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Da ormai tre mesi Hong Kong è in stato di insurrezione permanente. Manifestazioni pacifiche e altre più aggressive hanno coinvolto centinaia di migliaia, e in alcuni casi più di un milione, di giovani e lavoratori, sia donne che uomini. Nonostante il limite della mancanza di strutture organizzate, si tratta di un’importante nuova esperienza di lotta di massa per la democrazia. Il sempre maggiore irrigidimento reazionario del regime di Xi Jinping offre tuttavia agli hongkonghesi la sola prospettiva di un vicolo cieco.

Un po’ di storia: dalla colonizzazione inglese all’inizio delle proteste di quest’anno

Nel 1842, dopo avere perso le due Guerre dell’oppio, la Cina è costretta a cedere agli imperialisti britannici l’isola di Hong Kong e l’area di Kowloon, alle quali nel 1898 andranno aggiungersi i cosiddetti Nuovi territori, che nel loro insieme vanno a costituire la colonia di Hong Kong. A quell’epoca Hong Kong è solo un villaggio di pescatori di meno di 8.000 abitanti: la città, pertanto, è nei fatti nata come centro coloniale e la sua storia è rimasta tale fino alla fine del XX secolo. Il dominio coloniale e razzista britannico incontra una forte opposizione della popolazione cinese locale, che culmina nelle grandi lotte economiche e politiche degli anni 1920. Dopo la Seconda guerra mondiale il regime coloniale smorza progressivamente alcuni dei suoi aspetti più oppressivi e contemporaneamente Hong Kong registra un’altissima crescita dell’economia, trainata prima dal settore industriale e poi, nel corso dei decenni, da quello finanziario. Nel periodo immediatamente successivo al 1949, anno in cui il Partito Comunista conquista il potere a Pechino, a Hong Kong affluiscono grandi masse di persone che fuggono dalla Cina continentale e ondate analoghe si ripetono nel tempo, in particolare nel 1966 quando la Repubblica Popolare Cinese è sconvolta dalla Rivoluzione Culturale. Nel 1984 la premier neoliberale britannica Margaret Thatcher e il padre del neocapitalismo cinese Deng Xiaoping firmano un accordo per il passaggio di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina a partire dal 1997, senza consultare in alcun modo la popolazione locale riguardo alle modalità di questo passaggio. L’accordo prevede il mantenimento fino al 2047 di un’ampia autonomia che esclude essenzialmente solo aspetti come la politica estera e la difesa. Nei fatti si tratta per Hong Kong del passaggio da un regime coloniale autoritario, per quanto tollerante in termini di libertà individuali negli ultimi decenni della sua storia, a uno altrettanto autoritario, ma sotto la supervisione del ben poco tollerante regime di Pechino.

L’ex colonia è diventata così una Regione Amministrativa Speciale (SAR) della Cina Popolare regolata da un sistema molto complesso. Nella sostanza, il Chief Executive (cioè il “presidente” di Hong Kong) viene eletto da un collegio di 1.200 saggi controllato da Pechino, che comunque ha anche un potere di veto sulla nomina dei candidati. Il Legislative Council (LegCo, in pratica il parlamento di Hong Kong) viene eletto per metà in elezioni circondariali libere e per metà in base a un sistema di rappresentanti corporativi del settore del business e delle professioni, anch’essi ampiamente controllati da Pechino. A queste regole antidemocratiche si aggiungono, in caso di necessità, veri e propri soprusi ad hoc, come è avvenuto nel 2017, quando ad alcuni oppositori è stato impedito di candidarsi e svariati parlamentari che erano stati eletti nelle liste delle forze indipendentiste e dell’opposizione di centrosinistra sono stati privati d’autorità del loro mandato con pretesti formali. I diritti dei lavoratori sono ridotti al minimo: a differenza che nella Cina continentale vi è la libertà di organizzarsi in sindacato, ma il diritto formale di sciopero è nei fatti inficiato dalla libertà per i padroni di licenziare seduta stante chiunque scioperi. Il diritto alla contrattazione collettiva, di cui gli hongkonghesi hanno goduto per breve tempo, è stato abolito con il sostegno attivo dei sindacati filo-Pechino, che oggi naturalmente sono schierati contro le proteste. Il sistema giudiziario mantiene una buona misura di autonomia da quello politico e vengono rispettati (almeno finora) alcuni diritti fondamentali come la libertà di espressione e quella di manifestare, tutte differenze di rilievo rispetto alla Cina continentale. A livello economico, vi è una stretta alleanza tra i capitalisti di Hong Kong, suddivisi in grandi clan familiari, e quelli di Pechino. Un esempio di questa alleanza lo si trova nella Conferenza politica consultiva del popolo cinese (CPCPC), un organo statale della Repubblica Popolare Cinese che si riunisce una volta all’anno parallelamente al Congresso del Popolo (il parlamento) e, come scrive Wikipedia, ha funzioni paragonabili a quelle di un Senato. Pechino coinvolge le élite capitaliste di Hong Kong nella gestione del potere nazionale chiamando numerosi loro esponenti a fare parte della CPCPC, con mandati che spesso sono ereditari. I più importanti rappresentanti di Hong Kong nella CPCPC sono tutti megacapitalisti: il più ricco di loro ha un patrimonio di 31,7 miliardi di dollari, il decimo in classifica ha una ricchezza di “appena” 1,27 miliardi di dollari. D’altronde nel Congresso del Popolo cinese siedono 93 miliardari (in dollari), con un patrimonio complessivo di 504 miliardi di dollari. Per un confronto, il patrimonio complessivo dei primi 50 deputati più ricchi del Congresso Usa è di 2 miliardi di dollari.

