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Per avvicinarsi alla comprensione del nuovo ciclo politico globale si potrebbe recuperare un concetto noto ma spesso dimenticato, la fine dell’illusione liberale. Non la fine del liberalismo, che in Europa è in difficoltà ma resta ancora egemone, ma la fine della possibilità di illudersi sulla convivenza virtuosa tra liberismo e liberalismo. Il liberismo è nello stesso tempo una teoria e una politica economica fondate sul presupposto che il mercato, se non alterato dalla politica e dall’errore umano, abbia in se stesso i meccanismi del proprio equilibrio. Il liberalismo è un sistema politico, una democrazia che Marx chiamò “formale” e che ha alla base l’astratto citoyen della rivoluzione borghese, teorizza la divisione dei poteri ed è aperta alle libertà individuali. Ma il liberalismo è anche un’ideologia che, come tutte le ideologie, ha il compito di universalizzare gli interessi di una parte e di idealizzarne il ruolo. I fatti hanno dimostrato l’impossibile convivenza e la sua semplicissima ragione. Non si può nello stesso tempo sfruttare senza limiti lavoro produttivo e riproduttivo e poi lasciare libertà di organizzazione e di protesta, diritti civili e politici capaci di saldare le fratture nell’umano prodotte dai rapporti di potere. Per gran parte del XX secolo il liberalismo è stato considerato un residuo del secolo precedente per la sua incapacità di garantire il consenso e il dominio. Il capitale li ha infatti esercitati in Europa o con regimi illiberali di estrema destra oppure accettando che al liberismo fossero imposti limiti e regole .

Il capitalismo ha spesso gestito i propri affari con una combinazione dell’una e dell’altra cosa. Non per caso ai tempi della guerra in Indocina si parlò a proposito degli Stati Uniti di “fascismo esterno” per spiegare l’apparente paradosso di una democrazia che non esporta democrazia ma il dominio imposto con la violenza. In Francia i governi liberisti di destra e di sinistra giustificano oggi l’islamofobia con la presunta superiorità culturale della patria dei “droits de l’homme”, mentre (come osserva Palheta) proprio la presenza di immigrati musulmani testimonia una storia di torture e massacri. Ma anche all’interno la combinazione è evidente. Negli Stati Uniti una costituzione di diritti universali ha convissuto negli stati del Sud con leggi che ostacolavano l’accesso al voto degli afroamericani. L’Europa ha lasciato vivere fino agli anni Settanta due regimi fascisti al potere e dei rapporti in Italia tra fascisti e apparati di Stato sono state piene per decenni le cronache.

Come mai l’illusione liberale si è riproposta in Europa, quando una vicenda politica così lunga sembrava averla privata di ogni efficacia? Si è riproposta perché la distruzione dei rapporti di forza che avevano indotto il capitalismo a superare il liberalismo, gli ha consentito di tornare alla forma politica che gli è più congeniale. La morte del vecchio nemico, cioè la scomparsa-decomposizione-metamorfosi del movimento operaio del Novecento, non ha potuto però scongiurare la crisi di consenso prodotta dal liberismo, cioè da un contesto di impoverimento, crescita delle disuguaglianze e dello sfruttamento, smantellamento progressivo del welfare e degrado del tessuto urbano. Le sinistre europee, in gran parte convertite al liberismo liberale, sono ovviamente coinvolte nella sua crisi e l’ascesa delle destre estreme ne rappresenta oggi la più inquietante delle conseguenze. Anche per il presente vale tuttavia ciò che valeva per il passato e cioè che l’impossibile convivenza non si manifesta solo attraverso la comparsa di movimenti di destra radicale ma è già evidente nei discorsi e nei comportamenti del liberismo liberale. Nel caso della Francia (per fare solo l’esempio più efficace) Sarkozy, Hollande e Macron non hanno solo regalato alle classi popolari l’austerità ma hanno anche continuamente contraddetto l’ideologia della sia pure astratta égalité. La ragione non è stata solo l’opportunistica accettazione dell’agenda politica del Fronte Nazionale nell’insensata speranza di indebolire la destra oppure di sottrargli parte dell’elettorato. C’è stata anche la logica inevitabile per cui chi consente al libero mercato di dominare incontrollato deve poi in qualche modo fare propri gli argomenti che lo giustifichino. Questi racconti possono essere assai diversi tra loro ma, nel caso del liberismo liberale, hanno sempre i medesimi obiettivi: dividere coloro che avrebbero tutte le ragioni per rivoltarsi; dotarsi preventivamente di leggi e di misure capaci di fronteggiare le prevedibili rivolte; creare diversivi rispetto alle responsabilità reali della miseria e del disagio.

