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di Cristiano Dan

La vittoria del Partido Socialista Obrero Español (PSOE) nelle elezioni di ieri, 28 aprile, è netta e indiscutibile, e il titolo di queste prime e affrettate note non intende affatto metterla in discussione, ma solo ricordare che questa sua – ripetiamolo: netta e indiscutibile affermazione – non deve oscurare il fatto, preoccupante, che la destra che è stata sconfitta è una destra ancora forte di circa il 43 % dei voti, ottenuti (o mantenuti) radicalizzando al massimo le sue posizioni. In altre parole, la Spagna si è radicalizzata, con un grosso spostamento a destra del suo elettorato, che potrà avere pesanti conseguenze nel prossimo futuro.

Le dimensioni della vittoria socialista

Stando ai dati ancora provvisori, ma che non dovrebbero subire significative variazioni, il PSOE ottiene quasi 7.500.000 voti, il 28,7 % [1] e 123 seggi, con guadagni, rispettivamente, di oltre 2.000.000 di voti, del 6,1 % e di 38 seggi. Inoltre, il PSOE si assicura la maggioranza nel Senato. Da dove vengono questi voti? Non disponendo ancora di analisi dei flussi elettorali, e basandoci quindi solo sui saldi netti, si può ipotizzare che in buona parte si tratti di nuovi elettori (giovani al primo voto e astensionisti: la partecipazione al voto è fortemente aumentata, con oltre due milioni di voti validi) e per il resto di “voti utili” sottratti a Unidas Podemos e di elettori moderati in fuga dalla svolta estremista di Ciudadanos e del Partido Popular. Non è qui possibile analizzare nel dettaglio, regione per regione, l’andamento del voto socialista, ma si può segnalare come significativi i casi della Catalogna (dove si assiste alla “rinascita” del Partit dels Socialistes de Catalunya, la branca locale del PSOE) e della Galizia (dove il PSOE supera il PP dopo quasi un quarantennio).

E le dimensioni della sconfitta di Unidas Podemos

A fare le spese della vittoria socialista è soprattutto Unidas Podemos, la coalizione che comprende, oltre Podemos, Izquierda Unida, gli ecologisti di Equo, la formazione della sindaca di Barcellona Ada Colau e alcune altre organizzazioni di impianto regionale. Qui fare un conto esatto delle perdite non è semplice, perché il raffronto con la analoga coalizione del 2016 è complicato dal fatto che da questa si sono staccati dei “pezzi” significativi: un settore di Podemos in Catalogna, che assieme a un settore della Candidatura de Unitat Popular (CUP) ha dato vita a un Front Republicà intransigentemente indipendentista; in Galizia, ANOVA (sinistra nazionalista) è uscita dalla coalizione, non partecipando alle elezioni, mentre un altro settore si è presentato autonomamente (En Marea); nella Comunità valenzana, infine e soprattutto, il blocco della sinistra nazionalista (Compromís) si è presentato in modo autonomo, uscendo dalla coalizione.
Detto questo, Unidas Podemos ottiene oggi poco più di 3.100.000 voti, il 12 % e 35 seggi, mentre la “confluencia” catalana (con la formazione di Ada Colau) ne prende 615.000, il 2,4 % e 7 seggi. Le perdite rispetto al 2016 sono nel complesso di oltre 1.100.000 voti, del 6,1 % (stessa percentuale dei guadagni del PSOE…) e di 28 seggi. Se da queste cifre sottraiamo però i voti andati alle formazioni “scissioniste” (Front Republicà, 113.000; En Marea, 18.000; Compromís 173.000 e 1 seggio) l’entità delle perdite sale a circa 1.400.000, a oltre il 3 % e a 29 seggi. Come si vede, un vero e proprio salasso, anche se inferiore a quello pronosticato dai sondaggi.

I guai della destra

Chi esce pesantemente sconfitto dalle elezioni è il Partido Popular. Con circa 4.360.000 voti, il 16,7 % e 66 seggi, viene praticamente dimezzato: meno circa 3.590.000 voti, meno 16,3 % e meno 71 voti. La svolta a destra impressagli da Casado non è servita a bloccare l’emorragia di voti verso l’estrema destra di Vox, e tantomeno ha potuto frenare la fuga dei suoi elettori “moderati” verso Ciudadanos e anche verso il PSOE. Vox, che nel 2016 era un gruppuscolo con meno di 50.000 voti, ne sottrae oggi al PP circa 2.600.000, toccando il 10,3 % (era al 0,2 %…) e aggiudicandosi 24 seggi nuovi di zecca. Quanto a Ciudadanos, se non si può dire sconfitto, esce comunque pesantemente ridimensionato nelle sue aspettative: con oltre 4.100.000 voti, il 15,9 % e 57 seggi, guadagna sì quasi un milione di voti, il 2,8 % e 25 seggi, ma non riesce affatto a superare il PP e tanto meno il PSOE, come s’era proposto. In complesso, questo blocco di destra (includendovi anche una lista unitaria del PP e di Ciudadanos in Navarra) può contare su quasi 11.300.000 voti, su circa il 43 % e su 149 seggi. Rispetto al 2016 guadagna circa 150.000 voti, che però non compensano l’aumento dei votanti, risolvendosi in una diminuzione del 3 % e nella perdita di 20 deputati.

