Tempo di lettura: 3 minuti

Un’intervista a Gilbert Achcar di Luc Mathieu*

È possibile parlare di una nuova “primavera araba”?

Effettivamente, sia in Algeria sia nel Sudan vi è una nuova ondata rivoluzionaria. Inoltre, non si deve dimenticare che da un anno a questa parte vi sono stati vari momenti di rivolta sociale anche in Tunisia, in Marocco e in Giordania. Vi sono dunque i segnali di una nuova ondata rivoluzionaria. Ma va anche detto che dal 2013 siamo in una fase controrivoluzionaria. La situazione in Libia non sta migliorando con l’offensiva di Khalifa Haftar contro Tripoli, che in certo senso segnala il ritorno del vecchio regime. Non sta migliorando nemmeno in Siria e nello Yemen, in piena guerra civile, e in Egitto. La situazione è contradditoria. Vi sono certo segnali di una nuova “primavera”, ma ci troviamo piuttosto in una fase di transizione.

Vi sono punti comuni fra i sollevamenti algerino e sudanese?

Nel mondo arabo vi sono due grandi categorie di Paesi. Nella prima rientrano quegli Stati che possiamo definire patrimoniali, con famiglie regnanti che dispongono dell’apparato statale. Esse concepiscono lo Stato come una proprietà privata. È questo il caso di otto monarchie del mondo arabo, in cui la sovranità spetta al re, non al popolo, ma anche quello di repubbliche come la Siria – e in passato l’Iraq di Saddam Hussein -, in cui alcune famiglie si sono impossessate dello Stato. In questi casi, non è pensabile immaginare che le forze armate rovescino le famiglie al potere. E quando eccezionalmente avviene che una parte di queste forze armate appoggi i sollevamenti popolari, come in Siria o in Libia, allora la guerra civile è praticamente inevitabile. Nell’altra categoria rientrano gli Stati neo-patrimoniali, in cui le istituzioni dispongono di una relativa autonomia nei confronti dei dirigenti. È il caso dell’Algeria e dell’Egitto. Qui l’istituzione principale è l’esercito, che controlla direttamente il potere politico che ne è espressione. È l’esercito che “fa” i presidenti. Quanto al Sudan, rientra in una categoria intermedia. Omar al-Bashir, che aveva preso il potere con un colpo di Stato militare, aveva tentato di rimodellare l’esercito per poterlo controllare direttamente – come avevano fatto Hafiz al-Asad in Siria o Mu’ammar Gheddafi in Libia -, senza però riuscirvi del tutto. E l’esercito ha potuto rovesciarlo.

Teme vi siano delle transizioni difficili?

Sì, senza dubbio. Quando il popolo vuole rovesciare un regime, vuole in realtà cambiare tutto il modo di funzionamento dello Stato, non solo un presidente. Bouteflika e al-Bashir non sono, per così dire, che la punta emergente di un iceberg, la cui massa resta sommersa. I loro due regimi hanno come modello l’Egitto di Abd al-Fattah as-Sisi, e si sforzano di contrabbandare l’esercito come il “salvatore della nazione”, consolidandone ancor più il potere. Ciò può forse funzionare in Sudan, ma si rivelerà più complicato in Algeria, dove la popolazione non si fa alcuna illusione sul fatto che siano i militari che controllano il potere. Non si deve comunque ignorare il fatto che ciò che è iniziato nel 2011 è un processo rivoluzionario storico, di lunga durata, che abbraccerà decenni. Si scontra con un blocco culturale, sociale ed economico che produce i tassi di disoccupazione più elevati al mondo, soprattutto fra i giovani. Per diminuirli sarebbero necessari dei mutamenti radicali nelle politiche economiche dei quali non si scorge alcuna traccia, nemmeno in Tunisia, dove la politica economica è sostanzialmente la stessa del vecchio regime. E ci si ostina a adottare le assurde ricette del Fondo monetario internazionale, con le sue politiche di austerità e di riduzione degli investimenti pubblici. L’idea che gli investimenti privati possano rappresentare il motore [dello sviluppo} è assurda. In questa parte del mondo, dove regnano l’arbitrio, l’instabilità e il nepotismo, i fondi privati si dirigono dove si guadagna facilmente e verso la speculazione fondiaria.
L’altra difficoltà consiste nel fatto che per ottenere un mutamento radicale sono necessarie forze politiche che lo perseguano e che esprimano le aspirazioni democratiche e progressiste della popolazione, e soprattutto dei giovani. E il problema è che queste non si vedono, sono drammaticamente assenti in tutta la regione.

Prevede altri sollevamenti?

Fatta eccezione per il Qatar e gli Emirati arabi uniti, dove il 90 % della popolazione è composta da stranieri, nessun Paese è al riparo da possibili esplosioni, nemmeno quelli della “primavera” del 2011. In Egitto la situazione economica è insopportabile. Se la gente non scende in piazza è perché è stata scottata dai risultati ottenuti dopo il 2011: si è tornati alla casella di partenza, se non ancora più indietro. Ma vedendo cosa avviene in Sudan e in Algeria, il coraggio ritorna. Prima o poi il movimento ripartirà: la pazienza è esaurita.

* Gilbert Achcar, d’origini libanesi, è professore di Relazioni internazionali e politiche presso la School of Oriental and African Studies di Londra. Fra i suoi ultimi libri pubblicati in Francia vi sono Le Peuple veut (Actes Sud, 2013) e Symptômes morbides (Actes Sud, 2017). L’intervista è comparsa sul quotidiano francese «Liberation» dell’11 aprile scorso.