Un postfascismo fluttuante e instabile

Più difficile mi sembra orientarsi sulle destre estreme, anche perché spesso si tratta di fenomeni abbastanza diversi tra loro per origine e per contesti in cui agiscono. Prima di tutto sembra che sia difficile dar loro un nome. Alla maggioranza dei commentatori evocare il fascismo sembra anacronistico ma le alternative non soddisfano. Populisti? L’aggettivo si riferisce a gruppi e partiti politici troppo diversi per avere un senso. Podemos e il Front National sono definiti populisti e non si può negare che ci sia tra loro una bella differenza. L’appellativo regala poi all’estrema destra una definizione che può anche rivendicare (certo noi siamo dalla parte del popolo). “L’uso ricorrente di questo termine per indicare gli avversari politici rivela soprattutto il disprezzo per il popolo da parte di coloro che la utilizzano”, scrive Enzo Traverso. E aggiunge cha la parola populismo è diventata “un guscio vuoto che può essere riempito dei contenuti più disparati”. Sovranisti? Chiamarli così avalla il millantato credito che caratterizza coloro che si definiscono tali. La mondializzazione dell’economia rende una pura e semplice mistificazione l’appello alla sovranità nazionale. Due testi, per discutere dell’estrema destra, provano in maniera diversa a recuperare il riferimento al fascismo. Uno è l’intervista di Régis Meyran a Enzo Traverso “I nuovi volti del fascismo” edito da Ombre Corte. L’intervistato ha insegnato Scienze politiche all’università di Picardia ed è oggi professore alla Cornwell University. L’altro, “La possibilité du fascisme” è di Ugo Palheta, maitre de conférences all’università di Lille e direttore della rivista Contretemps. I due testi partono da preoccupazioni diverse. Traverso teme che un eventuale allarme fascismo alimenti il ricatto dei partiti liberisti-liberali che si presentano come alternativa alle destre radicali, della cui ascesa sono invece responsabili. Palheta teme invece che sia sottovalutato il potenziale di barbarie del nuovo ciclo politico globale. Mi sembra che entrambe le preoccupazioni siano legittime e non incompatibili, anche se poi l’approccio diverso non è privo di significati.

Il riferimento al fascismo – scrive Traverso – è indispensabile perché consente di individuare analogie con un fenomeno a noi noto, ma è anche deviante. La parola fascismo insomma “si rivela più come un ostacolo che un elemento chiarificatore della discussione”. Meglio parlare di postfascismo e distinguerlo dal neofascismo, cioè da quei gruppi e partiti che rivendicano apertamente una continuità ideologica con il fascismo storico. Così per Traverso queste destre nella maggioranza dei casi hanno origine dal fascismo storico ma se ne sono emancipate e si muovono in una direzione di cui non si conoscono ancora gli esiti. Quando si saranno fissate in qualcosa di nuovo, con caratteristiche politiche e ideologiche precise, si dovrà coniare una nuova definizione. Ciò che caratterizza il postfascismo è un particolare regime di storicità che spiega il suo contenuto ideologico fluttuante, instabile come la società su cui poggia. Esso emerge infatti in un contesto del tutto diverso da quello in cui è nato e vissuto il fascismo storico e nello sforzo di adeguarsi ai tempi ha innescato un processo di trasformazione che lo rende a sua volta diverso.

Per esempio non vuole più distruggere la democrazia parlamentare e, se di questa ha una concezione restrittiva e formale, si trova da questo punto di vista nella buona compagnia del liberismo-liberale di destra e di sinistra. Si tratta – spiega Traverso in un’intervista pubblicata da Jacobin Italia – di una tendenza propria dell’era neo-liberista: poiché la democrazia ha bisogno di giustizia sociale, il capitalismo tende adesso a distruggere la democrazia.

Il fascismo è nato poi in un’Europa destabilizzata dalla Grande Guerra. La sua violenza contribuì a produrre una brutalizzazione della politica che si faceva più che in passato con le armi e si prefiggeva lo scopo di annientare il nemico. Oggi un fenomeno simile si trova in Iraq o Afghanistan e non certo, come nel periodo tra le due guerre, in Italia o in Germania.

