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Le elezioni presidenziali del 20 ottobre hanno fatto precipitare la Bolivia in una crisi politica. In quell’occasione il presidente Evo Morales  si è presentato per un quarto mandato in quella che è stata la competizione elettorale più combattuta dal suo arrivo al Palacio Quemado [nome storico della residenza presidenziale di La Paz, il termine “palazzo bruciato” ha avuto origine nell’incendio dell’edificio nel 1875] nel gennaio 2006, con il 54% dei voti. Da allora, il “primo presidente indigeno” ha trionfato, elezione dopo elezione, con oltre il 60% dei voti, con grandi vantaggi di voti rispetto ai suoi oppositori. Come nessun altro dei suoi predecessori, Morales è stato capace di instaurare legami profondi con la Bolivia indigena e popolare. Ma questa volta la situazione era diversa: per la prima volta c’era la possibilità concreta del rinvio dell’elezione ad un secondo turno. Per evitarlo, Morales doveva ottenere più del 50% dei voti o almeno il  40% con una differenza di dieci punti sul secondo.

La notte delle elezioni del 20 ottobre si è conclusa con la prospettiva di un probabile ballottaggio. Tuttavia, la Trasmissione dei risultati elettorali preliminari (TREP- Transmisión Resultados Resultados Electorales Preliminares) veniva interrotta quando il conteggio ha raggiunto l’83% del totale dei votanti.  A quel momento il divario tra Evo Morales e Carlos Mesa Gisbert [già Presidente della Repubblica dal 2003 al 2005] era di sette punti. Il sondaggio effettuato all’uscita dei seggi dell’Istituto Viaciencia – l’unico autorizzato – dava risultati simili. Il giorno successivo, quando il TREP è stato completato, è stata annunciata una serrata vittoria al primo turno per Evo Morales. Queste cifre sono state confermate pochi giorni dopo dal conteggio ufficiale, che ha registrato il 47,08% dei voti per Morales e il 36,51% per Carlos Mesa, con una differenza di 10,54 punti percentuali, 0,57 in più del necessario (10%) per vincere al primo turno.

Cosa è successo dopo? Da un lato, l’opposizione era evidentemente già pronta a denunciare la frode se lo scenario non si fosse concluso con il rinvio ad un ballottaggio. Ma la sospensione del TREP e l’aumento significativo della percentuale di Morales, così come il margine esiguo con il quale ha raggiunto la formula “40 più 10”, hanno contribuito a convincere, in un clima di forte polarizzazione, metà dei Boliviani che ci sia stata  una manomissione dei risultati )e ciò al di là della possibilità che venisse confermato, voto per voto, attraverso l’analisi dei voti nei seggi elettorali – pubblicati su Internet), e che il presidente è ricorso ad ogni mezzo per rimanere al potere.

Il fatto che un conteggio rapido secondo la procedura TREP non raggiunga il 100 per cento non è  di per sé necessariamente allarmante. Ma, come ha dimostrato il giornalista Fernando Molina, il Tribunale Elettorale Supremo (TSE) e il governo hanno fornito almeno quattro diverse spiegazioni per giustificare la sospensione del conteggio: che non volevano che il conteggio rapido del TREP si sovrapponesse al conteggio ufficiale – già in corso a quel momento; che vi era una minaccia di attacco informatico e che l’interruzione era stata decisa per motivi di sicurezza; che il conteggio si interrompe sempre dopo lo scrutinio di circa l’80% dei votanti; che il 17% dei risultati non è stato incluso perché le aree remote che mancavano non dispongono di Internet per inviare i risultati in questa modalità.

A peggiorare le cose, il vicepresidente del TSE Antonio Costas si è dimesso, dichiarando di non essere stato consultato o informato in merito all’ordine di bloccare il TREP e ha dichiarato che “non è stata una buona decisione“. Le sue dimissioni restano enigmatiche: ha affermato che le ha presentate per una questione di principio, ma che non vi è stata manipolazione dei risultati. Allo stesso tempo, il governo ha accusato l’opposizione “razzista” di voler eludere il voto rurale [cioè la componente indigena], un voto che spiegherebbe l’avanzata del candidato del Movimento verso il socialismo (MAS) nell’ultima parte dei risultati definitivi trasmessi.