Miliardari Hk membri CC PCC

Se per i capitalisti di Hong Kong la Cina continentale è terreno di conquista imprenditoriale e allo stesso tempo fonte di finanziamenti, in particolare nell’ambito della speculazione edilizia, per quelli della Cina continentale Hong Kong, uno dei maggiori centri finanziari del mondo, è un fondamentale snodo di collegamento con il capitale globale (in termini sia di passaggio di investimenti dall’estero, sia di quotazioni in borsa, sia di emissioni di obbligazioni in dollari Usa da parte delle aziende cinesi, nonché come canale di riciclaggio dei miliardi dei buro-capitalisti del Partito Comunista), grazie anche alle tutele legali che offre a differenza di Shanghai e Pechino, ancora ben lontane da assumerne la rilevanza. Oggi la regione ha poco più di 7 milioni di abitanti, di cui 1 milione sono persone trasferitesi dalla Cina continentale negli anni più recenti, per la maggior parte nuovi ricchi che hanno scelto l’ex colonia come residenza per godere del sistema economico-legale descritto sopra e per ottenerne il passaporto che consente di viaggiare senza visto in quasi 120 paesi. Hong Kong ha uno dei Pil pro capite più alti del mondo ma è anche una delle aree del mondo a più alta diseguaglianza sociale, sorpassata solo da una manciata di paesi africani. Il 20% degli abitanti vive sotto la soglia di povertà e il reddito del primo decile della popolazione è pari a 44 volte quello dell’ultimo decile. Il caro casa è diventato ormai un problema drammatico non solo per chi ha un reddito basso, ma anche per il ceto medio: l’ex colonia britannica è infatti ai vertici mondiali per il costo degli alloggi. L’economia, fatta eccezione per la crisi asiatica del 1997 e quella mondiale del 2008, ha registrato negli ultimi decenni un tasso di crescita molto alto, inferiore solo di pochi punti rispetto a quello della Cina continentale. Negli ultimissimi anni però l’aumento del Pil si è ridotto al lumicino e tra il 2018 e il 2019 è sceso sotto zero. Tra le varie categorie colpite vi è in particolare quella dei giovani, che hanno perso le precedenti prospettive di ascesa sociale. Nonostante l’impegno a rispettare l’autonomia di Hong Kong, Pechino negli anni ha puntato costantemente a diminuirla e la posizione dei burocrati del continente è esemplificata dalle parole dello stesso Xi Jinping, che nel 2017 ha dichiarato che l’accordo “non è più pertinente”, non ha “più alcun significato concreto” e nemmeno “alcun valore vincolante”. Il Partito Comunista cinese esercita il proprio controllo sul Chief Executive e il parlamento dell’ex colonia attraverso il potente Ufficio di Collegamento con la Regione di Hong Kong, un organo del governo centrale.

Le mire egemoniche sempre più soffocanti di Pechino, e il conseguente timore di perdere ogni autonomia, hanno spinto a più riprese gli abitanti della regione a mobilitarsi in massa. Nel 2003 centinaia di migliaia di persone sono scese in strada contro un progetto liberticida di legge sulla sicurezza, riuscendo a impedirne il varo. Tra il 2009 e il 2010 migliaia di persone si sono mobilitate contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Canton-Hong Kong, poi comunque realizzata. Dall’ottobre del 2011 fino al 2012 vi è stato il movimento Occupy Central, che ha occupato una zona centrale della città per protestare contro le ineguaglianze sociali ed economiche. Nell’autunno del 2014 il cosiddetto Movimento degli Ombrelli ha occupato il centro della città per oltre due mesi e mezzo chiedendo libere elezioni e protestando contro il varo della norma che prevedeva il vaglio preventivo da parte di Pechino dei candidati a Chief Executive – nonostante la durata e le decine di migliaia di partecipanti il movimento ha alla fine registrato una totale sconfitta. Nel 2016 c’è stata una rivolta di due giorni dei venditori ambulanti del quartiere di Mong Kok, sostenuti da giovani militanti indipendentisti. Le mobilitazioni attualmente in corso superano di gran lunga tutte quelle dell’ultimo cinquantennio in termini sia di partecipazione che di radicalità. Un fattore importante che ha inciso sulle loro modalità è l’eredità del Movimento degli Ombrelli, che Au Loong Yu descrive con parole precise: “[nel 2014] l’entrata in scena di un numero enorme di partecipanti ai ‘nuovi movimenti’ sociali ha superato le capacità organizzative dei partiti politici e delle reti tradizionali. Agli occhi di molti nuovi e giovani partecipanti alle proteste le organizzazioni tradizionali e i loro leader mancavano di legittimità. Molti di loro hanno così aderito a quello che chiameremo il “localismo” e/o si sono opposti all’idea che un’azione collettiva debba essere guidata o coordinata da organizzazioni. L’ascesa del localismo e la sfiducia nei confronti delle organizzazioni sono, a mia opinione, le principali conseguenze negative del Movimento degli Ombrelli. Ma l’esperienza di scontro in piazza con la polizia vissuta nel 2014 ha chiaramente dato energia a molti attivisti e sempre più persone sono diventate ricettive alle azioni radicali nelle strade. Subito dopo la fine del Movimento tra i giovani vi è stata un’ondata di demoralizzazione [per la sconfitta. Inoltre] il governo ha cominciato a vendicarsi mettendo molti attivisti in prigione, e ciò ha ulteriormente esacerbato la demoralizzazione. […] La generazione degli Ombrelli ha costituito una rottura con la generazione precedente in termini di identità culturale: le nuove leve tendono molto di più a identificarsi come hongkonghesi piuttosto che come cinesi e inoltre vi è un rapporto emozionale con Hong Kong che alla generazione precedente mancava. Gli eventi di quest’anno hanno ulteriormente radicalizzato una generazione ancora più giovane. Mi ricordo che negli ultimi giorni del Movimento degli Ombrelli era stato esposto un enorme striscione con la scritta ‘Torneremo’. Ebbene, la profezia si è realizzata”.