E’ vero, il postfascismo ha una matrice nazionalista, antifemminista e omofoba e continua a federare questi umori dal momento che lo votano i più oscurantisti. Bisogna però riflettere su alcuni particolari, per esempio che in un mondo globalizzato il discorso nazionalista appare sempre meno credibile, tanto che l’asse del dibattito politico sul tema si è spostato dalla nazione all’identità nazionale e non è esattamente la stessa cosa. E per altro il fatto stesso che a guidare, per esempio, il Fronte nazionale ci sia una donna contraddice tutta la tradizione fascista. Marine Le Pen poi ha preso talvolta posizione per i diritti delle donne e degli omosessuali, contro l’Islam è vero, ma anche da questo punto di vista tradendo una tradizione.

L’islamofobia ha inoltre sostituito l’antisemitismo. “Il nemico non ha più l’aspetto dell’ebreo, incarnazione ubiqua della finanza e del bolscevismo ma dell’immigrato bacillo islamico nell’Europa.” E tuttavia l’islamofobia non è un surrogato o una riformulazione dell’antisemitismo perché ha una sua specifica storia indissociabile dal colonialismo e rispetto a questa storia ha un atteggiamento molto diverso dal fascismo classico. Non più l’aggressione in nome della missione civilizzatrice dell’Europa ma un atteggiamento difensivo di fronte all’invasione presunta.

Inoltre l’estrema destra non si presenta più come rivoluzionaria, non esibisce la volontà di costruire una nuova società e di plasmare un uomo nuovo. La fine delle utopie, la perdita degli “orizzonti d’attesa” e il presentismo hanno imposto anche al post fascismo un atteggiamento postideologico e le sue narrazioni non sono affidate più a intellettuali ma a esperti della comunicazione.

Infine storicamente il fascismo trovava la sua ragion d’essere nell’anticomunismo, nell’attuale contesto evidentemente privo di senso. Negli anni Venti e Trenta la paura del bolscevismo aveva spinto le élites europee ad accettare Mussolini e Hitler. Oggi i loro interessi non sono rappresentati dalle nuove destre ma dalla Troika e dagli organismi dirigenti dell’Unione Europea. Non solo, c’è anche un’altra conseguenza della morte del vecchio nemico. L’estrema destra può sviluppare la sua critica dell’Europa neo-liberista senza timore di appannare le frontiere ideologiche e dotandosi così di un discorso sociale.

Una dinamica inversa alla defascistizzazione

Traverso, di cui ho sempre apprezzato l’intelligente lavoro, mi perdonerà se ho ridotto ai minimi termini i suoi articoli e le sue interviste sul tema, in cui dice o scrive molte cose assolutamente condivisibili. Spero tuttavia di aver colto la sostanza di ciò che intende dire e su cui mantengo, anche a una seconda e terza lettura, l’impressione ricevuta alla prima di un atteggiamento (come dire?) un po’ troppo rilassato. Prima di tutto dire che potremo coniare per le destre estreme una definizione quando si saranno fissate in qualcosa di nuovo con caratteristiche ideologiche precise, è corretto dal punto di vista della filosofia politica ma pericoloso da quello della politica militante. Potrebbe accadere, come in una storia di Pulcinella nel teatro dei burattini, che l’ospite sconosciuta alla fine del ballo si levi la maschera e mostri così il volto della morte, quando ormai per gli altri ospiti è troppo tardi. E se alla fine scoprissimo che il vetero-fascismo, divenuto post-fascismo si è poi trasformato in neo-fascismo? Traverso stesso accenna a questa possibilità: “le estreme destre potrebbero radicalizzarsi: il post fascismo potrebbe assumere i tratti di un neo fascismo”. E accenna anche alla possibilità che un partito di estrema destra possa diventare interlocutore privilegiato delle élites economiche in caso di una crisi dell’euro e di una disgregazione dell’Unione Europea che precipiterebbero il continente in una situazione caotica e turbolenta. La domanda a questo punto è: quale rapporto potrebbe crearsi tra i due fenomeni, un post-fascismo che diventa neo fascismo e delle élites economiche che scelgono come interlocutrici delle destre estreme?

