Le mobilitazioni francesi continuano ormai da cinque mesi. I momenti di scontro di piazza e la creazione di nuove forme di democrazia si combinano all’insegna della persistenza. Un’analisi approfondita e da dentro su pratiche e discorsi sollevati da questo straordinario movimento
Il movimento dei gilets jaunes entra ormai nel suo quinto mese di esistenza e non c’è dubbio che sopravviverà al cosiddetto “Grande Dibattito Nazionale” che si è appena concluso. Questo momento [terminato con il discorso del presidente Macron giovedì 25 aprile, rimandato di dieci giorni a causa dell’incendio di Notre Dame ndr] corrisponde al lancio della campagna per le elezioni europee del 26 maggio 2019. Si tratta di un punto di passaggio importante nella sequenza sociale e politica in corso: da un lato infatti il governo pretende di mostrarsi aperto nei confronti della cittadinanza e della società civile; dall’altro col sostegno della loi anti-casseur si sente più legittimato a radicalizzare la repressione di coloro che continuano a manifestare ampliando costantemente lo spettro politico del movimento, come dimostra la giornata storica del 16 marzo: marcia per il clima con lo slogan unificante “fine mese, fine del mondo, stessa logica, stessa lotta”; marcia della solidarietà contro le violenze della polizia nei quartieri popolari, ma che i manifestanti stanno scoprendo dal mese di novembre; sommossa sugli Champs Elysée nella quale si sono mischiati gilet gialli e k-way neri contrariamente a quanto sembrano sostenere i discorsi dei principali media mainstream.
Di fronte a una tale determinazione popolare, il governo – a corto di buone idee per “regolare” la questione del movimento dei gilets jaunes attraverso il ricorso al diritto penale ordinario – ha finito per pronunciarsi con un divieto puro e semplice di manifestare. La repressione continua oltre ogni misura, sia per mezzo della giustizia che attraverso la polizia: circa 10mila fermi, 6mila arresti e 2mila rinvii a giudizio; più di 200 feriti gravi alla testa; 22 persone accecate dai tiri di LBD; 5 mani strappate dai tiri di granate (un bilancio minimo che viene costantemente aggiornato, ma che già supera di gran lunga quanto visto da diversi decenni). Possiamo quindi avanzare l’ipotesi che, più che la lotta di classe, l’attuale neoliberismo preferisce la guerra civile. Un ulteriore segno, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’accentuazione della crisi in corso1.
Tuttavia l’approfondimento dei tratti autoritari di qualsiasi Stato capitalista, è il rovescio della medaglia della riconfigurazione dello stato sociale in senso workfaristico, della precarizzazione del mondo del lavoro e della chiusura delle politiche economiche neoliberali. Il fatto – eminentemente politico – che i gilets jaunes abbiano non solo bloccato l’agenda delle riforme (pensioni e disoccupazione in primis), ma anche messo in crisi l’apparato governativo e la macchina statale di polizia, ci parlano della forza reale di questo movimento e delle sue possibilità. I gilets jaunes le conoscono bene e per questo continuano a destabilizzare il sistema politico. Per di più, lo spettro di questioni politiche che il movimento solleva e con le quali vuole mettere in discussione l’esistente è molto ampio e vario. Il lavoro, nella molteplicità delle sue forme contemporanee, rimane al centro delle preoccupazioni di una composizione di classe che va oltre il salariato. Le rivendicazioni non si limitano a tale questione. Si tratta di una politicizzazione profonda di diversi aspetti degli attuali “stili di vita”, il potenziale di trasformazione sociale e politica è senza precedenti e, ancora una volta, più che il discorso sono le pratiche e le forme di organizzazione dei gilets jaunes che ce lo dimostrano. A questo proposito dobbiamo considerare tre elementi che caratterizzano il movimento in corso: la ridefinizione da parte del movimento dei gilets jaunes del binomio sciopero/blocco; la riarticolazione tra “lotta economica” e “lotta politica”; l’invenzione di nuove forme democratiche.