Come sono iniziate e si sono evolute le mobilitazioni in corso

Il 12 febbraio Carrie Lam, la Chief Executive in carica dal 2017, ha presentato una bozza di legge sull’estradizione che prevede la possibilità di estradare in una serie di paesi, tra i quali la Cina Popolare, sia i cittadini di Hong Kong sia gli stranieri residenti o di passaggio nella città. La proposta ha subito suscitato ampie critiche, provenienti anche dal mondo del business, sempre timoroso per ovvi motivi di entrare nel mirino delle autorità giudiziarie di altri paesi. Lam ha quindi introdotto a marzo modifiche che tutelano in particolare gli uomini d’affari e ha presentato la legge in parlamento ad aprile con l’intenzione di farla passare prima della fine della sua sessione a metà luglio. La proposta ha però nel frattempo suscitato l’opposizione di altri settori, perché avrebbe dato mano libera a Pechino nel fare arrestare soggetti per lei politicamente scomodi. Ricordiamo che a Hong Kong hanno sede case editrici, media e accademici che pubblicano materiali critici nei confronti di Pechino, e che la città ospita decine di associazioni e ong, nonché migliaia di singoli attivisti, impegnati in particolare nel campo della solidarietà ai lavoratori della Cina continentale. I timori degli hongkonghesi sono inoltre rafforzati da episodi come quello del rapimento nel 2015-2016 da parte di Pechino di cinque librai di Hong Kong, rei di avere distribuito libri che denunciavano l’oligarchia del Pcc, portati illegalmente nella Cina continentale e lì costretti a rilasciare delle dichiarazioni di pentimento. Non vi è quindi da meravigliarsi che già a fine aprile decine di migliaia di persone siano scese in piazza contro la proposta di legge. Un altro segno di insoddisfazione è stata la partecipazione inusualmente alta, il 4 giugno, alla manifestazione per l’anniversario del massacro di Tiananmen del 1989: 150.000 persone.

Con l’avvicinarsi del termine per l’approvazione della legge, le mobilitazioni crescono e il 9 giugno si tiene un’enorme e pacifica manifestazione di centinaia di migliaia di persone, forse più di un milione, che hanno circondato il complesso del parlamento – è l’inizio del movimento in corso. Carrie Lam, con il sostegno esplicito di Pechino, ha scelto la linea dura, affermando che non avrebbe mai ritirato la proposta di legge. Il 12 giugno migliaia di giovani circondano il parlamento e si scontrano con la polizia, impedendo ai deputati di riunirsi per approvare la legge. Il 15 giugno Carrie Lam sospende (ma non ritira) la bozza di legge e si scusa di fronte al pubblico, con la speranza di fare rientrare le proteste. Ma il 16 giugno la mobilitazione è di proporzioni gigantesche, secondo gli organizzatori più di 2 milioni di persone, comunque di gran lunga la manifestazione più partecipata della storia di Hong Kong: alla richiesta di ritirare definitivamente la legge si aggiungono ora quelle di condurre indagini indipendenti sulle violenze della polizia, di rilasciare gli arrestati, e di dimissioni di Carrie Lam. Successivamente, in seguito alle repressioni, si aggiungerà anche quella di libere elezioni. L’1 luglio un’avanguardia di alcune centinaia di manifestanti, dopo un assedio di decine di migliaia di persone durato l’intera giornata, entrano per alcune ore nel parlamento dal quale la polizia si è ritirata. Nel corso dello stesso mese la radicalità delle proteste cresce e si delinea un modello che si ripeterà poi costantemente: di giorno manifestazioni pacifiche, dopo il tramonto scontri con la polizia. Quest’ultima aumenta il livello di violenza dei suoi interventi, provocando sempre più indignazione tra la popolazione generale – fallisce così miseramente in questa fase il tentativo delle autorità, amplificato dai media filo-Pechino, di dividere i settori “non violenti” da quelli “violenti” e il movimento rimane unito, ma non emerge alcun leader o forma di organizzazione che lo rappresenti.

A fine luglio la situazione si complica e radicalizza ulteriormente su entrambi i fronti. Pechino, i cui media avevano mantenuto nella Cina continentale un silenzio totale su quanto avveniva a Hong Kong, lancia una martellante campagna mediatica dai toni sciovinistico-patriottici contro le proteste e al contempo i cortei nell’ex colonia cominciano a essere regolarmente infiltrati da agenti provocatori, più volte smascherati. Bande di mafiosi armati di stanghe, che poi si esibiscono anche in una stretta di mano a un noto deputato filo-Pechino, picchiano brutalmente decine di manifestanti pacifici: è una tattica usata regolarmente dal regime di Pechino anche “a casa sua”, il più delle volte per intimorire i lavoratori in sciopero. Il movimento adotta invece la tattica di organizzare manifestazioni contemporanee più limitate ma in svariati punti della città, per disorientare la polizia. Il 5 agosto si svolge uno sciopero generale al quale prendono parte centinaia di migliaia di lavoratori, il primo grande sciopero a Hong Kong nel dopoguerra. A metà agosto i voli all’aeroporto di Hong Kong, uno dei più importanti hub del mondo, vengono bloccati per due giorni da un’occupazione. I più importanti capitalisti di Hong Kong, a giugno ancora su posizioni “agnostiche” per i motivi citati sopra, spaventati dal caos della situazione confermano definitivamente la loro fedeltà a Pechino con comunicati, inserzioni su giornali e partecipando a una riunione politica con rappresentanti del regime della Cina continentale che si svolge a Shenzhen. La Cathay Airlines, di proprietà di uno dei più grandi gruppi aziendali privati di Hong Kong, licenzia la capa del sindacato del personale di volo che aveva aderito allo sciopero generale e apre procedure contro molti altri dipendenti. Ma il 18 agosto, nonostante l’aumento delle repressioni e il divieto di organizzare cortei, una folla enorme, di nuovo sul milione, protesta pacificamente. Le altre proteste minori di questo periodo raccolgono comunque regolarmente decine di migliaia di partecipanti.

