanziamento del primo pilastro sarebbe stato a rischio e proponeva di non scendere sotto l’80%. Con quella scelta il Parlamento federale ha allora, coscientemente, messo in pericolo il primo pilastro e continua a metterlo in percolo anche con l’attuale riforma. La tassazione dei dividendi prevista dalla RFFA (70% a livello federale e 50% a livello cantonale) continuerà infatti a favorire il passaggio da salari a dividendi, permettendo agli alti rediti di sfuggire al principio di solidarietà risparmiando sul versamento degli oneri sociali. (2)
Neppure la misura prevista per limitare il ricorso al principio dei rimborsi di capitale avrà effetti concreti poiché, già attualmente, per un franco di dividendi versati dalle riserve, un altro franco viene versato in dividendi “normali” (3). Già nel 2014 le imprese avevano accumulato 1’130 miliardi di franchi da ridistribuire ai propri azionisti esentasse e questi fondi continueranno a sfuggire al fisco.
Quello proposto dal Parlamento non è un compromesso, ma un insieme di aggiustamenti cosmetici che non correggono in alcun modo gli squilibri creati con la Riforma II. Negli ultimi anni, malgrado una crescita economica sostenuta, i salari sono calati mentre abbiamo visto aumentare lavoro precario, povertà, sottoccupazione e disparità sociali; eppure buona parte della “classe politica” e la maggioranza degli esperti di fiscalità continuano a ragione in base ai mantra stantii del “più imprese, più benessere” e dello “sgocciolamento della ricchezza”.
Si sarebbe potuto cogliere l’occasione della riforma per affrontare seriamente anche le sfide sociali e ambientali; invece ci ritroviamo di fronte a una proposta dogmatica e incurante della realtà, riflesso di una classe politica che si incaponisce a riproporre le solite, vecchie, fallimentari ricette e a difendere i privilegi di pochi, a scapito di tutti gli altri.
*articolo apparso sulla rivista Novità Fiscali (No 2 – febbraio 2019) edita dal Centro competenze tributarie della SUPSI.
1. Raoul Paglia, Azionisti e dipendenti: dividendo o salario? Novità fiscali, 2014 (1). pp. 5-11. ISSN 2235-457
2. idem
3. vedi Market Cap Report 2016 di Vontobel, citato dallo stesso Consiglio federale in risposta a all’interrogazione 16.1061