Sciopero / Blocco
Il primo punto è decisivo. I gilets jaunes stanno ridefinendo, in modo intelligente, il rapporto tra lo “sciopero”, inteso nella sua forma classica, e un insieme eteroclito di pratiche di “blocco economico”. Siamo tutti consapevoli che per il momento si tratta di esperimenti e che questi esperimenti non hanno ancora raggiunto una capacità di estensione decisiva. Ma questo aspetto va sottolineato.
In primo luogo le manifestazioni del sabato, chiamate “Atti”: se in una prospettiva sindacale tradizionale manifestare il sabato potrebbe risultare come un posizionamento politico al di fuori del conflitto capitale-lavoro, in realtà esso si è rivelato come una forma pienamente sviluppata di socializzazione dello sciopero2. Di fronte alle insufficienze delle forme tradizionali di sciopero – determinate dalla crisi sindacale – i gilets jaunes hanno scelto, fin dall’inizio, di irrompere sulla scena pubblica e nello spazio urbano ogni settimana. Lungi dall’essere dei cortei innocenti, le manifestazioni del sabato hanno preso di mira i quartieri centrali delle città francesi, di tutte le dimensioni. Com’è stato dimostrato dal giorno del 16 marzo, i quartieri borghesi non sono solo luoghi materiali e simbolici del potere istituzionale, ma anche spazi privilegiati del consumo di massa e, in alcune zone, come attorno agli Champs-Élysées, del consumo di beni di lusso. Le manifestazioni del sabato nei centri cittadini ostacolano la sfera della circolazione e del consumo di merci, così come la loro esibizione simbolica. Molte boutiques e grandi catene di negozi si lamentano delle pesanti perdite economiche, non solo a Parigi, Nantes, Bordeaux o Tolosa, ma ovunque in Francia. Non è quindi un caso che il costo dell’assicurazione per ricostruire le vetrine aumenti dopo ogni “Atto”.
Queste manifestazioni dimostrano chiaramente che la linea di demarcazione tra la sfera della produzione e quella del consumo non è così netta e che colpire il consumo è anche un modo di colpire, direttamente o indirettamente, la produzione. Un discorso simile vale anche per altre forme di blocco economico, che a loro volta esprimono una socializzazione dello sciopero: sciopero logistico, blocco del traffico, forme di auto-riduzione dei pedaggi, blocco del mercato internazionale di Rungis, ripetuti picchetti davanti ad Amazon, ecc. La riarticolazione del rapporto tra sciopero e pratiche di blocco richiede il riconoscimento che il confine tra produzione e circolazione, come quello tra produzione e consumo, si confonde sempre di più nel presente. Ciò non significa abbandonare le forme tradizionali di blocco della produzione, ma al contrario ripensarle al livello della produzione sociale diffusa a livello metropolitano. Da questo punto di vista, non è privo di importanza riconoscere che, di fronte alla demolizione dei servizi pubblici locali, il movimento è iniziato con la protesta contro l’aumento del prezzo della benzina. Questo rifiuto ha messo al centro un fatto elementare: quando si utilizza un mezzo privato, come l’automobile, per recarsi al lavoro, o quando l’automobile è il mezzo di lavoro in quanto tale (come per gli autisti VTC che lavorano per le piattaforme come Uber, ad esempio), abbiamo a che fare con un elemento decisivo per il funzionamento dei processi economici. È per questo motivo che l’insistenza sull’aumento del potere d’acquisto, a nostro avviso, non riguarda l’abbandono del tema del salario, ma al contrario la sua riqualificazione in termini di socializzazione. Salario sociale che, anche se non coincide con la proposta di un reddito sociale garantito, si riferisce all’insieme della protezione sociale finanziata dal prelievo sui prodotti dello sfruttamento del lavoro vivo.
Lotta economica / lotta politica
I gilets jaunes, mettendo al centro la questione del potere d’acquisto e quindi anche del salario socializzato, ci hanno messo di fronte alla fine della “settorialità” dell’azione sindacale e, più in generale, della settorialità di un certo tipo di lotta economica. Da questo punto di vista, hanno di fatto riarticolato il rapporto tra “lotta economica” e “lotta politica”.