Pechino intanto ammassa decine di migliaia di uomini dei reparti antisommossa e paramilitari al confine con Hong Kong, pubblicizzando le loro esercitazioni e dichiarandosi sempre più di frequente pronta all’intervento. A fine agosto, a tutto questo si aggiungono gli arresti di importanti attivisti e deputati dell’opposizione, mentre altri vengono picchiati dai soliti gangster “anonimi”. Inoltre negli stessi giorni le autorità vietano per la prima volta non solo i cortei, ma ogni forma di assembramento. Nonostante il divieto, e le minacce di pesanti conseguenze da parte dei dirigenti scolastici e universitari, il 2 settembre decine di migliaia di universitari e liceali entrati in sciopero all’inizio dell’anno accademico scendono in strada per protestare. Carrie Lam, il suo ufficio e le altre autorità politiche sono di fatto scomparsi dalla scena per quasi tre mesi, lasciando la gestione della situazione alla sola polizia, forte di 30.000 uomini, sullo sfondo delle dichiarazioni sempre più incattivite dei vertici politici di Pechino, che minacciano un intervento diretto. Secondo gli osservatori, sulle tempistiche che la Cina continentale adotterà riguardo alla crisi di Hong Kong influiranno molto due imminenti appuntamenti: la prima settimana di ottobre, durante la quale Pechino celebrerà in grade pompa i 70 anni della Repubblica Popolare Cinese, e la seconda metà del mese, durante la quale si terrà una delicata riunione del Plenum del Comitato Centrale del PCC, rimandata da un anno senza spiegazioni.

Chi sono i manifestanti

Il movimento è completamente decentralizzato, privo di leader o portaparola, è organizzato principalmente su Internet e, a differenza dal Movimento degli Ombrelli del 2014, non ha nemmeno un nome. Formalmente le manifestazioni, almeno quelle più grandi e pacifiche, sono indette dal Fronte Civile per i Diritti Umani (CHRF), un cartello composto da una cinquantina tra associazioni varie, sindacati e partiti dell’opposizione. Questi ultimi però vi hanno una partecipazione minoritaria e in generale il CHRF, screditato agli occhi della piazza anche dalle posizioni moderate e disfattiste assunte negli anni passati, non ha alcuna presa sui manifestanti, svolge unicamente la funzione di soggetto che presenta alle autorità le richieste formali di autorizzare le manifestazioni. Vista la sua debolezza, non è in grado di dettare non solo una linea politica, ma nemmeno i percorsi dei cortei o gli slogan scanditi. D’altronde va tenuto conto che le forze di opposizione a Hong Kong hanno numeri di iscritti minuscoli, che vanno da un massimo di circa 700 per il Partito Democratico di centro-sinistra alle poche decine degli indipendentisti di destra o dei gruppetti di sinistra. La partecipazione giovanile alle manifestazioni è la più visibile, anche perché è la più esposta nel corso degli scontri, ma è alta la partecipazione anche di persone di mezza età o addirittura anziane. Come ha rilevato un’interessante indagine condotta sul campo nel mese di luglio (https://sites.google.com/view/antielabsurvey-eng), se di giorno durante le manifestazioni pacifiche gli studenti che si autodefiniscono “ceto medio” sono in maggioranza, la sera, quando si verificano di solito gli scontri, la metà dei partecipanti sono proletari.

Le cronache giornalistiche pongono regolarmente in evidenza i giovani studenti, ma va ricordato che in questi mesi a Hong Kong in realtà si sono mobilitati in massa, a volte con propri cortei e in aggiunta allo sciopero generale del 5 agosto, anche gli insegnanti, i dipendenti pubblici, i lavoratori dei settori aeroportuale e sanità (questi ultimi particolarmente attivi nel prestare assistenza come volontari ai manifestanti durante i cortei), gli avvocati, le madri, gli anziani. Ma ci sono anche scolari delle medie inferiori: l’arrestato più giovane ha solo 12 anni. Una testimonianza del sostegno di cui il movimento gode anche tra chi non vi partecipa direttamente è data dai ripetuti casi in cui gli abitanti dei quartieri in cui si sono verificati scontri sono scesi in strada infuriati non con i dimostranti, ma con i poliziotti e i loro lacrimogeni, urlando a questi ultimi di andarsene. Merita una particolare menzione la manifestazione a fine agosto di almeno 20.000 donne all’insegna dello slogan #ProtestToo, ispirato direttamente a quello femminista #MeToo, una prima assoluta in una città in cui il movimento delle donne era finora rimasto a numeri estremamente contenuti. Sono inoltre molte le donne in prima fila anche durante gli scontri, in ruoli che finora perfino i movimenti più progressisti assegnavano ai maschi. Questo maggiore ruolo delle donne sarà testimoniato dal nuovo simbolo del movimento, che gruppi di attivisti stanno realizzando grazie a una colletta: la statua della manifestante (femmina) con l’elmetto, una differenza notevole rispetto al manifestante (maschio) con l’ombrello del movimento del 2014. Lo slogan più ripetuto è “Liberare Hong Kong: la rivoluzione del nostro tempo” (questo slogan ha colpito in modo particolare un militante locale di sinistra di lunga data, abituato fino a oggi, in anni di riformismo imperante, a un ambiente in cui la parola “rivoluzione” era anatema), seguito da “Add oil!” (traducibile più o meno come “Dacci sotto!”) quando bisogna passare all’attacco e, nelle ultime settimane, da “Stop al terrore bianco” e “Cinazi”.