La risposta è fondamentale perché rimanda a questioni di vitale importanza. Non si tratta di mettersi d’accordo su una definizione, ma prima di tutto di prendere atto che l’Europa, che così efficacemente Traverso descrive, non è oggi esattamente la stessa. Con le elezioni europee il liberismo liberale ha dovuto cominciare a prendere atto della forza di un nemico di cui ha covato lungamente le uova. E a constatare che le crisi di consenso non si affrontano senza ideologia. Prendiamo per esempio il tema della perdita degli orizzonti di attesa e del “presentismo”, tanto suggestivo quanto rispondente al vero ma non valido da qui all’eternità. Quando si vive faticosamente per tutto ciò che il neo-liberismo proietta sulle nostre vite, vivere solo nel presente e del presente non è più possibile. E quando sono perduti gli orizzonti di attesa e non si riesce più a guardare in avanti, la reazione più ovvia è quella di volgersi indietro. Nella destra del nuovo ciclo politico globale c’è una forte componente di desiderio di un ritorno al passato: la nazione contro la globalizzazione, la miracolosa scomparsa degli stranieri e la ricomparsa del mitico tempo in cui si poteva non chiudere a chiave le porte, la famiglia tradizionale e le donne che si prendono cura, la religione come fattore di identità e di ordine… E tutto questo è comunque utopia, un’ utopia che risponde alla crisi dell’illusione dell’autosufficienza dell’homo oeconomicus.

L’angolo di visuale femminista consente di vedere meglio di altri questa attitudine che forse chiamare conservatrice non è del tutto proprio e per la quale il termine reazionaria è più adeguato. Alla fine del mese di marzo ha avuto luogo a Verona il Congresso delle famiglie, un’assemblea periodica che riunisce gli avversari dei diritti delle donne e delle sessualità non conformi, compresi i protagonisti della Manif pour Tous nelle sue diverse versioni nazionali. Le presenze la dicono lunga sulla natura dell’assemblea: c’è chi dice che per il bene supremo della famiglia le donne dovrebbero essere sottomesse (Mario Adinolfi); chi chiede per gli omosessuali la pena di morte (Lucy Aiello); chi definisce le donne che abortiscono “assassine e cannibali” (Dimitri Smirnov). Ebbene, al Congresso, contestato da un’affollatissima manifestazione femminista, ha partecipato in pompa magna l’allora governo italiano nelle vesti dei ministri dell’Interno, dell’Istruzione e della Famiglia. Tutti della Lega o vicini alla Lega.

L’esempio di quel partito mostra come l’adeguarsi al presente può significare una dinamica in senso inverso all’emancipazione dal fascismo. La Lega non ha una matrice fascista. Al suo esordio molti la scambiarono per un movimento indipendentista alla catalana, si disse poi che in fondo l’autonomia regionale era stata tradizionalmente un obiettivo democratico e D’Alema la definì addirittura “costola della sinistra”. Il suo leader di allora si caratterizzò con dichiarazioni antifasciste numerose e perentorie e usò una volta l’espressione “porcilaia fascista”. L’attuale partito è il prodotto di un processo di fascistizzazione senza che questo consenta di poterlo definire fascista né post, perché non deriva (come il Fronte) da un primo nucleo di nostalgici del regime, né neo perché non rivendica un’appartenenza che sembra ancora considerare un insulto. Tuttavia, quando Salvini dice con sdegno apparente “mi hanno chiamato fascista”, invia un duplice e opposto messaggio: uno rassicurante a un pubblico più ampio, l’altra ai gruppuscoli alla sua destra con cui è in stretti e camerateschi rapporti. Non si può dire nemmeno, come sembra pensare Traverso, che Salvini sia l’erede di Berlusconi, da cui certo eredita lo stile populista e plebiscitario, ma con una carica eversiva e razzista ben maggiore di quella del maestro. La differenza non è di personalità. L’acquisizione di più evidenti tratti di estrema destra è stata determinata da una serie di fattori diversi. Prima di tutto e al di là delle illusioni della sinistra, l’autonomia regionale rivendicata dalla Lega è ancorata a destra da un nucleo di discorsi basati sulla differenziazione etnica di impronta antiuniversalistica. Basterebbe leggere “La svastica verde. Il lato oscuro del pensiero leghista” di Walter Peruzzi e Gianluca Paciucci per rendersi conto, attraverso la lettura di documenti ufficiali, della profondità del razzismo della prima Lega “costola della sinistra” e sedicente antifascista. Sono poi importanti la formazione politica del nuovo leader, le sue frequentazioni, i contatti con personalità e gruppi esplicitamente fascisti. Ma quel che più ha contato nel determinare sia la fascistizzazione sia l’ascesa elettorale è lo stato delle cose in un paese come l’Italia, in crisi economica e politica, preda delle mafie e in cui il centro della capitale ha gli stessi problemi di un’estrema periferia. E soprattutto orfana di una sinistra quale che sia. La questione della possibilità del fascismo non si identifica in Italia con le fortune o sfortune della Lega. Il partito di Salvini potrebbe conoscere un crollo di consensi, cosa improbabile ma che non può essere esclusa. Altre forze in questo caso occuperebbero quello spazio perché di queste forze, quale che fosse il nome che si darebbero, esistono già le narrazioni e una base disposta ad attivizzarsi.

