Per avere una possibilità su due di rimanere al di sotto di un aumento di 1,5°C della temperatura media terrestre senza ricorrere ai pericolosi “rimedi” della geoingegneria, è imperativo ridurre drasticamente le emissioni di gas serra (GHG) nel breve termine: – 58% nel 2030 rispetto al 2010 (1). Tale riduzione delle emissioni sarà possibile solo riducendo di cinque volte l’uso di combustibili fossili, che oggi coprono l’80% del fabbisogno energetico mondiale.
La produzione di energia deve ovviamente passare alle energie rinnovabili, ma è impossibile non ridurre il consumo energetico complessivo e quindi la produzione materiale e i trasporti. Produrre e trasportare meno condividendo di più per vivere meglio tutti: è possibile. Abolire la produzione di armi, fertilizzanti chimici e biocidi, abolire la pubblicità, ridurre la produzione di plastica, ridurre e trasformare la produzione di veicoli, porre fine all’obsolescenza programmata, sostituire l’agroindustria con l’agricoltura ecologica e contadina, smettere di trasportare merci in tutto il mondo al solo scopo di mettere i lavoratori in concorrenza tra loro… non nuocerebbe per nulla al nostro benessere, anzi; permetterebbe invece di porre fine allo spreco di risorse naturali e di lavoro umano.
I salariati hanno finora pagato a caro prezzo le riorganizzazioni dell’apparato produttivo, in termini di licenziamenti e intensificazione, flessibilità, frammentazione e dequalificazione del loro lavoro. L’indispensabile e urgente trasformazione ecologica potrà avvenire solo con la partecipazione attiva degli stessi sfruttati. Devono coglierla e imporre il loro controllo democratico e auto-organizzato. Una riduzione immediata, massiccia e collettiva dell’orario di lavoro, senza diminuzione di salario, senza intensificazione dei compiti, permette di colmare il divario tra le emergenze sociali (lavorare tutti, di meno e in modo meno intenso, in modo diverso) ed ecologiche (produrre meno e diversamente, per rispondere ai reali bisogni sociali).
Un tale obiettivo implica certamente una modificazione fondamentale degli equilibri di potere a favore degli sfruttati, ma contribuisce anche alla ricostruzione di un progetto sociale, di un orizzonte auspicabile, essenziale per la rimobilitazione di un movimento operaio che deve ricomporsi e ricostruirsi su basi che integrino pienamente gli imperativi ecologici.
Una questione decisiva per il lavoro non retribuito
Al di fuori del lavoro retribuito, vi è naturalmente il tempo libero, ma anche il lavoro invisibile e non retribuito, la maggior parte del quale è svolto dalle donne. In tutto il mondo, le donne dedicano 2,5 ore al giorno in più degli uomini in questo lavoro (2), con grandi disparità tra i paesi: da 4,3 a 5 ore in più per le donne messicane e indiane a 1 ora in più per le donne dei paesi del Nord Europa.
In Francia, ad esempio, secondo gli ultimi dati disponibili (3), nel 2010 le donne hanno svolto il 71% dei compiti domestici (cucina, stoviglie, pulizie, lavanderia, spese, compiti amministrativi, attività di semi-tempo libero come il fai da te, il giardinaggio, la cura degli animali domestici) e il 65% dei compiti parentali (assistenza, aiuto per i compiti a casa, tempo libero e socialità, trasporti). Trascorrono in media 183 minuti al giorno per le attività domestiche e 95 minuti per le attività parentali, per un totale di 4 ore e 38 minuti al giorno, circa la metà rispetto agli uomini che trascorrono in media 2 ore e 26 minuti (105 minuti per i lavori domestici e 41 minuti per i bambini). E all’interno di questi compiti, la distribuzione è chiara: le donne sono responsabili della pulizia, del bucato e della cucina; gli uomini dei compiti più occasionali e più gratificanti come il fai da te o il giardinaggio.
Questo lavoro, gratuito ed effettuato a favore del settore privato, rimane invisibile. Eppure produce i valori d’uso necessari per riprodurre e prendersi cura degli esseri umani nel corso della loro vita. La semplice enumerazione dei compiti è sufficiente a dimostrare quanto la riproduzione sociale sia essenziale per la vita.
Essenziale lo è anche per i capitalisti…per riprodurre la forza lavoro. Imporne le condizioni- sia all’interno della famiglia o attraverso servizi pubblici e, soprattutto, privati – e ridurne i costi è una sfida importante per loro. Le politiche neoliberali non solo ristrutturano la produzione, ma anche la riproduzione sociale e cercano di distruggere i servizi pubblici e di trasferire l’onere della riproduzione sociale sulle donne e sui servizi mercantili.