Questa mobilitazione di popolo rimarrà nella storia come un esempio a cui ispirarsi in molti suoi aspetti. Innanzitutto, ed è una lezione che per esempio in Europa bisogna ancora apprendere, il movimento è stato granitico nel non cedere alla massiccia campagna dei media e dei politici affinché “isolasse i violenti”, mirata a spaccare artificiosamente il fronte di chi si mobilita. Quando la prima grande campagna di questo tipo è stata avviata a fine giugno, la posizione dell’ala moderata è stata limpida: noi siamo per i metodi pacifici, ma se altri vogliono usare metodi diversi non li critichiamo, perché il nostro obiettivo è il medesimo. Tra le altre grandi capacità del movimento vi è la perfetta organizzazione della logistica e dei rifornimenti (ivi compreso dei rifornimenti di “armi improprie”); l’efficacia dell’assistenza ai feriti e a chi si sente male, grazie anche all’ampia partecipazione di lavoratori della sanità; le folcloristiche ma efficienti squadre di pronto intervento per lo spegnimento dei lacrimogeni; l’uso di maschere antigas contro questi ultimi e quello di pellicole sulla pelle/di ombrelli per proteggersi dallo spray al peperoncino; la linea di fronte che protegge dalle cariche e dagli arresti della polizia chi sta tornando a casa alla chiusura delle manifestazioni; la capacità di diversificare ogni volta gli obiettivi (per es. parlamento, mall, stazione di polizia, aeroporto, stazione della metropolitana, ufficio di rappresentanza di Pechino ecc.) e le modalità di lotta (per es. cortei di centinaia di migliaia di persone, flash mob, cortei contemporanei di migliaia di persone in svariati punti della città, blocchi stradali con barricate ecc.) per mettere in difficoltà la polizia; la capacità di coordinarsi con efficacia in tempo reale attraverso canali internet criptati e linguaggio delle mani in codice ecc. ecc. L’unico macroscopico limite è costituito dall’incapacità di creare strutture organizzative stabili e democratiche in grado di dare una maggiore prospettiva politica, ma ciò è dovuto anche dall’obiettiva mancanza di prospettive di successo per il movimento, di cui parleremo più sotto.

Prima di chiudere questa sezione, due parole sui settori filo-Pechino, che sono ampi e godono del sostegno, oltre che del potente governo centrale e delle sue strutture, della grancassa dei grandi media e dei miliardi dei capitalisti alleati con il Partito Comunista Cinese. Gli abitanti di Hong Kong nati nella Cina continentale sono molti e secondo indagini di opinione svolte a giugno, se poco meno del 55% degli hongkonghesi sono del tutti insoddisfatti dell’operato di Pechino, ci sono due settori rispettivamente del 20% ciascuno circa che lo approvano per intero o sono solo parzialmente insoddisfatti. È in gioco anche un diffuso e comprensibile timore per il caos, specie tra la popolazione più anziana, e molti vedono in Pechino l’unico soggetto in grado di ristabilire l’ordine. In questi tre mesi si sono tenute solo tre manifestazioni organizzate da potenti soggetti filo-Pechino, che nei primi due casi hanno raccolto intorno al centinaio di migliaia di persone, una cifra alta ma molto limitata rispetto alle dimensioni complessive delle manifestazioni contro la proposta di legge, soprattutto se si tiene conto degli enormi mezzi di cui dispone il settore filo-Pechino. L’ultima, ad agosto, è stata invece un flop. Il particolare più odioso di queste manifestazioni è che vengono indette a sostegno esplicito non delle autorità, locali o centrali, bensì della polizia che picchia i dimostranti.

Il contesto internazionale, la Cina

Europa e Usa

Secondo la versione ufficiale di Pechino quanto sta accadendo a Hong Kong è tutta opera di infiltrati occidentali. Nulla di più grottesco: chi mai riuscirebbe a mobilitare permanentemente con il telecomando centinaia di migliaia, e addirittura milioni, di persone dei settori più diversi per ben tre mesi? In realtà, nelle cancellerie occidentali la disattenzione e la moderazione riguardo a Hong Kong sono state generalizzate. Brilla per la sua assenza l’Ue, che ha emesso solo un fumoso richiamo alla moderazione ben due mesi e mezzo dopo l’inizio delle mobilitazioni, mentre il Regno Unito, l’ex colonizzatore di Hong Kong, si è limitato a chiedere di tanto in tanto a Pechino di non usare la mano dura, sempre con toni generici. A inizio settembre Angela Merkel, in visita a Pechino, ha rifiutato l’incontro propostole da Joshua Wong, uno dei leader dell’opposizione di Hong Kong, e ha emesso un comunicato in cui dà supporto alla legislazione antidemocratica vigente nell’ex-colonia. Gli Usa hanno preso posizione a più riprese, ma nel senso contrario di quanto sostiene Pechino. A fine giugno Donald Trump si è platealmente astenuto dal menzionare Hong Kong, come alcuni liberal hongkonghesi gli avevano invece richiesto, nel corso di un importante incontro con Xi Jinping. A luglio avanzato Trump ha definito quella in atto a Hong Kong come una “rivolta” e si è complimentato con Xi per come la stava gestendo (cioè a manganellate…). Si noti che la sua definizione delle manifestazioni come una rivolta è uno schiaffo al movimento, che chiede al Chief Executive di ritirare l’etichettatura delle mobilitazioni come “rivolta” (“riot”) formulata a giugno perché permette di condannare ogni manifestante a pene molto più dure di quelle usuali. Negli stessi giorni il Dipartimento di Stato Usa impediva a un suo diplomatico uscente di pronunciare a Hong Kong un discorso di addio perché, a quanto pare, era moderatamente critico nei confronti di Pechino. Solo verso metà agosto Trump ha accennato per la prima volta a un nesso tra guerra dei dazi e Hong Kong, lasciando intendere che se Pechino avesse applicato la moderazione nella regione autonoma ci sarebbero potute essere aperture riguardo ai dazi e affermando di volerne discutere in un apposito colloquio con Xi Jinping, proposta ovviamente rimandata al mittente. Ma probabilmente è stata solo un’uscita estemporanea, perché nelle ultime settimane il silenzio di Washington su Hong Kong è stato totale.