Il neofascismo e i suoi equivalenti funzionali

Il libro di Ugo Palheta parte da altre preoccupazioni e propone quindi un altro approccio al problema. Principale oggetto dell’osservazione è, come per Traverso, il Fronte Nazionale, il partito di estrema destra che raccolto nelle ultime elezioni presidenziali francesi il 34 per cento al secondo turno. Palheta non esclude che il FN possa in futuro evolvere verso un partito di destra tradizionale. Il peso crescente degli eletti potrebbe mettere in moto un processo di notabilizzazione, che poco a poco porterebbe la sua direzione a subordinare il suo programma storico alla salvaguardia dei posti nelle istituzioni. Quello che invece Palheta respinge, con molti argomenti e un’ampia documentazione, è l’idea che le trasformazioni dell’estrema destra debbano coincidere con un processo di defascistizzazione. Allo stato attuale delle cose ma senza ipotecare il futuro, si tratta al contrario di un neofascismo in gestazione, di un vecchio fascismo che evolve verso un fascismo dal volto nuovo. Solo un brevissimo accenno è dedicato alla polemica con Traverso, che troppo presto avrebbe chiuso il doppio dibattito sulla caratterizzazione dei movimenti di estrema destra e della nostra situazione storica. E’ infatti sbagliato concentrare l’attenzione soprattutto sul FN perché così ci si condanna a non capire le forze sotterranee che sono il vettore della sua ascesa e che rinviano alla crisi del capitale neoliberista. Defascistizzazione o rifascistizzazione hanno ovviamente a che fare con l’attualità del pericolo fascista, che per Palheta deve essere misurata su tre dimensioni. Va misurata cioè sulla politica dei liberisti liberali di destra e di sinistra che hanno spianato il terreno all’estrema destra; sulla crisi di egemonia delle classi dominanti e sui suoi passibili esiti; sulla natura del FN e delle sue trasformazioni. I liberisti liberali non hanno solo messo in atto una politica di lacrime e sangue sul piano delle condizioni di esistenza delle classi popolari ma sono state anche costrette ad accentuare i caratteri autoritari dello Stato e a spostare l’agenda politica sul piano del nazionalismo, della xenofobia e del razzismo. Lo Stato francese che già dal 1958 è uno Stato forte – spiega Palheta – negli ultimi 15 anni ha radicalizzato i suoi tratti autoritari. Hollande ha prolungato l’eredità securitaria di Sarkozy, imponendo dopo il novembre 2015 uno stato di emergenza che si è concretizzato tra l’altro in brutali perquisizioni, di cui solo l’1 per cento ha prodotto capi d’accusa. Gli attentati sono stati utilizzati dallo stesso governo di sinistra per rafforzare le capacità reattive e preventive degli apparati repressivi dello Stato e Macron continua l’opera con la nuova legge che iscrive lo stato d’urgenza nel diritto comune. Anche da un altro punto di vista i liberisti-liberali hanno contribuito a creare il clima in cui il Fronte Nazionale ha potuto svilupparsi e prosperare. Le tensioni e i conflitti prodotti dall’offensiva neoliberista sono stati spostati sui piani che all’estrema destra sono più congeniali. Si comincia con Chirac, che giustifica la disoccupazione con l’immigrazione, si continua con Giscard che parla di “invasione” e si arriva a Sarkozy che tra il 2002 e il 2012 sistematizza la narrazione antimmigrati e antimusulmana.

