Tempo di lettura: 6 minuti

Dopo 12 giorni di scioperi e manifestazioni che hanno sconvolto l’Ecuador, le trattative, che hanno per ora sopito la rivolta, si trovano in una situazione di stallo. Per soddisfare le richieste del Fondo Monetario Internazionale, in cambio di nuovi finanziamenti, il presidente Lenin Moreno aveva emanato una serie di decreti tra i quali la revoca del sussidio statale ai combustibili, una misura che avrebbe determinato, in un paese in cui il trasporto avviene quasi esclusivamente su gomma, un rincaro del 30% del costo della vita. A questi provvedimenti se ne aggiungevano altri che andavano a colpire i lavoratori, in particolare quelli pubblici, quali il dimezzamento dei giorni di ferie, tagli agli stipendi e la riduzione del 20% del salario di ingresso per i giovani assunti. L’annuncio dei decreti aveva in un primo momento provocato lo sciopero delle imprese di trasporto, che avevano paralizzato il paese, ma il Presidente aveva subito avviato una trattativa concedendo loro di aumentare le tariffe. Tale misura, se da una parte aveva fermato la protesta dei padroncini di autobus e taxi, dall’altra aveva ulteriormente scatenato le ire popolari. E così il 2 ottobre, la Conaie (l’organizzazione degli indios dell’Ecuador) e i sindacati avevano proclamato una mobilitazione generale, che aveva portato in breve tempo al blocco totale del paese. Più di 300 strade chiuse dai manifestanti, occupazione dei pozzi petroliferi, intere città rimaste senza energia elettrica, blocco del servizio idrico, mercati e negozi chiusi per mancanza di merci e di alimenti. Contemporaneamente migliaia di indios si dirigevano verso la capitale accolti con entusiasmo dalla popolazione che li riforniva di coperte, alimenti, bevande calde. Giovani, studenti e organizzazioni di donne insieme alla popolazione dei quartieri poveri erigevano barricate e si scontravano per giorni con le forze dell’ordine. A nulla era servito lo stato di emergenza e il coprifuoco proclamati come risposta da Moreno. La stessa Conaie a sua volta aveva proclamato un “coprifuoco indios” nei territori da essi controllati, annunciando che ogni poliziotto o militare sorpreso senza autorizzazione sarebbe stato arrestato…dagli indios. E così, interi reparti dell’esercito o della polizia venivano sequestrati dalla popolazione e rinchiusi negli stadi. Durante l’assemblea popolare convocata alla casa della cultura di Quito venivano esposti, davanti alle grida dei manifestanti, una decina di poliziotti catturati dagli insorti. Inutili sono stati anche i tentativi di Moreno di accusare i manifestanti di essere manipolati dall’ex presidente ed ex alleato, Rafael Correa o dal Venezuela (utilizzando anche la becera propaganda anti immigrati venezuelani che ha attecchito in diversi strati della popolazione ecuadoriana). La stessa Conaie ha preso più volte pubblicamente le distanze da Correa e, anche se tra i manifestanti erano presenti partitari dell’ex presidente, questi hanno avuto un peso marginale nel movimento, spesso addirittura nocivo. La rivolta, che aveva assunto un carattere insurrezionale, aveva costretto il presidente Moreno a fuggire dalla capitale e a rifugiarsi nella più tranquilla città costiera di Guayaquil. La notte del 14 ottobre, con il paese totalmente paralizzato e una Quito devastata dagli scontri che hanno provocato, come bilancio finale, almeno 8 morti, 1200 arresti e 1300 feriti, Moreno cede e accetta di trattare, in diretta televisiva, con la Conaie e le organizzazioni sindacali. Durante la trattativa pubblica, il decreto che eliminava i sussidi ai carburanti viene sospeso e la rivolta rientra.