Cina

La Cina, che tiene le fila del potere di Hong Kong e dalla quale Carrie Lam dipende in ultimo, ha commesso una serie di mosse apparentemente controproducenti. Innanzitutto, sembra avere sottovalutato grossolanamente l’insoddisfazione e i sentimenti democratici diffusi a Hong Kong presentando la proposta di legge. Poi ha scelto una linea inamovibile nel portarla avanti in tutta fretta, cedendo alla fine in parte a giugno con la sospensione della bozza, ma negandone il ritiro e rifiutando l’apertura di un’inchiesta anche solo formalmente indipendente sulle violenze della polizia. Forse adottando una posizione più conciliante in quella fase avrebbe potuto evitare l’esplodere del movimento. Ma se i vertici di Pechino hanno fatto le scelte che hanno portato allo scontro è anche perché in ultimo hanno gravi motivi per volere mantenere a ogni costo la linea dura. Tra di essi vi è di sicuro la guerra dei dazi in corso con gli Usa, che rischia di apportare un colpo micidiale al sistema della Cina e di sovvertire la precedente pacifica divisione dei compiti tra economia americana ed economia cinese, che fino a ieri è stata il pilastro del capitalismo globale. Una guerra scatenata l’anno scorso da Trump che mette in forti difficoltà tutto il sistema economico cinese e che Pechino non avrebbe mai voluto, essendo il suo unico obiettivo quello di affermarsi sempre più come potenza all’interno del medesimo sistema capitalista. Ma la storia dei problemi critici della Cina risale a molto prima, in particolare alla crisi del 2008, con l’avvio di un indebitamento da capogiro accumulato per fare fronte a una macchina economica che perde sempre più colpi, a tal punto che da anni ormai Pechino è costretta a falsificare i dati sulla crescita dell’economia.

La stabilità interna della Cina continentale è oggi sempre più minacciata da una quantità impressionante di problemi di ogni tipo che vanno dall’accumulazione inarrestabile di debito a ogni livello, alla forte frenata dell’economia, alle sempre minori prospettive di ascesa sociale per lavoratori e giovani, al grande eccesso di capacità produttive, al drastico calo delle riserve in valuta indispensabili per fare fronte a una crisi, alla svalutazione della propria moneta e molti altri fattori ancora. Tutto questo comporta un calo di prestigio, comunque già basso, dell’immagine che Pechino ha nella sua periferia e all’estero (e di sicuro anche per quanto riguarda i propri lavoratori). I vertici del Pcc, sotto la guida di Xi Jinping, che si è fatto autodecretare presidente rieleggibile a vita, stanno scegliendo sempre più la linea repressiva e reazionaria. In particolare, hanno scatenato una vera e propria guerra contro i lavoratori, gli attivisti sindacali, gli studenti e le femministe che li sostengono. Una linea già avviata nel 2015-2016 con la grande ondata di arresti contro le associazioni impegnate nel difendere i diritti dei lavoratori (non a caso in coincidenza con un momento di acuta crisi finanziaria per il capitalismo cinese) e intensificatisi in modo impressionante nel 2018-2019 con le centinaia di arresti e sparizioni di lavoratori, attivisti sindacali e impegnati nella solidarietà ai lavoratori, gruppi marxisti critici, femministe e studenti (si veda questo nostro articolo dell’ottobre 2018 sulla prima fase di tali repressioni, che prevediamo di aggiornare). A questa stretta politica interna, si aggiunge un’ideologia ispirata a un neoconfucianesimo ultraconservatore e, da tempo, lo sciovinismo nazionalista che prende di mira in particolare Taiwan, minacciata esplicitamente di invasione militare. In questo contesto critico, Pechino non può assolutamente permettersi di mostrarsi debole a Hong Kong e deve evitare ogni effetto di contagio democratico proveniente dalla regione autonoma.

Quali prospettive?

Di norma, nelle mobilitazioni di massa del tipo di quelle alle quali abbiamo assistito ormai innumerevoli volte dal 2011, la via di uscita viene trovata sacrificando il tiranno di turno e indicendo nuove elezioni, in modo tale da spegnere ogni potenziale rivoluzionario e indirizzare la situazione verso esiti più gestibili per i cosiddetti poteri forti (ne sono esempi, tra i tanti, casi come quello della caduta di Viktor Yanukovich in Ucraina nel 2014 o della rimozione di Park Gyeun-he in Corea del Sud nel 2017). Nel caso di Hong Kong questa via non è praticabile perché, come descritto sopra, le elezioni del Chief Executive sono controllate dall’alto da Pechino e una delle richieste principali dei manifestanti è proprio la possibilità di un libero voto diretto, alla quale i vertici del Partito Comunista si oppongono categoricamente. Eventuali dimissioni di Carrie Lam, il cui mandato scade tra ben tre anni, richiederebbero nuove elezioni e quindi non farebbero altro che aprire la strada a un’ulteriore radicalizzazione del movimento. Ai burocrati di Pechino non rimangono quindi che altre due vie. La prima è quella di soffocare le mobilitazioni con la violenza, vale a dire mandando il proprio esercito oppure, come alternativa più soft in termini di immagine, inviando contingenti dei propri reparti antisommossa coadiuvati da paramilitari. Di sicuro Pechino ha già piani dettagliati nel cassetto per una tale opzione. La seconda è quella di temporeggiare ancora un po’ per dividere il movimento e farlo estinguere. E’ una tattica già in atto nelle ultime settimane. Da una parte le autorità hanno cominciato a vietare le richieste di grandi manifestazioni presentate dai moderati del CHRF (Fronte Civile per i Diritti Umani), che invece di disobbedire e confermare gli appuntamenti nonostante il divieto, li rimandano a data da definirsi. Le grandi masse non organizzate che scendevano regolarmente in piazza fino a metà agosto perdono così ogni punto di riferimento. A manifestare rimangono nelle ultime due settimane solo i giovani radicali o gli studenti, che sono tanti, decine e decine di migliaia, ma non milioni. Contemporaneamente, il regime sta procedendo a massici arresti, intensificatisi non a caso nelle ultime settimane e che prendono di mira figure di spicco dell’opposizione, o particolarmente attive proprio nell’organizzazione pratica delle manifestazioni. Oltre agli arresti, ci sono i licenziamenti o le esplicite minacce di licenziamento per i lavoratori che aderiscono al movimento.