Questa non è solo un diversivo, in cui il razzismo si mescola con il disprezzo di classe nei confronti delle racailles dei quartieri popolari, è anche il tentativo di creare una coalizione di interessi con un nemico comune su base nazionale/razziale. Non si tratta di un problema che riguardi la sola Francia, la tendenza a sbarazzarsi della democrazia è della borghesia su scala mondiale. Del resto, una delle caratteristiche della finanza deregolamentata è quella di sfuggire al controllo politico per la sua capacità di astrarsi da ogni ancoraggio territoriale. In quali circostanze questa tendenza può giungere alle conseguenze estreme di un regime fascista? La “traiettoria del disastro”, come nel sottotitolo del libro di Palheta, non è quella di un’evoluzione lineare dallo Stato autoritario al fascismo Stato autoritario ed egemonia di un discorso nazionalista e razzista creano le condizioni, ma servono poi scelte e decisioni dei cosiddetti poteri forti perché il salto si realizzi. La “possibilité du fascisme” può realizzarsi nel contesto non improbabile di un aggravarsi della crisi economica e politica.

Non si dovrebbe mai postulare – scrive Palheta – l’inesistenza di un pericolo fascista con l’argomento che la borghesia non ne avrebbe alcun bisogno e potrebbe considerarsi soddisfatta dei suoi rappresentanti politici organici, la destra tradizionale e il liberalismo autoritario. Questa idea deriva dal pregiudizio che il fascismo sia un puro e semplice strumento della borghesia, costruito e messo in sella dalle sue esigenze di sfruttamento e dominio. Negli ultimi decenni invece l’estrema destra è cresciuta e ha conquistato consenso elettorale spesso contro la volontà dei circoli dominanti, che hanno tutte le ragioni per temerne l’irrazionalità e gli effetti di radicalizzazione dei rapporti politici. Tuttavia se una formazione politica nazionalista e razzista, intenzionata a distruggere ciò che resta della democrazia, dimostrasse di essere l’unica capace di garantire la stabilità, è possibile che una parte decisiva dei poteri dominanti decida di affidarle per un certo periodo la gestione dei propri affari o la difesa della propria posizione.

Ma che cosa è il fascismo oggi? Se lo pensiamo con le caratteristiche del fascismo classico, allora certo i conti non tornano. Bisogna prima di tutto distinguere tra regime e movimento. Un regime può essere definito fascista, quando sopprime le libertà politiche e civili, fa ricorso alla repressione violenta contro ogni opposizione e ogni contropotere. In questo senso è un fenomeno transtorico, secondo Palheta ma anche secondo Traverso che giustamente chiama fascista il regime di Pinochet. Diverso è il discorso per un movimento o un partito che vive in una democrazia liberale o comunque in un ambiente che gli è ostile e in cui la definizione di fascista è stigmatizzante e utilizzata addirittura come insulto.

Se, come il Fronte Nazionale a un certo punto, sceglie come mezzo principale della propria ascesa le urne, allora l’esigenza di conquistare una rispettabilità è prioritaria e genera quello che in Italia si è chiamato “fascismo in doppiopetto”, cioè un fascismo che non sembra fascismo. Per la repulsione che provoca, soprattutto nella sua versione nazista, i dirigenti dell’estrema destra sono stati costretti a diventare maestri dell’arte oratoria, degli eufemismi, delle strizzatine d’occhio e di altri diversivi. Un primo effetto della tendenza ad assecondare l’acquisizione di un nuovo stile da parte del Fronte, è evidente. La tensione e la mobilitazione antifasciste, che avevano caratterizzato la prima fase della sua ascesa elettorale, sono progressivamente venute meno. Bisogna invece non abbassare la guardia di fronte alla possibilità di un ritorno del fascismo che è attuale, cioè possibile e non nel senso astratto per cui a questo mondo tutto è possibile, ma nel senso della possibilità concreta. Attuale non vuol dire imminente, così come chiamare in causa il liberismo-liberale non significa stabilire un’equivalenza, significa rispondere a un fondato timore di Traverso per cui in nome di un pericolo fascista, non imminente e non certo, si rischia di cedere al ricatto di Macron o del PD che si presentano come alternativa all’estrema destra. Segue a questi argomenti e a molti altri (il libro di Palheta ha 260 pagine) un attento esame del Fronte Nazionale con la premessa che il ritorno del fascismo non sarebbe comunque la ripetizione dell’identico. La storia non serve sempre gli stessi piatti, conditi alla stessa maniera, nello stesso ordine e con gli stessi nomi nel menu. Per introdurre l’argomento Palheta ricorre al concetto di “equivalente funzionale”, coniato dallo storico Robert Paxton e che sembra un’implicita risposta a Traverso. E’ vero dell’islamofobia non si può dire che sia un surrogato o una riformulazione dell’antisemitismo, si può dire invece che sia un equivalente funzionale, cioè che abbia la stessa funzione di creazione di un nemico interno proprio nel senso dell’ideologia fascista. L’abbandono dell’antisemitismo (ma il 40 per cento dei simpatizzanti del Fronte ha i pregiudizi tradizionali verso gli ebrei) è servito a giustificare l’islamofobia come “razzismo rispettabile” con l’avallo dei liberisti-liberali di destra e di sinistra. La funzione che il Fronte attribuisce al nazionalismo xenofobo e razzista, e l’uso politico che ne viene fatto, sono del tutto all’interno dell’ideologia fascista, la cui sostanza non è poi così diversa dal fascismo classico.

