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Lungo la “rotta balcanica” i migranti in transito cercano di raggiungere l’Europa. Ma si trovano di fronte alla brutalità delle forze dell’ordine dei diversi paesi. Cosa sta accadendo tra Croazia, Bosnia, Montenegro, Albania e Serbia?

Sono ormai più di tre anni che l’attenzione mediatica si è spostata dall’area balcanica, facendo così calare un velo di silenzio sulla regione e sulle persone che quotidianamente cercano di attraversare i confini est-europei.

Ma gli spostamenti che avevamo visto durante il 2015 sono tutt’altro che finiti. A oggi, decine di migliaia di persone percorrono quella che è stata definita la “rotta balcanica” – usando come punto di attraversamento le zone di confine tra Serbia e Croazia/Ungheria – o la “nuova” rotta balcanica, che arriva alla frontiera europea attraverso la Bosnia-Erzegovina.

A prova dell’influenza ancora forte del movimento che sta svelando gli scheletri nell’armadio dell’Europa, ci sono i diversi accordi presi dall’UE con paesi terzi, in particolare con Serbia, Albania, Macedonia (2018) e Bosnia (2019) al fine di prevenire tali spostamenti.

In questi accordi la UE stabilisce l’impiego, per la prima volta nella sua storia, di forze di terra dell’agenzia FRONTEX su suolo non europeo, con lo scopo di rafforzare i controlli di confine e di fornire supporto tecnico nel creare un profilo di chi tenta di varcare i confini.

Sebbene questa azione sia stata acclamata dal Commissario europeo per la Migrazione, gli Affari Interni e la Cittadinanza Avramopoulos come un punto di svolta nella gestione delle migrazioni e nella cooperazione internazionale, è chiaro che l’Europa sta cadendo sempre più nella deriva nazionalista manifestatasi a più riprese: dalle ultime elezioni europee alla formazione meno recente del “blocco di Visegrad”.

Si sta tentando dunque di allacciare contatti con paesi non membri al fine di formare un territorio, esterno all’area Schengen, capace di arginare la presunta pressione causata dalla “migrazione illegale”.
Tuttavia ciò che in realtà si sta andando a delineare al di fuori dei territori UE è la creazione di un ambiente ostile, uno spazio reso impervio in tutte le sue caratteristiche così da ricacciare indietro chi tenta di attraversare le frontiere e fiaccarne le energie.

A testimonianza di ciò ci sono le voci e le storie delle persone che hanno percorso la rotta e che si sono scontrate più volte lungo il tragitto con le forze di polizia di frontiera.

Ormai sempre più frequenti sono gli episodi di push back, vale a dire di respingimento di coloro i quali hanno attraversato un confine.

Tali atti sono considerati illegali dalla legge internazionale, poiché non può avvenire un’espulsione senza giusto processo e men che mai se gli interessati hanno dichiarato l’intenzione di chiedere asilo. Eppure avvengono, con il tacito assenso dell’Europa che fa orecchie da mercante o attivamente supporta pratiche illegali e disumane.

Sono anche disumani. Poiché i racconti (Violence Reports NNK , Borderviolence)  di chi ha affrontato la polizia di confine ci parlano di violenze fisiche e psicologiche al pari delle torture di regime. Attraverso le testimonianze raccolte sono venute alla luce una serie di pratiche e vere e proprie tattiche pensate appositamente per lasciare un segno fisico dei confini sui corpi delle persone.

In particolare, due tattiche sono state riportate frequentemente dagli intervistati. Una prima consiste nel trasportare con dei van durante la notte i richiedenti asilo al confine, ad esempio, tra Croazia e Bosnia-Erzegovina. A questo punto, i poliziotti si dispongono in fila ai due lati dell’uscita posteriore del van, muniti di torce frontali e, a volte, di manganelli. Gli ufficiali fanno quindi uscire le persone una alla volta, per pestarle violentemente, insultandole. In tutto ciò, è inquietante venire a sapere che la polizia si munisca di passamontagna e di come i poliziotti ridano alle spalle di chi, una volta pestato, corre verso il confine.

Nella seconda tattica, le persone catturate sono portate al confine, vicino a un fiume. Lì, vengono fatte scendere, picchiate dalla polizia presente sul posto e spinte nel vicino corso d’acqua.