Nel momento in cui stavamo chiudendo questo articolo Carrie Lam ha annunciato che a metà ottobre, alla riapertura del Legislative Council, la proposta di legge sull’estradizione verrà ritirata. Lam ha rifiutato ogni altra concessione. Per esempio, ha confermato che i reclami contro la polizia verranno gestiti dall’Independent Police Complaints Council (IPCC), un organo risalente all’era coloniale e i cui membri sono tutti nominati personalmente da lei. Come uniche “aperture” ha deciso di fare nei prossimi mesi un tour dei distretti locali per entrare in contatto con la gente (dovrà farlo ben protetta dai reparti antisommossa, vista la sua impopolarità) e di dare vita a una commissione di esperti che studierà i problemi sociali della città – qualcosa di simile, insomma, al “grande dibattito” varato da Emmanuel Macron per rintuzzare le mobilitazioni dei gilets jaunes in Francia, ma in forma ancora minore. Le reazioni di chi protesta sono state subito nette: il ritiro tardivo della legge dopo mesi di insurrezione non ha alcun valore, continueremo a mobilitarci per le nostre altre richieste. Lam in compenso ha incassato il totale sostegno dei capitalisti locali e anche della potente Camera di Commercio Americana a Hong Kong. La mossa di Lam è chiaramente un ulteriore tentativo di divedere il movimento senza fare alcuna effettiva concessione. Le prossime settimane diranno se la sua mossa ha avuto successo o meno. Se le proteste radicali continueranno, aumenterà il rischio di un intervento con la forza di Pechino, che non smette di minacciarlo.

Ma quali potrebbero essere le conseguenze di quest’ultima opzione per il regime centrale? Nel caso di un intervento armato, di sicuro il prezzo da pagare sarebbe molto alto (forse un po’ meno alto, per motivi essenzialmente di eco mediatica internazionale, se a intervenire fosse la polizia di Pechino, e non l’esercito). Sebbene gli Usa siano stati fino a oggi molto concilianti riguardo a Hong Kong, difficilmente rinuncerebbero a sfruttare l’occasione offertagli sul piatto di un intervento in stile Tiananmen come arma di ricatto nella guerra dei dazi. Ne risentirebbe poi il ruolo di hub finanziario mondiale di Hong Kong, essenziale sia per l’economia dell’intera Cina che per il riciclaggio dei miliardi dei burocrati e capitalisti “comunisti”. Inoltre, si aprirebbe un nuovo fronte a Taiwan, che andrà alle elezioni presidenziali il prossimo gennaio e dove, sull’onda di Hong Kong, ci sono già state un paio di grandi manifestazioni di solidarietà con l’ex colonia o contro le ingerenze della Cina continentale, mentre l’opinione pubblica si sta spostando verso i candidati più sgraditi a Pechino tanto che, sull’onda del risentimento per le politiche adottate dalla Cina continentale nei confronti di Hong Kong, anche i candidati dell’isola considerati più vicini a Pechino sono stati costretti a fare dichiarazioni contro ogni ipotesi di integrazione di Taiwan nella Repubblica Popolare in un futuro intravedibile, al fine di evitare il flop al voto. L’integrazione di Taiwan, anche con un intervento militare, è uno dei pilastri dell’ideologia nazional-sciovinista promossa da Xi Jinping. Quindi Pechino rifletterà di sicuro bene prima di intervenire direttamente con la forza. Va però aggiunto che in questo momento un intervento diretto a Hong Kong da parte di Pechino potrebbe essere anche un’occasione d’oro per Xi, che mostrando la mano forte avrebbe l’occasione di coalizzare ulteriormente intorno a sé i vertici del Partito Comunista, cosa di cui ha estremamente bisogno sia a livello interno che nel contesto della guerra dei dazi, e di incrementare la propaganda sciovinista per fare dimenticare i problemi interni, un po’ come Putin con la Crimea. Inoltre, la storia insegna che gli interventi come quello di Tiananmen nel 1989 vengono presto dimenticati dalle cancellerie occidentali, le quali oltretutto non hanno mai amato le mobilitazioni in massa dei “rivoltosi”, come Trump ha etichettato i manifestanti di Hong Kong: le ripercussioni internazionali di un intervento potrebbero quindi essere di breve durata.

Quale interpretazione delle manifestazioni?

