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Le disparità salariali tra uomini e donne sono un tema centrale dello sciopero delle donne del 14 giugno 2019. Il discorso dominante tenta di nascondere la loro ampiezza “spiegando”, statistiche alla mano, una parte di queste discriminazioni.

Decriptazione

Le disparità salariali erano già un tema centrale in occasione dello sciopero delle donne del 14 giugno 1991. Ebbene, in 28 anni, si è fatta strada l’idea che bisognerebbe distinguere, all’interno di queste differenze di salario, la parte “spiegata” dalla parte “non spiegata”, e solo quest’ultima potrebbe essere associata a delle discriminazioni.

Ad esempio, il quotidiano Le Temps pubblicava il 13 settembre 2018 un articolo intitolato “Salari: la differenza tra uomini e donne resta in parte non spiegata.”. Veniva poi citata Valérie Borioli Sandoz, responsabile dell’uguaglianza presso Travail Suisse, che dichiarava di preferire “osservare la parte di queste differenze salari, non spiegabili da fattori oggettivi. Questa parte è in leggero aumento e si avvicina al 40%. Questo dato è molto più importante della differenza in quanto tale, perché gli specialisti la considerano come un indicatore delle discriminazioni” Cosa vale questa spiegazione?

Deplorevole confusione

Nel suo utilizzo corrente il verbo “spiegare” può significare “far conoscere il motivo, la causa di qualcosa”. Ma può anche avere il significato di “giustificare”.

A questi si aggiunge un terzo senso, che deriva dalla terminologia statistica. In questo caso, la variabile “esplicativa”, o “indipendente”, designa una caratteristica introdotta in un modello con lo scopo di descrivere e predire il comportamento di un’altra variabile, “a spiegarla”, o “dipendente”. Per esempio, l’età è una variabile esplicativa dello stato di salute: a partire da una certa soglia, più l’età aumenta, più lo stato di salute peggiora. Detto questo, tale “spiegazione” statistica non può essere considerato un fatto che permette di “conoscere la ragione, la causa di qualche cosa”. Per questo bisogna far capo alle conoscenze mediche, biologiche, sociologiche, etc. che spiegano i processi di invecchiamento degli esseri umani e le loro ripercussioni sulla salute. E questa “spiegazione” statistica ha ancora meno il senso di “giustificarla”.

Pertanto, in materia di disparità salariali, la deplorevole tendenza a confondere questi tre significati del termine spiegare, come dimostrato dai propositi ripresi da Le Temps.

L’analisi del BASS (Büro für arbeits und sozialpolitische Studien).

L’analisi delle disparità salariali tra uomini e donne si basa sui dati della Rilevazione della struttura dei salari (RSS), realizzata ogni due anni dall’Ufficio federale di statistica (UST). L’analisi è affidata a un organismo esterno. L’analisi sulla base dei dati del 2014 è stata realizzata dall’ufficio BASS di Berna. Il suo rapporto finale può essere consultato sul sito dell’UFS (1) (quella relativa ai dati 2016 non era ancora online).

L’analisi statistica utilizzata si basa sul modello Blinder-Oaxaca, una referenza internazionale in materia (2). In un primo tempo, il salario (3) lordo standardizzato medio degli uomini e quello delle donne (per una durata del lavoro standard di 40 ore alla settimana, includendo ogni forma di remunerazione) sono espressi come due funzioni di una serie di variabili (età, formazione, settore di attività, …) e i coefficienti di queste variabili sono stimati. In un secondo tempo, queste funzioni salariali sono utilizzate per calcolare il salario medio guadagnato dalle donne nell’ipotesi nella quale le donne avessero le stesse caratteristiche degli uomini (stessa età, stessa formazione, …). La differenza tra questi salari ipotetici delle donne e i loro salari reali corrisponde, per semplificare, alla parte di disparità salariali “spiegate” da fattori “oggettivi”, il resto è la parte “non spiegata”.

Una differenza del 7.4% o del 17.5%?

La lettura del rapporto del BASS riserva immediatamente una sorpresa. I risultati per l’anno 2014 sono in effetti presentati nella maniera seguente:

(1) La differenza salariale totale tra i salari medi degli uomini e delle donne è del 17,5%.