L’ideologia fascista promette in genere la rigenerazione di una comunità immaginaria considerata come organica (nazione, razza, civiltà) attraverso la purificazione etnorazziale e l’annientamento di ogni forma di conflitto sociale e di ogni contestazione (politica, religiosa, artistica) e l’eliminazione di tutto ciò che mette in pericolo la sua unità immaginaria. La comunità mitificata non è necessariamente biologica, può essere politica, etnolinguistica o religiosa. A dire il vero questa descrizione dell’ideologia fascista si adatta a realtà molto diverse tra loro, ma Palheta spiega poi il rapporto tra la comunità immaginaria e la crisi delle forme tradizionali di egemonia del capitalismo, quelle appunto che gli sono più congeniali. L’idea che la violenza fascista abbia la sua origine nella brutalizzazione dei conflitti politici iniziata con la Grande Guerra risponde a verità, così come la constatazione che nulla di simile esiste oggi in Europa. Ma, se si scava un po’ più a fondo, si individuano gli “equivalenti funzionali”, cioè le forme nuove o latenti di violenza. Per esempio le logiche della disumanizzazione del nemico e del e del trattamento d’eccezione che coniugano la violenza con il razzismo. E per esempio la delega della violenza ai gruppuscoli ai margini del Fronte, che si è talvolta felicitato delle loro imprese. Ma esiste soprattutto un altro modo in cui il partito di Marine Le Pen può esercitare la violenza: il Fronte ha una notevole presenza negli apparati repressivi dello Stato, in modo particolare nei più violenti. Questo fatto può anche rendere superflua la creazione di milizie incaricate della repressione degli oppositori. Palheta riserva poi uno spazio adeguato a smontare alcuni luoghi comuni sull’impianto sociale del Fronte con ragionamenti che non è possibile qui riportare, ma che restituiscono l’immagine di un partito con ancoraggio nelle classi medie. Tra gli operai primo partito è l’astensionismo, mentre solo 1 operaio su 7 ha votato per l’estrema destra. Anche se, e la cosa non è priva di significati, tra gli operai che votano il Fronte è in maggioranza ( i dati sono delle elezioni regionali del 2015). Tra parentesi: l’aspetto sociale del fascismo non è una novità. Lo squadrismo contro le lotte operaie e popolari si è accompagnato talvolta all’agitazione di temi sociali, coerentemente con l’ideologia di uno Stato-Nazione capace di armonizzare interessi operai e padronali.

Il fascismo diffuso

Malgrado la molta carne messa al fuoco, la tesi di Palheta è lineare. Esiste in Francia un pericolo fascista che può essere evitato, prima di tutto se lo si riconosce come tale e gli si dà il suo nome. Il rischio è che la tuta mimetica indossata dal Front National, divenuto di recente Ressemblement National, lo renda a troppi non riconoscibile. Non è saggio invece ridurre il perimetro del fascismo ai gruppuscoli più radicali: della flotta fascista il Fronte è la nave ammiraglia, la cui potenza dà fiducia alle piccole imbarcazioni che le gravitano intorno. La presenza di un’estrema destra agguerrita e con un forte consenso elettorale assume il suo significato di disastro possibile, se lo si accosta alla profondità della crisi economica e politica, nel cui contesto una pacifica alternanza tra partiti tradizionali al governo appare tra le varie ipotesi la meno probabile.
L’ampiezza della documentazione e la solidità degli argomenti del libro non risolvono del tutto i problemi, soprattutto se si considerano altre destre radicali e altri contesti. Palheta rappresenta dinamiche altrettanto instabili e incerte di quelle descritte da Traverso e che spiegano perché fissarsi su una definizione è difficile. Traverso ipotizza un postfascismo destinato a diventare qualcosa il cui nome non è ancora scritto, ma non esclude che possa diventare neo. Palheta sottolinea gli aspetti che lo rendono neo, ma non esclude che possa trasformarsi in post.