E’ stata una vittoria, come molte organizzazioni, inclusa la Conaie, hanno prontamente dichiarato? Ovviamente la popolazione, alla notizia del ritiro del decreto 883(quello sui combustibili), ha festeggiato ed esultato, ma non si può negare la sproporzione tra le forze che erano state messe in movimento e il parziale risultato ottenuto. Durante le mobilitazioni i manifestanti chiedevano non solo il ritiro del decreto sull’aumento dei combustibili, ma l’abrogazione di tutto il pacchetto di richieste del FMI, invece restano ancora in vigore tutti i provvedimenti che colpiscono i lavoratori. Chiedevano anche a gran voce le dimissioni del presidente e dei ministri della difesa e degli interni, responsabili della brutale violenza da parte delle forze dell’ordine, oggi, invece, dopo l’accordo, questi stessi ministri ordinano arresti illegittimi, non solo degli avversari correisti, ma anche di militanti sindacali e dei movimenti sociali e studenteschi. Inoltre, il decreto sui combustibili è stato solo sospeso e dovrà essere sostituito da uno nuovo, concertato tra organizzazioni sociali e governo e già si parla di una sua diluizione negli anni. Sul parziale esito delle lotte ha sicuramente pesato anche la quasi totale assenza di forze seriamente rivoluzionarie e la debolezza del movimento operaio. Moreno stava cedendo e davanti alla brutale repressione del suo governo, cominciavano a manifestarsi segnali di disaffezione anche all’interno dello stesso esercito, tanto che, appena due giorni dopo la firma dell’accordo, il presidente ha destituito alcuni membri della cupola militare, tra cui lo stesso comandante in capo dell’esercito. La fretta di arrivare ad un accordo da parte dei vertici delle organizzazioni sociali unito alla volontà dei dirigenti della Conaie di smarcarsi dalle accuse di correismo( non a caso si sono subito precipitati, dopo l’accordo, a dichiarare che mai avevano chiesto la caduta del presidente) ha di fatto lanciato un’ancora di salvezza a Moreno, che potrà giocare la carta del tempo e sperare nella smobilitazione delle forze sociali.