In primo luogo, le occupazioni degli spazi urbani, i quartieri borghesi della Parigi occidentale e della riva sinistra, l’assalto ai negozi di lusso, ecc. sono sempre stati accompagnati da un costante riferimento ai simboli della Repubblica, alla messa in evidenza dell’ipocrisia e dell’illegittimità di un ordine del discorso repubblicano che ha rotto ogni nesso con la giustizia sociale e fiscale, per sprofondare nelle tematiche della sicurezza. Tale riarticolazione tra lotta economica e lotta politica richiede poi una combinazione di quella che i gilets jaunes chiamano “giustizia economica” e quella che chiamano “democrazia” (ma potremmo anche aggiungere “giustizia ecologica”). Per esempio, mentre alcuni a sinistra vedono le rivendicazioni dei gilets jaunes per una maggiore giustizia fiscale come la dimostrazione di una certa “arretratezza” della soggettività politica del movimento, noi difendiamo un’interpretazione radicalmente diversa, che sottolinea invece gli aspetti innovativi promossi dai gilets jaunes, anche in forma impura o addirittura contraddittoria. Quello che da alcuni viene spesso interpretato come un elemento di debolezza ci sembra essere, al contrario, uno dei punti di maggiore forza del movimento.
Esaminiamo più da vicino questa combinazione di giustizia sociale e fiscale. Se, ad esempio, il movimento si rivolge allo Stato per quanto riguarda la fiscalità, il salario minimo, i servizi pubblici, ecc. (e che dire delle richieste che insistono su “zero senzatetto”, delle misure a sostegno delle persone con disabilità, della proposta di socializzare il sistema bancario?), lo fa non perché ha una chiara consapevolezza dell’insieme dei rapporti sociali o della figure del comando capitalistico contemporaneo, ma perché identifica lo Stato contemporaneo come un importante attore economico che contribuisce allo sfruttamento e al dominio capitalistico.
Più precisamente, è la funzione che svolge in termini di “estrazione” nei processi di valorizzazione contemporanea che viene rifiutata. Il carattere “estrattivista” dello Stato, cioè il suo ruolo nella logica estrattiva del capitalismo attuale, si manifesta in due modi: attraverso l’espropriazione dei servizi pubblici e dei beni comuni (da qui la centralità all’interno del movimento della questione dei servizi locali e nazionali); ma anche attraverso la leva fiscale (e quindi del debito). La leva fiscale e l’indebitamento sono due espressioni molto concrete della ridefinizione della logica dello sfruttamento che oggi influisce direttamente sulle forme di vita (consumi, accesso ai servizi pubblici, spese scolastiche, rette universitarie, salute, vacanze, ecc.). Da questo punto di vista, piuttosto che leggere le rivendicazioni fiscali come il “lato” di destra delle rivendicazioni del movimento, si dovrebbe invece cercare di leggere queste istanze partendo dalle condizioni sociali di povertà che i gilets jaunes hanno evidenziato come una caratteristica peculiare delle soggettività mobilitate. Una povertà che è pienamente produttiva. La povertà, il declassamento, la proletarizzazione emergono in effetti come la condizione che colpisce tutti gli strati sociali che partecipano alla produzione di ricchezza.
Non si tratta quindi di povertà “marginale”, nel senso di una condizione che caratterizza i soggetti “esclusi” dal circuito della produzione di ricchezza. Al contrario, i poveri corrispondono ai soggetti che oggi assumono una centralità produttiva imprescindibile nei settori più disparati: terziario, servizi pubblici, scuole, municipi, ospedali, ma anche lavoratori della logistica o delle piattaforme come Uber, Deliveroo, ecc.
È per questo motivo che il movimento insiste sulla rivalorizzazione complessiva del lavoro (“vogliamo vivere dei nostri mestieri”), una rivalutazione che comporta o un’enfasi diretta sui salari o su richieste indirette, come l’equità fiscale, la condivisione della ricchezza, la fine dei privilegi, l’accesso ai servizi pubblici, ecc. Questo insieme di elementi ci mostra quanto sia generale la portata del movimento dei gilets jaunes, per la sua capacità di investire sia nel campo della produzione che nella riproduzione del capitale3, avviando al contempo una reinvenzione delle pratiche democratiche.
E la democrazia avanza
Di fronte alla crisi irreversibile delle forme classiche di mediazione sociale e di rappresentanza politica i gilets jaunes hanno accentuato sempre più le pratiche di orizzontalità e di auto-organizzazione.