Tra i commentatori “di sinistra” vi è stato chi ha liquidato per intero le mobilitazioni di Hong Kong e appoggiato esplicitamente i reazionari di Pechino basandosi sul fatto che nel corso del loro svolgimento in isolate occasioni alcune singole persone hanno esposto o sventolato bandiere britanniche o degli Usa. Ciò è non solo disonesto, ma anche ridicolo. Il caso più noto è quello della bandiera britannica che qualcuno ha appeso su uno scranno del parlamento quando è stato occupato per alcune ore da qualche centinaio di persone. E’ stato il gesto di un singolo durato solo qualche minuto e gli stessi dimostranti la hanno subito tolta senza incontrare alcuna opposizione. Riguardo alle bandiere Usa, sono state sbandierate in tre o quattro occasioni da qualche singolo o un gruppetto di quattro o cinque persone, evidentemente molto confuse o deficienti (o infiltrate, come gli altri falsi manifestanti colti sul fatto: le bandiere Usa sono infatti comparse solo ad agosto, subito dopo che i media di Pechino hanno smesso di tacere su Hong Kong avviando una martellante campagna interna contro le manifestazioni “organizzate dagli stranieri” e quindi le sono state utilissime in termini di propaganda). Cinque o sei persone su centinaia di migliaia, senza trovare alcuna eco nel movimento o negli slogan dei cortei. D’altronde chi vuole andare ad analizzare il comportamento dei singoli in queste enormi mobilitazioni di popolo passando in rassegna i reportage filmati, fotografici o giornalistici può trovare di tutto e di più: richiami al pacifismo di John Lennon, disabili in carrozzella che sventolano la bandiera di Taiwan, cartelli antifascisti, piccoli gruppi cattolici che cantano Alleluia al Signore, mini-dazebao con slogan rivoluzionari di Mao, scritte contro la mafia, cartelli di immigrati pakistani contro il razzismo dei datori di lavoro e chi più ne ha più ne metta. Condivise da tutti, con grande determinazione, sono solo le chiare richieste del movimento: ritiro della proposta di legge sull’estradizione, dimissioni di Carrie Lam, libere elezioni, liberazione degli arrestati, punizione dei poliziotti violenti. Condiviso solo da un settore, ma da un settore molto ampio e non di un pugno di singoli, è in secondo luogo lo slogan “Rivoluzione!”.

Altri osservatori di sinistra, non disonesti e più attenti, hanno sottolineato invece in modo particolare la presenza dal 2014 nelle mobilitazioni a Hong Kong di una componente cosiddetta “localista”. Al suo interno questa componente disomogenea si divide tra gli “indipendentisti” e coloro che sono per una non meglio definita “autodeterminazione”. Tra i primi vi sono gruppi di destra, come per esempio Youngspiration e Civic Passion, che hanno posizioni scioviniste nei confronti degli abitanti della Cina continentale, non differenziando tra grandi capitalisti, immigrati o semplici visitatori. A livello politico è importante denunciarlo e tenere questi gruppi isolati, non solo per ragioni di principio, ma anche perché la solidarietà tra oppressi di Hong Kong e della Cina continentale è fondamentale, sul lungo periodo, per ottenere sviluppi positivi. A livello di analisi è invece errato mettere un’ipoteca sull’intero movimento, come hanno fatto alcuni, a causa della presenza di questi gruppi che sono del tutto minoritari e contano ciascuno qualche decina di attivisti, in tutto al massimo un centinaio. Per fortuna non hanno avuto presa sul movimento di questo 2019, e il dato positivo è che questa è una differenza rispetto al Movimento degli Ombrelli del 2014 quando, per quanto in minoranza e ai margini, si erano fatti sentire. Nessuno dei loro slogan ha trovato eco nei cortei di quest’anno, né sono riusciti a organizzare azioni in proprio durante le mobilitazioni.

Di norma, in chiusura di un’analisi come la presente si formula qualche considerazione sulle vie di uscita “di sinistra” dalla situazione in atto. Gli osservatori più acuti, come il già citato Au Loong Yu, scrivono che per uscire dall’impasse è fondamentale la solidarietà del movimento di Hong Kong con chi nella Cina continentale lotta per la democrazia e i diritti dei lavoratori. È una posizione condivisibile in toto, ma solo se intesa come prospettiva che guarda al lungo periodo e non come la soluzione per l’oggi o un futuro immediato. Che di questa prospettiva a Hong Kong si tenga comunque conto già oggi è testimoniato dal fatto che ad agosto una nutrita serie di organizzazioni sindacali e della sinistra hongkonghesi ha emesso un comunicato unitario di solidarietà con i lavoratori, sindacalisti e studenti della Cina continentale arrestati o desaparecidos. La storia però insegna che è difficile chiedere a un movimento di massa di carattere nazionale o autonomista implicato in una situazione drammatica, che comprende il rischio imminente di un’aggressione militare, di assumersi in più l’onere di dare sostegno alle lotte in corso nel paese che li opprime. Ma, soprattutto, in questo momento è impossibile andare oltre alle dichiarazioni di principio: nella Cina continentale il regime di Xi Jinping ha messo in galera, torturato e fatto sparire i possibili interlocutori democratici del movimento di Hong Kong, distruggendone ogni struttura e canale di comunicazione. Inoltre ha scatenato una campagna sciovinista contro Hong Kong che mette a rischio l’incolumità di chiunque dissenta, in un clima di lavaggio del cervello totale.

Purtroppo il movimento di Hong Kong, in questo contesto, sembra trovarsi di fronte solo un vicolo cieco, e i suoi militanti se ne rendono conto benissimo, lo dicono anche esplicitamente (quattro di loro si sono suicidati per questo, stando ai messaggi che hanno lasciato). Se dovesse arrivare a “prendere il palazzo”, verrebbe immediatamente schiacciato dalla forza sovrastante di Pechino senza potere contare sull’aiuto di nessuno. Non può nemmeno sperare in qualche riforma effettiva che apra uno spiraglio, perché nell’immediato l’oligarchia della Cina continentale non vuole (e non può, per colpa esclusivamente sua) cedere. L’unica speranza, per i motivi descritti nel corso di questa analisi, è che questo enorme e coraggioso movimento di massa si evolva ulteriormente in una sfida capace di aprire una pericolosa breccia nel potere finora granitico di Pechino e una preziosa esperienza sulla quale costruire, in un futuro magari molto meno lontano di quanto oggi si potrebbe pensare, uno sbocco democratico e rivoluzionario. La sua lotta democratica ha fin da oggi comunque l’effetto già importante di mettere in crisi un paese, la Cina, che è una colonna portante del capitalismo mondiale e che al suo interno è all’avanguardia nell’adottare politiche reazionarie nonché nel reprimere con la violenza lavoratori, donne, minoranze e sinistra radicale.