Al di là della “sottile” discussione sullo scrutinio – il governo ha proposto un audit dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) – ci sono tre problemi di fondo che aiutano a comprendere i retroscena di una crisi che sta causando un profondo divario tra la Bolivia rurale e quella urbana, con scontri anche fisici.

l Evo Morales si è presentato a queste elezioni con una legittimità erosa dalla sconfitta del referendum del 21 febbraio 2016 (21F), quando la sua proposta di modifica costituzionale per consentire una rielezione del presidente a tempo indeterminato è stata, seppur di poco, respinta. Dopo questa battuta d’arresto, il partito al potere ha passato mesi a valutare “altri mezzi” per rieleggerlo e l’ha ottenuto attraverso una decisione della Corte Costituzionale Plurinazionale [termine che si riferisce al riconoscimento della composizione plurinazionale della popolazione della Bolivia.]. Per questo, la denuncia di frode – che dovrebbe essere provata – si confonde adesso con la denuncia dell'”illegittimità” di Morales a candidarsi alle elezioni: tutto ciò crea una confusione di difficile soluzione. Per “cancellare” il più a fondo possibile i risultati del referendum, il presidente boliviano aveva bisogno di una vittoria clamorosa. Ma anche se ha conseguito un certo vantaggio sul candidato Mesa, ha superato di assai poco la barriera magica dei dieci punti di differenza che gli hanno così permesso di evitare un ballottaggio nel quale vi era la possibilità che uscisse sconfitto. In altre parole, questo risultato non solo non ha fatto dimenticare il 21F, ma lo ha anche riportato, in una forma ancora più accentuata e pericolosa, nell’attuale fase politica.

l Il MAS non riesce a concepire nella propria riflessione politica la possibilità di perdere il potere come qualcosa di diverso da un evento catastrofico. Evo Morales non ha mai rinunciato facilmente alle cariche che ha ricoperto: è stato l’unico deputato del MAS ad avere la possibilità di essere rieletto per un periodo indefinito e che, anche dopo aver conquistato la presidenza, è rimasto il più alto dirigente della Federación Especial de Trabajadores Campesinos del Trópico de Cochabamba (l’organizzazione che struttura i produttori di coca nella regione). In questo senso, nonostante il discorso ufficiale, Morales non è mai stato “un semplice contadino”. E più recentemente, la sua immagine è stata presentata come quella di un leader eccezionale: “C’è un solo Fidel, un Gandhi, un Mandela e un Evo”, ha dichiarato l’ex Ministro degli Affari Esteri dal 2006 al 2017 David Choquehuanca, attualmente Segretario dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe. Tutto ciò, unitamente ad una “idea classica” della rivoluzione, sebbene realizzata in un quadro democratico, rappresenta un ostacolo ad una concezione di fondo di alternanza democratica, nella quale il MAS, asse fondamentale di un’opposizione, lotterebbe, in caso di sconfitta, contro ogni tentativo di indebolire le innegabili conquiste sociali, materiali e simboliche di questi 14 anni di “Rivoluzione democratica e culturale”. La democrazia seguirebbe così la metafora del tram, in cui qualcuno sale a bordo, arriva a destinazione (lo Stato) e scende.

l All’interno di un’opposizione generalmente democratica più forte che in passato (lo stesso Mesa è un moderato centrista), si manifestano oggi gruppi radicali portatori di discorsi vendicativi, razzisti e violenti. La ricomparsa di personaggi inquietanti del passato, come l’ex ministro Carlos Sánchez Berzaín – fuggito negli Stati Uniti in seguito alla sua responsabilità nel massacro di civili durante la guerra del gas – non aiuta l’opposizione e rafforza il discorso ufficiale contro un “ritorno al passato” [1]. La decisione del nuovo Comitato per la Difesa della Democrazia (Conade), che riunisce le principali forze dell’opposizione, di respingere l’audit internazionale e lottare per l’annullamento delle elezioni può anche contribuire a radicalizzare la situazione, forse con poche possibilità di vittoria dell’opposizione (stranamente, la Bolivia è l’unico paese della regione dove il segretario generale dell’OAS Luis Almagro (uruguaiano) è considerato da molti membri dell’opposizione come “populista”, quasi chavista, per aver approvato l’elezione di Morales).