Se il bisogno di democrazia diretta e partecipativa è apparso subito come uno dei tratti distintivi del movimento – un vaccino formidabile contro ogni goffo tentativo di recupero – si tratta di un fenomeno che può essere declinato non solo in modo pratico-organizzativo, ma anche destituente e costituente. A questo proposito, possiamo considerare tre importanti dimensioni: la critica a Macron e alla Quinta Repubblica, la proposta del R.I.C. [referendum di iniziativa cittadina, ndr] e la proliferazione delle assemblee locali.
Molto più che la “volontà generale”, Emmanuel Macron rappresenta l’incarnazione dell’ odio di classe dei nuovi ricchi. I suoi discorsi contro i losers, i pigri, i disoccupati, quelli che non riescono nella vita, ecc. hanno scandito la campagna elettorale e la prima fase del suo mandato quinquennale, dedicato a trasformare la vecchia Francia degli “assistiti” in una Start-up Nation. Lontano dallo stile discreto dei tecnocrati grigiastri di Bruxelles o degli anonimi funzionari dello stato profondo, la sua figura altezzosa di manager dinamico ha a lungo negato nel modo più ostentato possibile qualsiasi legittimità a un movimento che chiedeva “più denaro” e “più partecipazione”. Al contrario, ha perfettamente assunto il suo ruolo di monarca a capo di un’impalcatura istituzionale altamente centralizzata e verticalizzata, risultato del colpo di stato militare del 1958. Se una delle caratteristiche dell’ “attuale crisi della democrazia” è proprio la diffida del parlamento da parte dell’esecutivo, allora la formula Macron + Quinta Repubblica si è rivelata un cocktail esplosivo. Nessuno si stupirà, quindi, che la destituzione di Macron – insieme alle critiche all’attuale costituzione – sia così centrale per i gilets jaunes.
In secondo luogo, la proposta del RIC. Diverse componenti della sinistra impegnata nel movimento mostrano una certa perplessità nei confronti di tale rivendicazione. Nonostante contenga il rischio reale di una svolta puramente formalistica e procedurale, bisogna riconoscere che, fino ad oggi, questo pericolo è stato respinto, perché l’affermazione del RIC, molto più che una feticizzazione astratta dei processi democratici, si è espressa come un’istanza materiale di riappropriazione del potere politico. Questo desiderio di riappropriazione del potere politico si traduce in una decentralizzazione del potere stesso, cioè nell’affermazione di una concezione non-monopolistica del processo di decisione politica. Sebbene l’applicazione concreta del RIC sollevi interrogativi legittimi, deve essere interpretata come una delle rivendicazioni “trovate” dal movimento nel suo cammino, come possibile alternativa al suo “diventare partito” e al partecipare alle elezioni, ma anche come “soluzione” alla cancellazione operata da Macron dei corpi intermedi come tratto distintivo del suo populismo dall’alto. Si deve quindi ammettere che il RIC, nella sua natura contraddittoria e problematica, ha comunque permesso ai gilets jaunes di rifiutare il percorso intrapreso dal Movimento 5 Stelle in Italia e da Podemos in Spagna.
Il primo è diventato un partito dell’establishment che governa con l’estrema destra di Salvini, il secondo si è diviso in dispute interne che lo hanno separato dalle lotte sociali. L’esito di qualsiasi processo referendario, come sappiamo, dipende sempre dall’equilibrio dei poteri in gioco. Il referendum in California ha legalizzato la marijuana, ma in Svizzera è stato usato contro gli immigrati e con finalità islamofobiche. Nella storia italiana ha permesso di far approvare il diritto all’aborto, di respingere il nucleare e di difendere il servizio pubblico dell’acqua. In tutti questi casi, la presenza o meno di lotte e movimenti che “portano” e cercano di determinare i processi referendari è apparsa decisiva. Anche se il RIC non ha più la centralità che il movimento gli ha dato nelle sue fasi iniziali, non va sottovalutato nemmeno un altro aspetto: esso rappresenta il volto formale di quel potere di veto e di revoca delle decisioni governative che il movimento sperimenta effettivamente ogni sabato per le strade.