(2) La parte “spiegata” è stimata al 10,1% (57,6% della differenza totale). Questa parte “spiegata” si suddivide a sua volta in due:

(3) l ’Ausstattungseffekt (l’effetto delle caratteristiche o della dotazione, vale a dire dei famosi “fattori oggettivi”), che è del 6,2% (35,6% della differenza totale) ;

(4) l’Interaktionseffetkt (l’effetto di interazione), che è del 3,9% (22,0% della differenza totale).

(5) Infine, la parte “non spiegata” della differenza salariale è del 7,4% (42,4% della differenza totale).

Una “prudenza” difficile da spiegare… o forse no?

Cos’è Interaktionseffetkt? “L’effetto di interazione è un valore residuale difficile da interpretare”, “spiega”, per modo di dire, il BASS. L’allegato metodologico apporta un complemento di informazioni, da parte sua non residuale. Vi si legge infatti che il modello Blinder-Oaxaca non conduce a dei risultati univoci (nicht eindeutig) in materia di distinzione tra la parte “spiegata” e “non spiegata” delle disparità salariali. La ragione data può essere riassunta nel modo seguente. È possibile stimare la parte “spiegata” della differenza salariale calcolando i salari nell’ipotesi in cui le donne avessero le stesse caratteristiche degli uomini (come indicato sopra). Ma è anche possibile fare questa stima calcolando il salario ipotetico di queste donne, con le loro caratteristiche effettive, ma supponendo che siano pagate come gli uomini.

Ebbene, queste due soluzioni portano a dei risultati molto differenti. Nel primo caso, l’effetto di interazione è integrato nella parte “spiegata” della differenza salariale (come sopra). Nel secondo caso, l’effetto di interazione fa parte della parte “non spiegata” della differenza salariale.

Riassumendo: più di un quinto (22%) della disparità salariale tra donne e uomini è “difficile da interpretare” con il modello Blinder-Oaxaca. Il BASS la include generosamente nella parte presumibilmente “spiegata” delle differenze salariali, gonfiando quest’ultima dal 6,2% al 10,2%. La giustificazione di questa scelta?

Sarebbe, secondo il BASS, un’”ipotesi prudente”. Prudente? “Prudente” perché e per chi, possono chiedere le donne?

Quale griglia interpretativa?

Ritorniamo ora all’interpretazione dei risultati di queste analisi statistiche. Come indicato, il modello esprime, in una regressione, il salario medio (il suo logaritmo naturale) come una funzione di più caratteristiche: età, anni di servizio, livello di formazione, stato civile, nazionalità, posizione professionale, professione esercitata, dimensione dell’impresa, settore d’attività, regione, tasso di attività, tipo di remunerazione, accordi salariali, altri elementi di salario. Cosa significa tutto ciò?

Per comprenderlo prendiamo l’esempio della posizione professionale (ma il ragionamento è valido per la maggior parte delle variabili del modello). Il modello registra il fatto che esiste una relazione tra la posizione professionale e il salario e permette di calcolare un coefficiente corrispondente a questa relazione. Più la posizione è elevata, più il salario è alto: questa constatazione non si discute. Sappiamo anche che queste differenze possono avere delle dimensioni scioccanti: cosa giustifica il fatto che, per esempio, il direttore delle FFS guadagni 20 a 30 volte più degli impiegati meno pagati nella sua impresa?

Immaginiamo per un momento che ci sia la stessa proporzione di donne e uomini a occupare le cinque posizioni professionali repertoriate (quadro superiore, quadro medio, quadro inferiore, responsabile dell’esecuzione di lavori, senza funzione di quadro). In questo caso, le differenze salariali tra i quadri e le persone senza funzione di quadro, per quanto odiose possano essere, non contribuirebbero a creare una disparità specifica tra uomini e donne.

Dalla “spiegazione” alla giustificazione

Ma non è il caso. Nel 2014, secondo il rapporto del BASS, il 16% degli uomini aveva una funzione di quadro medio o superiore, contro il 7,7% delle donne. All’opposto, il 76,4% delle donne non aveva una funzione di quadro, contro il 64,2% degli uomini. Questa differenza è il risultato di un insieme di meccanismi discriminatori, operanti a differenti momenti e livelli: dalla prima infanzia alla formazione e all’orientamento professionale, delle rappresentazioni sociali che “attribuiscono” la responsabilità dei compiti domestici e educativi prioritariamente alle donne, al funzionamento del cosiddetto mercato del lavoro che sfrutta e coltiva queste rappresentazioni, alle politiche di reclutamento e di promozione delle imprese, per non citare che alcuni fattori.