Una ripresa dei nazionalismi di sinistra

Come reazione alla forsennata campagna della destra, c’era da aspettarsi una ripresa delle formazioni nazionaliste periferiche: catalane, basche e galiziane. Che c’è stata. Qui le cifre possono ingannare: le percentuali sono calcolate sull’insieme dell’elettorato, e pertanto possono apparire basse o addirittura insignificanti. Andrebbero riportate nel loro ambito regionale, cosa che però ora non è possibile fare (lo faremo in una prossima occasione).
Detto questo, cominciamo dalla Catalogna. Qui si registra una forte affermazione della Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), che con oltre un milione di voti, il 3,9 % e 15 seggi progredisce di oltre 380.000 voti, dell’1,3 % e di 6 seggi, mentre Junts per Catalunya, il partito di Puigdemont, con quasi 500.000 voti, l’1,9 % e 7 seggi, guadagna sì 14.000 voti, ma in realtà ristagna, perdendo lo 0,1 % e 1 seggio. Qui si registra una radicale mutamento nei rapporti di forza fra l’ala indipendentista intransigente di Puigdemont e l’ala indipendentista più “possibilista” dell’ERC. I risultati del Front Republicà, cui si è già accennato, non modificano questo quadro.
In Euskadi e in Navarra segnano tutte dei progressi: oltre 100.000 voti in più al nazionalista e democristiano Partido Nacionalista Vasco (6 seggi; uno in più); oltre 74.000 voti in più alla formazione indipendentista radicale di EH Bildu (4 seggi; 2 in più); oltre a un leggero progresso di Geroa Bai in Navarra.
In Galizia, infine, la crisi della coalizione di Podemos e IU si riflette in una significativa crescita del Bloco Nacionalista Galego (circa 99.000 voti, un raddoppio rispetto al 2016, insufficienti però a conquistare un seggio).
Restano da segnalare, per completare il quadro, i progressi della centrista Coalición Canaria-Partido Nacionalista Canario (137.000 voti e 2 seggi: più 59.000 voti e un seggio), il riemergere di una formazione regionalista di centro/centrodestra, il Partido Regionalista de Cantabria (50.000 voti e un seggio) e alcuni flop significativi: dal Partido Animalista contro el Maltrato Animal, che secondo alcune proiezioni avrebbe ottenuto due seggi (guadagna comunque 50.000 voti) ad alcune liste frutto di miniscissioni di Izquierda Unida: il Pact (30.000 voti e 0,1 %) e Izquierda en Positivo, fondata da Paco Frutos, già esponente comunista catalano approdato a posizioni di accanito centralismo nazionalista (neanche 3.500 voti).

Quali conclusioni?