Vuoi unirti a noi? Commercy e Saint-Nazaire
ll terzo punto verte sulle assemblee popolari, sul loro rafforzamento a livello locale, sulla loro proliferazione in tutto il paese e sulla loro messa in rete. Tale questione – che ci sembra indicare un’ipotesi molto fruttuosa – combina la sperimentazione concreta di una pratica diretta e partecipativa della democrazia nella vita quotidiana con la reinvenzione di una forma di confederalismo democratico.
La proposta di Commercy, rilanciata da Saint-Nazaire e raccolta da centinaia di assemblee popolari in tutta la Francia, costituisce una prospettiva originale e ricca di potenzialità. La moltiplicazione di questi foyer di lotta e il consolidamento delle loro connessioni rappresentano una questione da cui potrebbe dipendere il futuro della lotta di classe in Francia. Queste assemblee concretizzano forme embrionali di contropotere sociale che, per il momento, non solo hanno fermato la lunga marcia di ristrutturazione neoliberale, ma hanno anche affermato un modo diverso di intendere e di vivere la politica. Forza critico-destituente e potenza affermativa, il movimento dei gilets jaunes trova i suoi organi vitali in queste cellule di valorizzazione del sapere e del know-how di ognuno. A questo proposito, l’Assemblea delle Assemblee di Saint-Nazaire ha dimostrato molto chiaramente la determinazione a strutturare il movimento sul lungo termine, articolando la pluralità dei livelli territoriali attraverso i quali esso si sviluppa: aree rurali (agricole e turistiche), piccole città/aree periurbane, città grandi e medie, aree metropolitane. La proliferazione del movimento nell’insieme del territorio francese e la sua costante e risoluta presenza nel tempo sono un chiaro segno della volontà di una concreta riappropriazione del potere politico che va ben oltre lo spirito dégagista anti-macron o un la sfiducia nei confronti della rappresentanza.
Dopo essere scampato alla minaccia della cattura elettorale, il movimento dei gilets jaunes ha in mano le carte per opporsi ai poteri esistenti e imporre le sue rivendicazioni.
A questo proposito, tre aspetti ci sembrano contribuire al suo sviluppo:
- in primo luogo, la costruzione di collegamenti tra le diverse assemblee popolari presenti a livello locale;
- poi, il collegamento di queste assemblee con gli altri centri di lotta (sindacati, antirazzisti, femministe, femministe, ecologiste, studenti, ecc;) che esistono affianco a quelli dei gilets jaunes;
- infine, l’articolazione tra i momenti d’intensità antagonista che destabilizzano il sistema politico e la capacità di blocco che destabilizza il regime economico.
La combinazione di queste tre prospettive rappresenta la sfida dei prossimi mesi: come tenere insieme l’irruzione degli Atti del sabato con il consolidamento di una processualità politica di lungo periodo? Come fare in modo che il movimento si radichi sempre più profondamente negli spazi sociali e geografici e si riproduca con sempre maggiore potenza nel tempo, senza rinunciare alle proprie caratteristiche, che costituiscono la sua inedita forza? Una sfida che – se vinta – metterà in discussione molte cose, in Francia come altrove.
1) A questo proposito, J.M. Apathie – un commentatore di tanto in tanto acuto come ogni reazionario degno di questo nome – parla di “elementi sparsi di guerra civile”.
2) Nella storia del movimento operaio e rivoluzionario, lo “sciopero economico” riguarda richieste relative ai salari e alle condizioni di lavoro, mentre lo “sciopero politico” riguarda richieste relative a situazioni politiche (corruzione, cambio di governo, ecc.). Dalla fine degli anni ’70 – e in particolare con il movimento femminista globale dal 2016 – la pratica degli scioperi è stata adottata sempre più spesso anche per lotte su un più ampio spettro di questioni: il razzismo, il sessismo, la violenza di genere, la sfera della riproduzione sociale, ecc. Il termine “sciopero sociale” cerca di definire questa pluralità di lotte da un punto di vista teorico e politico.
3) Per quanto riguarda l’importanza della sfera della riproduzione nelle lotte contemporanee e nel movimento dei Gilets Jaunes rimandiamo al nostro primo editorial, Sur une ligne de crête: note sui gilets gialli.