Il femminismo ha evidenziato il legame tra la svalutazione dei compiti riproduttivi e la svalutazione dello status sociale delle donne. Lo sfruttamento capitalista e l’oppressione delle donne si combinano e si rafforzano.
Gli ecosocialisti non possono accontentarsi né della resa visibile di questo lavoro attribuendogli un salario, né della sua mercificazione. Un “salario materno”, come richiesto dall’estrema destra, o addirittura un “salario domestico” richiesto da alcuni movimenti femministi, o, ancora, un “reddito universale”, porterebbe all’ulteriore “naturalizzazione” della riproduzione sociale come “femminile” e a condannarvi le donne. La crescente mercificazione del lavoro riproduttivo aggrava le disuguaglianze, l’oppressione di genere e l’oppressione razzista, come dimostra il crescente uso di servizi domestici retribuiti da parte delle famiglie benestanti, spesso da parte delle donne migranti.
Giustizia sociale e riproduttiva
Una risposta politica adeguata deve combinare socializzazione e la lotta contro l’oppressione, le discriminazioni e quindi l’attribuzione di genere.
Oggi, “i settori prevalentemente femminili dell’istruzione, dell’assistenza, del lavoro sociale o delle pulizie sono la pietra angolare invisibile delle società liberali insieme al loro vagone di scopa”. “Donne e dipendenti, una doppia giornata di lavoro e un reddito modesto, tengono a braccetto la struttura mangiata dai vermi dello stato sociale” (4). Le donne sono fortemente impegnate nei servizi diretti ai singoli individui, generalmente a casa (aiuto domestico, assistenza materna o domestica, ecc.), in istituzioni sanitarie pubbliche o private, sociali ed educative (badanti, assistenti, assistenti sociali ed educative, ecc.), dove spesso combinano condizioni di lavoro precarie, orari di lavoro variabili, devalorizzazione, ecc.
Contemporaneamente all’urgente necessità di ridurre la produzione materiale, deve essere riconosciuta la centralità sociale ed economica del lavoro di cura. Questo significa rompere con due aspetti del discorso dominante. Il primo quello che afferma che si tratterebbe di “spese”, “costi”, quindi da limitare con drastiche politiche di austerità; il secondo suggerisce che non sono proprio dei lavori, ma l’esercizio di qualità naturalmente femminili di attenzione, di empatia che non giustificano un riconoscimento.
Concretamente è necessario fermare la distruzione della protezione sociale e dei servizi pubblici. Abbiamo bisogno di servizi sociali trasformati ed estesi. Con urgenza, abbiamo bisogno di servizi per la prima infanzia, per l’assistenza agli anziani o ai malati, ai disabili, ma anche, ad esempio, ristoranti/cucine comunitarie. Questi servizi devono essere gratuiti, in quanto solo in questo modo è possibile garantire la parità di accesso. Devono anche essere misti, autogestiti congiuntamente da utenti e dipendenti per consentire loro di “fare bene il proprio lavoro” e di porre fine ad una delle principali fonti di sofferenza sul lavoro: l’impedimento di realizzare un “lavoro ben fatto” per mancanza di finanziamenti, di tempo e di un’organizzazione coerente.
Come scrive Silvia Federici: “È necessario riaprire il lavoro di lotta collettiva sui compiti riproduttivi, riprendere il controllo delle condizioni materiali della riproduzione sociale, inventare nuove forme di cooperazione che sfuggono alla logica del capitale e del mercato”. L’obiettivo è quello di aprire “la possibilità di un’altra economia capace di trasformare questa attività soffocante e discriminatoria del lavoro riproduttivo in uno dei campi di sperimentazione più liberi e creativi per le relazioni umane”.
Si tratta di rimettere il mondo al suo posto, mettendo al centro ciò che riguarda le cure umane, della vita e non la corsa al profitto. Si tratta anche di condividere questi compiti in modo che la nostra interdipendenza non sia più sinonimo di oppressione delle donne. Allora, la riduzione dell’orario di lavoro sarà effettiva per tutte e tutti, e rappresenterà la vera ricchezza: il regno del tempo libero.
*Christine Poupin lavora nell’industria chimica. È una delle portavoce dell’NPA (Nouveau Parti Anticapitaliste). La traduzione in francese è stata curata dalla redazione di Solidrietà.
1. Rapporto IPCC SR15, ottobre 2019.
2. Relazione OCSE
3. Économie et statistique nº 478-479-480, 2015
4. Pierre Rimbert (Monde Diplomatique, gennaio 2019)