A queste tattiche viste e sentite più e più volte, vanno aggiunti dettagli ricorrenti. Quasi per prassi ormai, la polizia requisisce soldi, cellulari, power banks e sacchi a pelo dei malcapitati. Gli oggetti presi sono poi distrutti o (forse) ridati danneggiati ai proprietari. Inoltre, si è evidenziata la nota sadica dei poliziotti che, in pieno inverno, spogliano le persone che trovano per strada, lasciandole solo con maglietta, pantaloni e calzini, per poi lasciarle tornare indietro nella foresta buia, senza luci o percorsi delineati, forzandoli a camminare a volte anche per chilometri prima di arrivare al primo centro abitato.

Le pratiche sopracitate sono solo alcune delle più ricorrenti, ma si deve tener presente che l’espressione della violenza della polizia non ha limiti e diversi racconti riportano anche minacce armate, lancio di fumogeni all’interno dei van con cui le persone sono trasportate alla frontiera, uso di spray al peperoncino e, in un caso o due, vero e proprio uso delle armi da fuoco.

Come mostrato dai vari report, questi episodi avvengono costantemente ai confini tra Croazia, Bosnia, Montenegro, Albania e Serbia e, sebbene la maggior parte avvenga di notte, vi sono alcuni casi documentati da video (reportage TV Svizzera) e foto (immagini sulle condizioni delle persone che tentano di attraversare la frontiera) di attivisti presenti sul posto o dalle stesse persone che stavano subendo il push back.

Tutto ciò fa parte della creazione di un ambiente ostile, di geografie di violenza e di paura che vanno a imporsi sui corpi e sulle vite delle persone che quotidianamente affrontano i territori di confine europei. Infatti, già discriminati all’entrata nell’area Schengen, il pericolo di essere nuovamente deportati sarà una costante nelle loro vite e ciò causerà un livello di vulnerabilità e di instabilità. Si accetteranno quindi una serie di compromessi al fine di poter restare nel luogo prescelto e ciò potrà condurre all’inclusione in giri di lavoro nero e sottopagato, per non dire servitù. Stiamo assistendo all’implementazione di politiche territoriali di gestione della migrazione che fungono da filtro per gli interessi del mercato del lavoro europeo. Inoltre, ci accorgiamo come i confini siano porosi, ovvero non muri invalicabili, ma attraversabili con compromessi. Essi promuovono la discriminazione sistemica delle persone, al fine di creare una costante riserva di lavoro a basso costo necessario al mercato europeo per il suo tipo di economia.

Questo è ancor più enfatizzato dalle politiche nazionalistiche che dividono le persone fra chi è meritevole di vivere in un determinato posto e chi non lo è, creando così una gerarchia del merito. In tal modo, i corpi delle persone vengono ridefiniti secondo standard imposti dal nazionalismo, il quale, paradossalmente, pretende di essere un mezzo attraverso cui valorizzare i cittadini di una determinata nazione. Invece, quest’ideologia non fa altro che legittimare la costante crisi del sistema lavorativo, in quanto discrimina tra i lavoratori e fa il gioco di mercati internazionali votati a un profitto sempre maggiore e a un costo del lavoro sempre minore. Si delinea così un’opposizione fittizia tra coloro i quali sono arrivati di recente in una nazione e i lavoratori “nostrani”, volta a diminuire ancor più le possibilità di avere un’occupazione dignitosa.

Così facendo, questo divario va a sostenere pratiche illegali quali, tra le altre, il caporalato nel sud, centro e nord Italia, che si basa proprio sul grado di sfruttabilità di una persona per trarne il maggior profitto possibile, fiaccando le energie dei braccianti.

In conclusione, si sta sempre più convergendo su pratiche di annullamento della volontà e dell’identità delle persone stesse, privandole della propria voce, e quindi della propria storia, fino a essere considerati meri corpi senza volto, meritevoli di essere ricacciati indietro.

Si vuole rendere invisibile chi ha alzato la propria voce e ha parlato, attraverso i propri spostamenti e le esperienze, di ingiustizia sociale, di ineguaglianza e di relazioni di potere che hanno caratterizzato le loro vite.

Si sta tentando di sradicare la storia di una parte della popolazione mondiale soltanto perché, tramite la sua azione di ribellione (lo spostarsi) ha messo e continua a mettere in crisi un sistema basato sulla discriminazione come mezzo principale per dividere e creare diverse umanità, ognuna con il proprio valore e il proprio livello di sfruttabilità.

Il tutto per servire ideologie politiche escludenti, figlie di mercati globalizzati che pressano costantemente i mercati interni delle varie nazioni con il loro ambiente di competizione, così da forzare ad abbassare sempre più i prezzi, incentivando a loro volta lo sfruttamento di una manodopera sempre più marginalizzata, fino a essere schiavizzata in quei paesi che si sono autoproclamati alfieri della democrazia.