“Come afferma il Manifesto contro la Geoingegneria (6) firmato da numerose organizzazioni nazionali e internazionali nell’ottobre 2018: “La geoingegneria perpetua la falsa convinzione che l’attuale modello industriale di produzione e consumo, socialmente ed ecologicamente ingiusto, non può essere trasformato e che, pertanto, abbiamo bisogno di soluzioni tecnologiche per controllarne gli effetti. In realtà, i cambiamenti e le trasformazioni di cui abbiamo veramente bisogno per affrontare la crisi climatica sono innanzitutto di ordine economico, politico e sociale. (…) La nostra casa, le nostre terre e territori non sono un laboratorio di tecnologie di modifica dell’ambiente su scala planetaria.”
Ci limiteremo in questo articolo alla sola questione del clima. Non affronteremo cioè l’insieme delle crisi ecologiche, anche se essa illustra bene il ruolo contraddittorio degli scienziati e degli esperti.
Sono stati degli scienziati, l’oceanografo Jean Revelle e il geologo Hans Suess, ad aver lanciato a partire dagli anni 1950 l’allarme sul cambiamento climatico. A partire dal 1958, i lavori del ricercatore David Keeling permettono di misurare l’aumento del tenore del CO2 nell’atmosfera. Prima di loro, i lavori dello scienziato svedese Svante Arrhenius nel 1896 avevano stabilito il ruolo del diossido di carbonio in quello che chiamerà “l’effetto serra”, e fa il legame con il consumo crescente di carbone e lo sviluppo dell’industria.
L’IPCC (GIEC): un’organizzazione ibrida
La creazione dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, in inglese Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC – GIEC in inglese) nel 1988 segna una svolta, al punto che ormai questa istanza è imprescindibile. La sua nascita e le sue regole di funzionamento mescolano strettamente scienza e geopolitica. Infatti, l’IPCC è stato creato dal G7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna, Canada, Italia) su pressione di Reagan e della Thatcher per impedire ad un’agenzia dell’ONU, “sospettata di militantismo ecologico (1)”, di imporsi come referenza come centro di competenze climatiche. Viene posto sotto il controllo di due organismi dell’ONU, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Si tratta di un’organizzazione ibrida che associa rappresentanti degli Stati (195) e scienziati. La missione degli scienziati è di “valutare, imparzialmente e in maniera metodica, chiara e oggettiva, le informazioni scientifiche, tecniche e socio-economiche necessarie per comprendere il cambiamento climatico, le sue ripercussioni e i rischi futuri, come le strategie di adattamento e di attenuazione possibili”. L’IPCC non intraprende nessuna nuova ricerca, ma valuta lo stato delle conoscenze sulla base della documentazione tecnica pubblicata ed esaminata. Si compone di tre gruppi di lavoro (gruppo 1 sugli elementi scientifici, gruppo 2 sugli impatti e l’adattamento, gruppo 3 sull’attenuazione (2)). Ha fornito cinque rapporti di valutazione (1990, 1995, 2001, 2007, 2014 – il 6° è previsto per il 2022), e dei rapporti speciali come quello dell’ottobre 2018 sulle conseguenze di un riscaldamento di 1.5 °C (SR15). Ben distante dalle accuse di esagerazione proferite dai negazionisti come Trump, che ha interrotto il pagamento del contributo degli Stati Uniti all’IPCC (1,6 milioni di euro su 6 milioni), la tendenza è, per inclinazione, piuttosto a sottovalutare la minaccia. Del resto ogni nuovo rapporto conferma l’ipotesi peggiore delle previsioni precedenti. Le conclusioni non sono evidentemente prive di implicazioni ideologiche. Per esempio, nel quinto rapporto, il gruppo 3 scrive che “i modelli suppongono dei mercati che funzionano pienamente e un comportamento dei mercati concorrenziale” nel più puro stile neoliberale (3) … Infine, e soprattutto, le conclusioni e i “riassunti all’attenzione dei responsabili politici” devono essere approvati dai rappresentanti degli Stati; si tratta cioè di conclusioni politiche, frutto del rapporto di forze tra gli Stati o gruppi di Stati.
Controllare il termostato del pianeta: la geoingegneria
Gli scienziati non valutano soltanto il cambiamento climatico. Le scienze e la tecnica sono anche utilizzate per agire sul clima o tentare di farlo. La ricerca per controllare il clima non è una novità: negli anni ’60 si limitava alla scala locale, mirava, ad esempio, a deviare dei tornado in Florida, ma aveva soprattutto fini militari, in particolare durante la guerra del Vietnam per scatenare piogge torrenziali … Con l’aggravamento del cambiamento climatico, si cambia scala, l’idea di un “piano B” guadagna terreno, associando fiducia cieca nelle soluzioni tecnico-scientifiche (Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica) e calcolo capitalista. Accettando il fatto che le emissioni non diminuiranno, o almeno non abbastanza, o addirittura continueranno ad aumentare, non ci sarebbe altra scelta che agire, o a monte sull’irradiamento solare stesso, o a valle “catturando” il CO2 in eccesso. Sono le due grandi direzioni della geoingegneria. La prima, detta di gestione dell’irradiamento solare (GRS), raggruppa alcune proposte più o meno fantasiose (aerosol nella stratosfera, sale marino nelle nuvole per renderle più riflettenti, riflettori spaziali, …). La via più “seriamente” esplorata è la polverizzazione di particelle di zolfo nell’alta atmosfera, imitando l’esplosione del vulcano Pinatubo che aveva effettivamente fatto significativamente abbassare le temperature. Oltre alle difficoltà tecniche, agli effetti indesiderati (piogge acide, …) una simile “soluzione” condanna a delle vaporizzazioni eterne, dato che l’interruzione provocherebbe una risalita brutale delle temperature. Questione supplementare ma essenziale: chi decide? Chi controlla il termostato del pianeta? Le misure di tipo GRS non figurano in nessuno dei profili di evoluzioni ritenuti dal rapporto speciale dell’IPCC (SR15). Per ora sembrano accantonate …, ma per quanto?