La sottorappresentazione delle donne nelle funzioni di quadro, e la loro sovrarappresentazione nelle funzioni senza ruoli di conduzione, è dunque il risultato di discriminazioni. Ma l’interpretazione dominante, corrispondente al modello Blinder-Oaxaca, stende il velo su questa realtà: considera la posizione professionale e la sua distribuzione diseguale tra uomini e donne come se venisse dal nulla: un “fattore oggettivo”, il cui impatto sulle disparità salariali tra uomini e donne è considerato come giustificato, dato che è “spiegato”. L’analisi statistica diventa così una macchina per nascondere le discriminazioni.

Il diritto limitato

Per legittimare questa catena di equivalenze tendenziose “variabile esplicativa” = “fattore oggettivo” = “non-discriminazione”, si fa anche appello al diritto. La Costituzione federale sancisce, al suo articolo 8, capoverso 3, il principio di salario uguale “per un lavoro di uguale valore”. L’analisi statistica, con le sue variabili esplicative, è presentata come il mezzo per rendere possibile il confronto tra i lavori “di uguale valore”, neutralizzando gli effetti delle differenze “oggettive”. Fumo negli occhi.

In primo luogo, la nozione di “lavoro di uguale valore” indica che dei lavori devono poter essere paragonati anche se sono differenti. Per essere effettivo, questo principio esige di procedere al confronto concreto dei lavori, compreso il superamento dei confini tradizionali tra funzioni, formazioni, ambiti d’attività, etc.

Ebbene l’approccio statistico fa il contrario: isola e irrigidisce ogni caratteristica (età, formazione, …) e i suoi effetti statistici. Questo impedisce di ripensare le equivalenze e di valutare così se due lavori, apparentemente molto differenti, non potrebbero in realtà avere un “uguale valore”.

Un lavoro di “uguale valore”?

Una donna che lavora come assistente di cura in una casa anziani non ha evidentemente la stessa formazione di un economista, universitario, che lavora per la direzione di un grande ospedale. In un modello statistico, questo è sufficiente a “spiegare” buona parte della differenza di salario tra i due. Ma se consideriamo le competenze che deve mobilitare l’assistente di cura – a condizione che le diano il tempo di farlo – per prendersi cura delle persone anziane di cui si occupa, stabilire con loro delle relazioni di fiducia, comprendere le loro attese e le loro reazioni, valutare i loro bisogni, reagire in maniera appropriata alle situazioni impreviste e urgenti, fornisce veramente un valore così inferiore a quello di un economista, che applica dei modelli standard di management per aumentare il margine di manovra del suo ospedale e che riceve un salario da tre a cinque volte superiore? Il principio costituzionale del “lavoro di uguale valore” significa che questo tipo di paragone dovrebbe essere possibile. La sua miope applicazione giuridica rende questo paragone difficile. Il ricorso alla modellizzazione statistica come strumento privilegiato di applicazione giuridica del principio costituzionale conduce a renderla impossibile.

Discriminazioni ignorate

In secondo luogo, il quadro giuridico attuale è molto restrittivo e, per definizione, elude numerose discriminazioni. Suppone in questo modo l’esistenza di un datore di lavoro identico. Le disparità che si creano al di fuori del rapporto di lavoro diretto sono dunque ignorate. Invece, una parte importante dei meccanismi discriminatori non opera direttamente nel quadro definito dal contratto di lavoro. Per esempio, nel 2014, la mediana dei salari standardizzati per settore nel settore sanitario e dell’azione sociale era di fr. 6’372.-, senza distinzione di genere. Nel settore delle attività finanziarie e assicurative, era di fr. 9’208.- (il 45% in più). Cosa giustifica una tale differenza di remunerazioni tra questi due settori di attività? La produttività? Quale produttività? Quella misurata dal volume di affari trattati in borsa, comparato con le tariffe delle infermiere a domicilio? L’utilità sociale? In questo caso il rapporto non dovrebbe essere invertito? Ebbene, il 78,4% degli impieghi nei settori della salute sono occupati da donne contro il 42,4% nelle banche e assicurazioni. Considerare che la disparità salariale che deriva da questa realtà non sia tale, con il pretesto che esuli dal quadro giuridico limitato in vigore oggi, è una considerazione senza senso per tutti e tutte coloro che hanno a cuore l’uguaglianza.

