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Impossibile descrivere tutte le battaglie di Guillermo Almeyra, dalla sua Argentina al Brasile, allo Yemen, all’Italia e poi a lungo nel Messico, dove aveva ottenuto anche uno spazio importante in diverse università, e in varie iniziative editoriali tra cui il quotidiano La Jornada, a cui collaborava ancora sistematicamente dalla Francia in cui si era ritirato ultimamente: domenica La Jornada ha pubblicato il suo ultimo articolo, in cui parla con distacco e serenità della sua caduta e del responso dei medici. Aveva 91 anni ma fino all’ultimo ha mantenuto l’entusiasmo e l’ottimismo di un ragazzo. Lo ricordiamo con le sue parole.

Mercoledì scorso sono caduto e mi sono rotto la testa del femore della gamba destra. I medici presero subito in considerazione la possibilità di operarmi e applicarmi una protesi artificiale. Purtroppo, ho avuto una crisi respiratoria che li ha indotti a desistere dai loro propositi iniziali perché avrei potuto morire sotto i ferri.

I medici della Rianimazione dell’ospedale di Marsiglia, “La Timone”, hanno riconsiderato le mie condizioni generali e considerato che probabilmente non sarei arrivato alla fine della settimana e che, se avessi ottenuto questo miracolo, soltanto dopo si sarebbe potuta considerare la possibilità di una futura operazione alla gamba. In una riunione di famiglia con la mia compagna, che da sessant’anni è stata con me in tutte le situazioni rischiose, e con mio figlio, un giovane ecologista, anticapitalista molto lucido nelle sue concezioni e decisioni, abbiamo deciso di basarci sulla valutazione dei medici. Superare la fine della settimana e migliorare lo stato dei miei polmoni: questa, quindi, potrebbe essere la mia ultima battaglia.

Nel 1943 sono arrivato alla militanza socialista sebbene mi trovassi in un liceo militare. Tornerei a fare tutto quello che ho fatto e ripeterei tutto quello che ho detto da allora (salvo alcune delle sciocchezze commesse fra il 1962 e il 1974, anni della mia espulsione dal trotskismo posadista per divergenze politiche condivise con la mia compagna). Ho lottato in quattro continenti. Ho militato in partiti e creato riviste e periodici politici in sei paesi. Sono stato espulso da vari paesi per la mia attività rivoluzionaria. Quando sono tornato legalmente in Messico, dopo esserne stato espulso durante la presidenza di Díaz Ordaz, ho lavorato presso la División de estudios de posgrado [Divisione studi post-laurea] della Facoltà di scienze politiche e sociali dell’UNAM, con l’incarico di coordinatore di studi latinoamericani ed ho collaborato alla rivista Uno más uno [Uno più uno], allora diretta da Manuel Becerra Acosta.

Quando Carlos Payán e Carmen Lira, tra gli altri, crearono La Jornada, ho lavorato in quel giornale e oltre che nel post-laurea in “sviluppo rurale integrato” della UAM di Xochimilco. Nello stesso periodo ho fondato insieme ad altri corsi di scienze sociali presso la Universidad Nacional Autónoma di Guerrero e (sempre insieme ad altri) elaborato il corso di storia e di sociologia per l’UACM. Ho scritto – o collaborato alla redazione di – circa cinquanta libri. Ho avuto un figlio e piantato alberi in Messico e in Nicaragua. Ho l’onore di aver lasciato un’infima impronta nei movimenti operai di Argentina, Brasile, Perù, Italia, Messico, Repubblica Socialista Araba dello Yemen del Sud.

I miei articoli de La Jornada sono riprodotti in vari giornali europei e latinoamericani. Fin dalla mia adolescenza difendo i lavoratori e il popolo, le risorse naturali, il rapporto civile e pacifico tra le nazioni e la lotta per la democrazia che implica lo scontro con lo Stato burocratico del capitalismo di Stato o del grande capitale finanziario e industriale.

Di rivoluzionari ce ne sono molti, ma pochi si propongono l’eliminazione del sistema di sfruttamento, sebbene nei partiti comunisti, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta [del secolo scorso], vi abbiano militato persone di grande abnegazione e di grande valore; ma le linee e il funzionamento delle decisioni delle rispettive direzioni perpetuavano il sistema capitalistico su scala nazionale e mondiale. Ho criticato queste direzioni e queste politiche staliniste che sono sopravvissute in governi e partiti che stalinisti non erano.

Discuto con franchezza e non temo di restare in minoranza ma, al tempo stesso, cerco di riunificare i rivoluzionari anticapitalisti di tutte le tendenze con quelli della mia corrente, i marxisti ecosocialisti rivoluzionari. Come ho detto in uno dei miei libri, sono copernicano, newtoniano, darwinista, marxista, leninista, trotskista, ma in modo laico e senza abbandonare la critica degli errori dei maestri.

Nonostante questo e malgrado il tremendo pericolo che stiamo correndo su scala mondiale di distruzione ecologica delle basi della civiltà e della guerra nucleare che riporterebbe il mondo all’ età della pietra, sono convinto del fatto che l’Umanità avrà un futuro migliore e della possibilità di garantire a tutti lavoro, istruzione, salute e un ambiente sano, cibi ed acqua di qualità, diritti democratici, sicurezza e rispetto per le donne e fine di qualsiasi discriminazione.

Se non riuscissi a vincere questa battaglia che sto affrontando, che queste bandiere passino in mano a chi mi segue in questo corso.

Vivano i lavoratori messicani!

Viva l’internazionalismo proletario!

Uniamoci tutti e costruiamo un’alternativa al capitalismo.

 

(La Jornada, 22-9-2019, https://www.jornada.com.mex/ )

 

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