La seconda direzione, quella dell’eliminazione del diossido di carbonio (CDR, per Carbon dioxide removal) figura invece in buona posizione. Il SR15 conclude che per avere una possibilità su due di contenere il riscaldamento climatico al di sotto di 1,5 °C, le emissioni nette (la somma delle emissioni e degli assorbimenti) devono essere ridotte di metà in dodici anni e a zero nel 2050. Ed è qui che le “tecniche a emissioni negative” (NETs) intervengono. Questo termine (fuorviante) ricopre posizioni molto differenti, dall’indispensabile deartificializzazione e rimboscamento delle terre… alle peggiori: la bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio (BECCS).
La BECCS pretende di assorbire su ampia scala il CO2 presente nell’atmosfera in vaste monoculture, bruciare questa biomassa, catturare il CO2 emesso dalla combustione e stoccarlo negli strati geologici profondi … Al di là dei problemi della permanenza e della messa in sicurezza dello stoccaggio di CO2, che sono lungi dall’essere risolti, le conseguenze sociali ed ecologiche sono innumerevoli: accaparramento delle terre e dell’acqua a discapito dell’alimentazione delle popolazioni, dei contadini e dei popoli, ricorso massiccio a concimi e biocidi e agli OGM, perdita di biodiversità … Uno solo dei quattro scenari archetipi (4) che descrivono i differenti futuri possibili (lo scenario che prevede una riduzione drastica della domanda energetica e dunque delle emissioni) esclude il ricorso alla BECCS. Si deve dunque prevedere lo scenario peggiore! Altre tecniche di eliminazione del CO2 sono attualmente studiate o sperimentate. La cattura del carbonio nell’aria (DACCS) è ancora lontana dall’essere a punto. Per quanto riguarda la captazione in uscita di fabbrica, in Canada il CO2 emesso da una centrale termica è captato e iniettato nei pozzi petroliferi utilizzando la sua pressione per estrarre petrolio fino ad allora inaccessibile (5) … Captare CO2 per estrarre petrolio: il risultato finale non è quindi meno, ma più carbonio! La fertilizzazione degli oceani con la dispersione di particelle di ferro in superficie per favorire la crescita del plancton e dunque l’assorbimento di CO2 è stata testata da numerosi governi. Questi esperimenti si svolgono fin dagli anni 1990 su superfici che possono misurare migliaia di km2. Una moratoria su questa tecnica inefficacie e pericolosa è stata adottata, non senza difficoltà e ostruzionismi nel 2008.
False credenze, vere sfide
Come afferma il Manifesto contro la Geoingegneria (6) firmato da numerose organizzazioni nazionali e internazionali nell’ottobre 2018: “La geoingegneria perpetua la falsa convinzione che l’attuale modello industriale di produzione e consumo, socialmente ed ecologicamente ingiusto, non può essere trasformato e che, pertanto, abbiamo bisogno di soluzioni tecnologiche per controllarne gli effetti. In realtà, i cambiamenti e le trasformazioni di cui abbiamo veramente bisogno per affrontare la crisi climatica sono innanzitutto di ordine economico, politico e sociale. (…) La nostra casa, le nostre terre e territori non sono un laboratorio di tecnologie di modifica dell’ambiente su scala planetaria.”
“Assumere i peggiori rischi per non cambiare nulla” potrebbe essere lo slogan della geoingegneria. Le tecnoscienze più pericolose e incerte sono messe in campo con il solo obiettivo di scartare la sola soluzione possibile e durevole: l’uscita dalle energie fossili, la trasformazione radicale del sistema di produzione e di consumo, la soppressione delle produzioni e dei trasporti inutili … Questa via è evidentemente inaccettabile per i capitalisti e i governanti che hanno interesse a (far) credere che possiamo continuare a bruciare gas, carbone e petrolio, promuovendo veicoli elettrici ed energia nucleare e aggiungendo un pizzico di rinnovabili e di riciclaggio, tanto per l’immagine… È anche il risultato della credenza nel fatto che la Scienza possa tutto, che prima o poi troveremo una soluzione tecnica. E questa fede nel progresso è condivisa ben al di là di coloro che hanno oggettivamente interesse a intrattenere questa illusione. Il movimento operaio ha a lungo coltivato questa speranza cieca che il Progresso, inteso come progresso scientifico e tecnico, era inevitabilmente portatore di progresso sociale, di benessere e, alla fine, di emancipazione. Oggi, di fronte all’oscurantismo dei negazionisti del clima (tra gli altri) e la subordinazione della ricerca ai bisogni del capitale, alcuni scienziati si battono per una “riappropriazione cittadina e democratica della scienza, per metterla al servizio del bene comune” (Carta dell’associazione delle Scienze della cittadinanza (7)). Perché le scelte tecniche non sono neutre, mettere la competenza al servizio del movimento sociale e permettere l’elaborazione democratica delle scelte scientifiche e tecniche costituisce un punto fondamentale per costruire un progetto di emancipazione.
1) Sylvestre Huet, «Comment cette structure a imposé son autorité scientifique», Libération, 2 novembre 2014.
2) «Le Giec a trente ans : son histoire, son rôle… et un climat toujours plus chaud», Reporterre, 2 marzo 2018.
3) GT 3, 5° rapporto di valutazione.
4) Tabella «Characteristics of four illustrative model pathways», IPCC SR15.
5) Intervista di Pat Mooney su https://sciencescitoyennes.org/