Statistiche e vita reale

L’analisi statistica isola alcune caratteristiche, spiegando statisticamente, il livello di salario: l’età, la formazione, la situazione professionale, …. Non rende però conto di come queste caratteristiche interagiscono con la realtà, tra di loro e con il genere, la situazione professionale stessa,ad esempio, è in parte determinata dal genere. Non giustifica nulla.

Decidere che queste caratteristiche siano dei “fattori oggettivi” i cui effetti sulle disparità salariali sono “spiegati”, di conseguenza non discriminatori e “giustificati”, non è il risultato automatico dell’analisi statistica, ma una scelta, corrispondente al modello Blinder-Oaxaca e che riflette una concezione contestabile di quelle che sono le discriminazioni nelle nostre società, nello specifico nei confronti delle donne. Nella vita vera, una donna non può dire “No, l’effetto della posizione professionale, non lo prendo in considerazione!”. Gli effetti di tutte le caratteristiche, che hanno in maggioranza una dimensione discriminatoria dal punto di vista di genere, si combinano, si sommano, si sottraggono, “spiegati” o no, nella busta paga delle donne.

È il salario netto che conta

E non è tutto. Per avvicinarci alla vera misura delle disparità salariali tra donne e uomini, non bisognerebbe prendere come riferimento il salario standardizzato. Quest’ultimo è una pura finzione, equivalente a una sorta di tasso mensile. Nella vita reale, i redditi di cui dispongono le donne e gli uomini corrispondono al salario effettivamente percepito, il salario netto, che dipende fortemente dal tasso di attività. Ebbene, nel 2017, il 59% delle donne lavoravano a tempo parziale contro il 17,6% degli uomini. In Islanda, due scioperi nazionali delle donne hanno permesso di conquistare una legge unica al mondo: una legge che impone alle imprese di attestare che applichino effettivamente l’uguaglianza salariale; la Women’s Rights association, organizzatrice degli scioperi, prende in considerazione anche il salario effettivo (tenendo conto del tasso di attività) come referenza per misurare le disparità salariali tra donne e uomini (4).

I due principali motivi indicati dalle donne per lavorare a tempo parziale sono la cura dei figli (25,6%) e le altre responsabilità famigliari (21,8%) (5). Tra gli uomini che lavorano a tempo parziale, rispettivamente il 6,1% il 6,3% cita questi stessi motivi. Il ricorso al tempo parziale, motivato diversamente a seconda del genere, è dunque un prodotto dei meccanismi discriminatori che plasmano la posizione rispettiva delle donne e degli uomini nella società, nel mondo del lavoro e nella presa a carico del lavoro gratuito, educativo, domestico, senza il quale la società semplicemente non funzionerebbe. Bisogna tenerne conto quando si parla di disparità salariali secondo il genere.

Un terzo in meno!

Nel 2014, la differenza tra il salario netto medio degli uomini e quello delle donne era del 32,5%, secondo il BASS. Nel 2016, questo valore è salito al 35%. Questa differenza, di un terzo (!), ha un impatto massiccio non solo sui redditi immediatamente disponibili, ma anche sulle pensioni e la qualità di vita delle donne anziane. Ecco la misura delle disparità salariali in Svizzera. Siamo quindi ancora lontani da una soluzione.

*Jean-François Marquis è membro del Sindacato dei servizi pubblici (SSP-VPOD). Questo articolo è stato pubblicato in Services publics, bimensile in francese del SSP. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.

1. BASS (2017: Analyse der Löhne von Frauen und Männer anhand der Lohnstrukturerhebung 2014; https://www.bfs.admin.ch/bfs/fr/home/statistiques/travail-remuneration/salaires-revenus-cout-travail/niveau-salaires-suisse/ecart-salarial.assetdetail.2118701.html.
2. Non ci riferiamo in questo articolo alle teorie neoclassiche, discutibili, relative alla formazione dei salari e alle discriminazioni, che fondano questo modello.
3. Più precisamente il suo logaritmo naturale.
4. Vedi l’intervista di Brynhildur Heiðar- and Ómarsdóttir, direttrice della Women’s Rights association. Services publics N° 6, 5 avril 2019.
5. OFS (2019): Le travail à temps partiel en Suisse 2017.