A queste considerazioni occorre aggiungere che l’Ecuador presenta una struttura monetaria che la distingue dagli altri paesi latinoamericani. Infatti, dall’inizio del 2000, il paese è stato completamente dollarizzato. Si è trattato del primo esperimento neoliberista del nuovo secolo portato avanti con la compiacenza del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Banca Interamericana di Sviluppo e del governo degli Stati Uniti. A parte la piccola Panamà, nata già dollarizzata all’inizio del novecento, per rimarcare da subito la sua dipendenza dagli USA e per consolidare il controllo del canale da parte della potenza imperialista, in nessun altro paese era stata mai ipotizzata una misura così drastica: ritirare dal mercato tutta la valuta nazionale e sostituirla con i dollari, bruciare i milioni di banconote in sucre (la moneta nazionale) e gettare le macchine per la stampa nell’Oceano Pacifico, in modo da rimarcare l’irreversibilità del provvedimento. Gli Stati Uniti avrebbero beneficiato di grandi vantaggi con la dollarizzazione, non solo in termini immediatamente economici quali il signoraggio (produrre un biglietto da 100 dollari costa alla Federal Reserve 6 centesimi e l’80% delle banconote da 100 dollari si trova fuori dagli USA), ma anche, tenendo in considerazione che in quel periodo stava per entrare in circolazione l’euro e, che la dollarizzazione di interi Stati sudamericani, avrebbe impedito la perdita di potere del dollaro rispetto alla nuova divisa europea.1) Nel 2001, un anno dopo l’esperimento con l’Ecuador, anche il piccolo El Salvador adottò la dollarizzazione. Ma per un paese dipendente come l’Ecuador, quali vantaggi può offrire tale misura? A parte la stabilità cambiaria e una limitazione dell’inflazione, in realtà ben pochi. Un paese che dollarizza non può più stampare moneta nemmeno in situazioni di emergenza, al contrario, i dollari necessari per il funzionamento del paese deve conseguirli attraverso le esportazioni e l’Ecuador è un paese produttore di petrolio che rappresenta quasi il 60% delle esportazioni totali. Per anni, dopo la dollarizzazione, fino al 2014, l’Ecuador ha potuto beneficiare di due fattori positivi contingenti: un dollaro debole, che aiutava l’esportazione garantendo un costo competitivo dei prodotti nazionali e un alto costo del petrolio, che generava un notevole ingresso di dollari.2) Oggi, al contrario, con un dollaro che si sta rafforzando e un costo del barile del petrolio ridimensionato, le importazioni hanno superato le esportazioni e di conseguenza hanno ridotto l’ingresso di valuta. Nello stesso tempo, la dollarizzazione ha favorito la fuga di capitali dal paese (è molto più facile trasferire dollari all’estero rispetto ad una moneta nazionale di scarso valore), per un valore complessivo di 30 miliardi di dollari. Il rischio di un crollo finanziario ha costretto il presidente Moreno a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale e a sottomettersi ai suoi diktat, in cambio di un prestito di 4.2 miliardi di dollari. Nel 2018 lo stesso Moreno aveva condonato buona parte di un debito di 4.5 miliardi di dollari che grandi imprese e banche nazionali e straniere (tra cui la nostra ENI) avevano accumulato sotto forma di imposte non pagate. Oggi, altri paesi dell’America Latina, tra i quali lo stesso Venezuela stanno ipotizzando una dollarizzazione dell’economia. Nello stesso tempo, in Ecuador, diversi economisti di ispirazione marxista, tra i quali Alberto Acosta, da anni suggeriscono un’uscita lenta e controllata dal dollaro, per sottrarsi dalla dipendenza monetaria dagli USA, primo passo per un cambio reale che veda le classi popolari del paese riappropriarsi delle ingenti risorse naturali di cui dispone, espropriando multinazionali, latifondisti e banchieri e rilanciando un programma di vere riforme sociali. Oggi i lavoratori e gli indios ecuadoriani hanno compiuto un primo passo, ottenendo una vittoria solo parziale e temporanea, che dovrà presto essere difesa e rafforzata attraverso nuove mobilitazioni e collegandosi con le lotte che in America Latina si stanno sviluppando in Cile, Honduras, Haiti, Argentina.

Proprio come ha scritto il giornalista uruguaiano Raul Zibechi: “I tempi della storia di coloro che stanno in basso non sono lineari, macereranno lentamente nel calore dei focolari, dove vengono discusse e prese le decisioni collettive che cambiano le direzioni del mondo. Per tutte quelle persone che fanno del collettivo il centro della propria vita, gli eventi dell’Ecuador saranno come la stella polare per i marinai: riferimento e orizzonte, guida e orientamento in questi tempi di caos e confusione”.

1. Nel suo rapporto sulla dollarizzazione, nel 1999 il presidente per gli affari economici del congresso USA, il senatore Connie Mack, scriveva: “Con l’aumento del numero dei paesi che utilizzano il dollaro, la dollarizzazione ufficiale contribuirà a preservare il dollaro come prima moneta internazionale, una posizione che l’euro sta intaccando”.

2. Dopo che nel 2007 Rafael Correa divenne presidente dell’Ecuador, nel giro di un solo anno, il prezzo del petrolio passò dai 57 ai 140 dollari al barile. Tale situazione favorevole, mimando il chavismo venezuelano, gli permise di destinare una parte di queste risorse verso investimenti pubblici e sociali, modernizzando il paese e introducendo una serie di riforme sociali al fine di ridurre la miseria estrema. Tali politiche di forti investimenti continuarono anche quando il prezzo del barile cominciava a ridursi, ciò produsse una prima crisi di valute che costrinse Correa ad indebitarsi con la Cina, in cambio dello sfruttamento minerario di vaste zone del paese, Amazzonia compresa.

*articolo apparso sul sito del compagni di Sinistra Anticapitalista