Scopo di questa nota è soprattutto quello di fornire elementi affinché il giudizio sulle elezioni spagnole non avvenga in base ad astratte, per quanto “nobili”, categorie ideologiche, ma si fondi su dati concreti. Arrivare a conclusioni certe è prematuro, ma alcune considerazioni, in via del tutto provvisoria, si possono fare.
Tralasciando per ora la questione di “quale governo”, importante, certo, ma che verrà risolta, se la sarà, solo dopo le elezioni europee di maggio e dopo le contemporanee elezioni regionali che si terranno sempre in Spagna e che ridisegneranno i rapporti di forza locali (confermando le tendenze emerse in queste elezioni, o modificandole), alcuni punti sembrano acquisiti.
Primo, la destra esce sconfitta da queste elezioni, e soprattutto ne esce divisa. Solo Vox può cantare vittoria, mentre il PP precipita a livelli che non conosceva da decenni e Ciudadanos vede frustate tutte le sue ambizioni di sconfiggere Sánchez, di superare il PP e di diventare il principale partito della destra spagnola. La resa dei conti interna a PP e Ciudadanos sarà probabilmente rimandata a dopo le elezioni europee e autonomiche, ma sicuramente vi sarà. Ciò detto, va comunque nuovamente sottolineato il fatto che questo oltre 40 % dei voti della destra nel suo complesso è stato ottenuto su programmi politici oltranzisti, che miravano a rimettere in discussione non solo l’assetto dello Stato (centralizzazione, abolizione delle autonomie regionali, minaccia di riattivare l’articolo 155 della Costituzione nel caso catalano, minaccia di mettere fuorilegge i partiti indipendentisti) ma anche a far regredire ulteriormente i diritti civili (attacchi al diritto d’aborto, al femminismo eccetera). In sostanza, buona parte della società spagnola s’è radicalizzata a destra come mai prima era avvenuto in passato, e “smontare” questo blocco richiederà da parte della sinistra, riformista e no, una buona dose di intelligenza politica.
Secondo, la vittoria del PSOE è sì dovuta in buona parte al richiamo al “voto utile” contro il pericolo della destra e alla crisi che ha contraddistinto Unidas Podemos in questi ultimi anni, ma dipende anche dalla “svoltina a sinistra” (maggiore attenzione ai temi sociali ed economici, con parziali soluzioni) che il governo di minoranza di Sánchez ha effettuato. Quel che più conta, questa vittoria rappresenta oggettivamente una sconfitta per l’ala destra socialista (Felipe González, Susana Díaz e compagnia bella) che puntava tutte le sue carte su una “convergenza al centro” con Ciudadanos. Sulla carta questa possibilità è scarsa, oltre che ad essere stata resa alquanto impraticabile dalla forsennata campagna antisocialista condotta da Albert Rivera, il leader di Ciudadanos. E del resto, le manifestazioni avvenute nella serata di domenica davanti alla sede del PSOE hanno dimostrato con estrema chiarezza quale sia l’umore della base socialista: nessuna concessione a Rivera. Non ci si deve fare eccessive illusioni, ma nel PSOE si sta aprendo una nuova fase che sarebbe sciocco (e suicida) sottovalutare.
Terzo, la sconfitta di Unidas Podemos ha molte cause, cui in parte si è già accennato. Alcune fughe dalla coalizione del 2016 si spiegano con motivazioni non del tutto dipendenti da Unidas Podemos: è il caso della scissione filoindipendentista subita in Catalogna o della rottura della coalizione nella Comunità valenzana, determinata da un orientamento più affine ai socialisti di Compromís. In tutti questi casi le scissioni hanno avuto esiti deludenti, in particolare per Compromís, che vede ridotta la sua rappresentanza parlamentare [2].
La causa principale è però da ricondurre sia alle oscillazioni nella linea politica sia alla gestione verticistica (e decisamente poco democratica) del partito, che ha prodotto una serie di fratture e rotture (caso Errejón, frizioni con la componente di Anticapitalistas, eccetera). Si tratta qui del “modello di partito” che è stato sperimentato, e che si è dimostrato, dopo gli iniziali successi, del tutto inadeguato, incapace non solo di aggregare altre forze, ma anche di conservare quelle già acquisite. Ma il discorso deve fermarsi qui, perché va ben oltre gli scopi di queste note.
Resta da accennare, e accennare soltanto, a qualche considerazione di carattere problematico, di non pacifica accettazione nell’ambito della sinistra.
Sembra alquanto difficile negare il fatto che la vicenda indipendentista catalana abbia avuto un ruolo importante, se non proprio centrale e decisivo, nell’esito di queste elezioni, e soprattutto nella formazione di un blocco di destra/estrema destra, diviso e rissoso al suo interno, ma non per questo meno inquietante.
Se era giusto difendere il principio democratico del “diritto a decidere”, era anche forse necessario attrezzarsi meglio per condurre questa battaglia. L’impressione è invece quella che in non trascurabili settori della sinistra ci si sia fatte delle illusioni sulla dinamica che avrebbero preso gli avvenimenti. Chi puntava sull’ipotesi di una “ruptura” democratica, che avrebbe rimesso in discussione gli assetti politico-istituzionali ereditati dalla Transizione, dovrebbe forse prendere atto che la “ruptura” si è avuta sì, ma in tutt’altra direzione. Si sarebbe dovuto mettere nel conto che lo sviluppo di un sentimento nazionalista come quello catalano, che puntava non a un riassetto federale dello Stato, ma a una secessione, avrebbe inevitabilmente alimentato, in tutto lo Stato spagnolo, lo sviluppo di un nazionalismo spagnolista in forme tanto più aggressive quanto più intransigente si mostrava l’indipendentismo catalano.
Vedere infine nell’ascesa di Vox e nelle svolte a destra di Ciudadanos e del PP un semplice riemergere del franchismo, come a volte capita di leggere, è non solo fuorviante, ma anche stupido. Il franchismo come lo si è conosciuto sopravvive solo come ideale in qualche vecchio rimbambito, ma la destra spagnola che è emersa in queste elezioni, se ha certamente alcuni tratti franchisti, è in realtà più vicina alla destra di Trump, di Orbán, di Kaczyński e – perché no? – del nostro Salvini. È una destra “moderna”, per quanto arcaica appaia in molti suoi tratti, e non può essere esorcizzata, e tanto meno combattuta, con metodi arcaici.

Note
[1] Ci serviamo delle percentuali ufficiali del Ministerio del Interior spagnolo, che però le calcola non sui soli voti validi assegnati ai partiti (come si fa in Italia), ma prendendo in considerazione anche i voti nulli. Ne consegue una leggera sottovalutazione delle percentuali reali.
[2] Resta da vedere come andranno le elezioni autonomiche nella Comunità valenzana, i cui risultati non sono ancora noti mentre scriviamo queste note.