Inoltre alcune caratteristiche che Palheta considera testimonianza di una natura fascista possono caratterizzare anche forze politiche che sarebbe un grave abuso chiamare fasciste. Il Movimento 5 Stelle per esempio definisce se stesso “né di destra né di sinistra” ed è evidentemente sia di destra sia di sinistra e la parte di destra non è certo moderata. Anna Maria Rivera in una discussione sul “nuovo ciclo politico globale” al Giardino dei Ciliegi di Firenze ha ricordato il lungo passo del Mein Kampf contro i “giullari del parlamentarismo” pubblicato nel blog di Grillo, l’11 febbraio del 2006, le invettive contro i Rom romeni, la mano tesa a Casa Pound. L’antifascismo non è un problema che mi compete, rassicura Grillo. Anche l’efficace descrizione della comunità mistificata non si adatta solo al fascismo ma anche ad alcune forme di integralismo e di totalitarismo.
Esiste poi in Italia nella sinistra radicale un problema opposto a quello di non riconoscere e nominare il fascismo, cioè quello di farne un uso estensivo ed eccessivo, con l’effetto di banalizzarlo e di dargli un’immagine meno minacciosa che nella realtà.

In Italia perfino la “nave ammiraglia”, la Lega, pone qualche problema. Il doppio gioco non è senza conseguenze sulle convinzioni dei militanti e dei simpatizzanti, spesso confuse. Un piccolo episodio significa forse qualcosa. Nel mese di settembre il giornalista Gad Lerner, esperto di vicende leghiste, si è recato a un raduno della Lega in cui è stato accolto con fischi e invettive. Un militante gli si è avvicinato, rimproverandolo per aver definito il suo partito (e quindi lui stesso) fascista e pretendendo le scuse. Nello stesso momento, pronunciata con un tono d’insulto, si è sentita la parola “ebreo” e Lerner appartiene davvero a una famiglia di religione ebraica.

C’è poi un problema di credibilità. Pochi considerano appropriato per la Lega la definizione di fascista, non più comunque di quelli disposti a credere a Berlusconi, quando chiama il PD comunista. La tendenza a considerare “fascista” più l’insulto di avversari politici che la realtà si estende perfino al partito erede del Movimento Sociale, fondato dall’uomo che firmò le leggi fasciste contro gli ebrei. La sua leader a chi l’accusa di aver reso omaggio ai convenuti di Verona, che aspirano a rimandare le donne a casa, risponde portando se stessa e il proprio ruolo come testimonianza di una calunnia. Incita un’assemblea di partito ad applaudire un avversario politico e chiama gli uomini del nuovo governo “ladri di democrazia”. E non senza un certo fondamento.

Infine il potere stigmatizzante dell’appellativo “fascista” da tempo ha perso forza in Italia. Per altro per una ventina d’anni (o poco meno) dopo la seconda guerra mondiale l’antifascismo è stato assai debole per il timore del partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, di riconoscere meriti al Partito Comunista, protagonista della Resistenza. L’Italia è diventata antifascista dalla metà degli anni Sessanta, anche in seguito alle stragi fasciste, che oggi la maggioranza degli Italiani attribuisce alle Brigate Rosse. Il berlusconismo ha operato una vera e propria devastazione della memoria, anche quando la destra non è stata al governo, grazie al controllo diretto e indiretto di gran parte dei mezzi di comunicazione.

Queste considerazioni non tolgono nulla alla validità degli argomenti di chi teme in prospettiva la minaccia fascista. Servono solo a far presente una prima esigenza. Certo si tratta di mobilitarsi contro partiti e governi ma soprattutto contro un fenomeno che potremmo chiamare di “fascismo diffuso”, cioè contro le narrazioni e le pratiche che ne costituiscono le basi e le premesse e che vivono nella società italiana a prescindere dalla condensazione in partiti e movimenti.