Il prossimo 14 giugno vi sarà uno sciopero delle donne? Tutte balle! In realtà si tratta di una sorta di scampagnata, al massimo una mobilitazione che vuole ribadire solo che è ora di applicare la parità.
A correggere il movimento delle donne (e il movimento sindacale che lo sostiene) che da mesi ormai sta preparando lo sciopero per il 14 giugno è Manuele Bertoli, quello che fa la differenza in governo. Rivolgendosi alle direzioni delle scuole, in una circolare del 16 aprile, spiega che “il 14 giugno si terrà la giornata denominata “sciopero delle donne””. Già qui si può notare l’utilizzazione di quel bel “denominata” proprio a voler dire: la chiamano così, ma tale non è. Notare poi la finezza delle virgolette, segno di interpunzione utilizzato proprio quando si vuole attribuire ad un termine un’accezione diversa da quella normalmente intesa. Proprio a voler confermare che quel temine “sciopero” non deve essere inteso nel suo normale e ovvio significato.
Segue poi l’indicazione esplicita: e cioè che quella giornata denominata in quel modo “…non è da ritenere come uno sciopero vero e proprio, ma come una manifestazione generale a favore della parità di genere”. E il cerchio è chiuso.
Ma chi ha deciso che questa giornata non debba essere considerata come uno sciopero vero e proprio, ma qualcos’altro? Il Consiglio di Stato, ci dice Bertoli: infatti la sua lettera spiega che la giornata del 14 giugno è una “manifestazione che sulla base di quanto ha già deciso dal Consiglio di Stato non è da ritenere…” etc. etc.
E poi, sempre appellandosi a quanto “deciso dal Consiglio di Stato”, ecco ribadita la negazione del diritto di sciopero. Scrive infatti il neo-teorico della “differenza” (in governo): “…le dipendenti (docenti e non docenti) non usufruiscono di particolare possibilità di assenza dal lavoro, se non di quelli usuali già riconosciuti dalla legge”; rinviando implicitamente a quelli già elencati nella risoluzione approvata dal governo (unanimemente, come quasi sempre) qualche settimana fa: fine del lavoro anticipato, giornata o mezza giornata di congedo, etc. In tutte queste forme di “assenza del lavoro”, “usuali” e “già riconosciute dalla legge” non può essere annoverato, a mente del governo e del consigliere Bertoli, il diritto di sciopero, forma di “assenza del lavoro” per eccellenza dal punto di vista della protesta sociale.
Naturalmente, dopo aver utilizzato tre quarti della lettera per, come abbiamo visto, negare il diritto di sciopero, si arriva poi ai fervorini finali, di stampo “progressista” che invitano a guardare con benevolenza a quanto avverrà in questa giornata; anzi, si incoraggia a trasformarla in una giornata di promozione. Vediamo come.
Bertoli invita a cogliere questa opportunità, ricordando che tra le finalità della scuola (art. 2) vi è la promozione del principio di parità tra uomo e donna. Osservazione sacrosanta, anche se in realtà la giornata del 14 giugno non vuole tanto promuovere il principio di parità: quello è riconosciuto, come principio, dalla costituzione e da diverse leggi. Il 14 giungo invece si sciopera contro le discriminazioni di genere che imperversano, si moltiplicano e si approfondiscono malgrado il riconoscimento del principio di parità nelle leggi. In altre parole si sciopera affinché quel principio cominci a realizzarsi concretamente. Sarebbe un eccellente punto di partenza per mostrare la differenza tra la forma e la sostanza di una legge.
L’ultima raccomandazione, anche questa tinta di apparente disponibilità, mostra solo che chi ha redatto questa lettera conosce poco il mondo della scuola. Si fa infatti riferimento alle “studentesse più grandi”, quelle che “potrebbero essere interessate alle attività svolte nel Cantone a margine della giornata” e, si aggiunge, “considerato che si tratta dell’ultimo giorno di calendario scolastico”, si invitano le direzioni “a valutare benevolmente le assenze delle allieve”.
Ora, al di là del tono paternalistico, va ricordato che le “studentesse più grandi” (immaginiamo ci si riferisca a quelle che frequentano il terzo o il quarto anno delle scuole medie superiori) sono in grandissima parte maggiorenni: giustificano quindi da sole le assenze e potranno scrivere, ammesso e non concesso che dovranno giustificare le assenze nell’ultimo giorno di scuola, quello che vogliono a giustificazione della propria assenza. Infatti va ricordato che, per ragioni evidenti, negli ultimi giorni dell’anno scolastico di fatto non vengono più rilevate e registrate le assenze (perché, a corsi ormai terminati, sarebbe difficile raggiungere gli studenti per chiedere la giustificazioni, oltre alla necessità amministrativa di dover riportare il totale delle ore di assenza sulle pagelle in fase di elaborazione).
La “benevolenza” suggerita dal DECS non servirà dunque a nulla. Dimostra solo, qualora fosse necessario, quanto poco la direzione del DECS conosca il mondo della scuola e i suoi reali meccanismi di funzionamento.
E la cosa non sorprende.
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