In questo contesto, la Bolivia potrebbe orientarsi verso una versione soft di quanto accaduto in Venezuela: una situazione in cui il governo si impone, ma con forti deficit di legittimità, in un contesto di reciproca ignoranza tra ufficialismo e opposizione e con una radicalizzazione di quest’ultima. Tuttavia, come ha scritto Fernando Molina, è vero che il livello di violenza in Bolivia è molto più basso. Non c’è crisi economica (al contrario, la situazione macroeconomica è uno dei punti di forza di Morales) e la classe politica è più pragmatica e meno ideologica di quella venezuelana.

Tuttavia, c’è il rischio di polarizzazione e scontri per le strade tra il partito al potere e gli oppositori, così come l’uso eccessivo da parte dello stato dei movimenti sociali utilizzati come forza d’urto contro chi protesta; infatti, ci sono già stati diversi feriti [a Cochabamba, Santa Cruz – la base dell’opposizione – e nella capitale La Paz, nella sua parte “meno indigena”]. Morales ha risposto facendo ricorso alla stessa formula di Lenín Moreno[Ecuador] o Sebastián Piñera[Cile] – colpo di stato, destabilizzazione – e qualificando Mesa di “delinquente”. Ha accusato i giovani studenti di protestare per denaro o per “i voti” (un presunto e non dimostrato vantaggio degli studenti universitari che partecipano alle manifestazioni). Ha posto il suo discorso sul terreno della dicotomia “patria o morte”. Tutto questo avviene dopo una campagna elettorale che si è concentrata molto sul ruolo dello Stato, durante la quale i movimenti sociali, senza il prestigio di un tempo, si sono limitati a realizzare le iniziative delineate dall’apparato statale, con la sua inerzia e le sue tradizionali forme di conservazione del potere. L’opposizione, da parte sua, respinge l’audit e chiede la “radicalizzazione” dei blocchi e degli scioperi nelle città per “soffocare lo stato” (infatti, alcuni seggi locali del tribunale elettorale sono già stati bruciati).

È significativo che personalità come l’argentino Juan Grabois [avvocato, accademico e leader del Movimento dei lavoratori esclusi e della Confederazione dei lavoratori dell’economia popolare] sostengano che ogni battaglia che si concentra sul risultato elettorale dovrebbe essere liquidata in nome della “stabilità sudamericana” (una frase curiosa sulla bocca di un leader sociale). Questa è l’altra faccia della medaglia per coloro che hanno iniziato a denunciare le frodi prima che i voti iniziassero ad essere contati. La verità è che Morales ha avuto una legittimità molto alta durante i suoi 14 anni di governo (arrivando a vincere, nel 2014, persino nella regione di Santa Cruz, bastione dell’opposizione). L’erosione della sua legittimità è in gran parte dovuta alla decisione di non rispettare i risultati del referendum.

Tutto questo rappresenta senza dubbio una cattiva notizia, in un contesto in cui la crisi dell'”oasi” cilena (con la sua combinazione di disuguaglianze, la colonizzazione mercantile in tutte le dimensioni della vita sociale e la permanenza di vecchi poteri gerarchici) e il trionfo del Frente de Todos [Alberto Fernandez] in Argentina sembrano dare una nuova possibilità ai “progressisti” latinoamericani.

*Pablo Stefanoni è redattore capo della rivista Nueva Sociedad. Questo articolo è stato pubblicato sul sito web della rivista Nueva Sociedad, 30 ottobre 2019; la traduzione in italiano è stata realizzata a partire dalla versione francese apparsa sul sito www.alencontre.org.

1. Carlos Sánchez Berzaín è stato, tra l’altro, ministro della Difesa sotto la presidenza di Gonzalo Sánchez de Lozada. Quest’ultimo ha esercitato la presidenza dal 1993 al 1997. Ha dovuto dimettersi durante il suo secondo mandato (agosto 2002-17 ottobre 2003), in seguito al massacro di civili commesso nell’ambito della cosiddetta Guerra del Gas del 2003, conflitto che si riferiva al problema dell’uso e del controllo delle riserve di gas scoperto negli anni ’90 nel dipartimento di Tarija.