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Ci risiamo: per far passare la quarta tornata di sgravi alle aziende e ai benestanti i cittadini vengono sottoposti al solito abile mix di ricatti e bufale. Stavolta però i sostenitori dell’ennesimo regalo fiscale hanno fatto un “salto di qualità”: ringalluzziti dalle ultime votazioni sul tema hanno deciso di non più legare a filo doppio i vari temi e di passare al ricatto diretto. “Se non verranno approvati gli sgravi tagliamo i fondi previsti per la pubblica educazione e le misure sociali”, hanno tuonato senza vergogna gli esponenti della destra. È un po’ lo stesso principio del “pizzo”: se paghi ti lascio tranquillo, altrimenti ti rendo la vita impossibile.

Già il fatto che la maggioranza dei partiti continui a sostenere la teoria dello “sgocciolamento della ricchezza verso il basso” quando tutte le cifre attestano il contrario è grave, ma prendere in ostaggio le famiglie in difficoltà e la scuola per ottenere gli sgravi per gli amici e gli amici degli amici significa davvero toccare il fondo. Questo degrado del dibattito politico non arriva come un fulmine a ciel sereno: una grossa responsabilità la portano quei politici e quelle associazioni che hanno accettato nel recente passato di vendersi “il bene comune” per interessi di bottega.

Ormai il Ticino tutto intero è assuefatto a questi metodi vergognosi per uno stato democratico, tanto è vero che nessuno dei commentatori nostrani ha sottolineato lo spettacolo indegno andato in onda in Gran Consiglio in occasione del dibattito sulla Riforma fiscale. Anzi, c’è chi ha reagito stizzito alle critiche rivolte all’inciucio del “governo coeso” lasciando intendere che il ruolo del Parlamento debba ridursi a quello di passacarte e che l’opposizione sia non solo fastidiosa, ma dannosa.

Questo inasprimento di toni e metodi denota un evidente nervosismo da parte dei promotori della solita politica del “piove sul bagnato”: in caso di referendum l’esito è più che mai incerto visto che l’ultima riforma fiscale cantonale è passata con soli 193 voti di scarto. Probabilmente in molti ora si pentono di aver deciso mesi orsono per tre progetti distinti. Dalle elezioni federali i partiti al governo a Bellinzona e Berna sono usciti decisamente ammaccati, segno forse di una certa insofferenza degli elettori verso i soliti accordi di palazzo che ci vengono immancabilmente pubblicizzati come “soluzioni equilibrate e lungimiranti”. Questa è la quarta volta in meno di tre anni che, in cambio dei regali fiscali ai soliti noti, si promettono benefici “per il lavoro e le famiglie” rivelatesi poi crasse bufale. Le argomentazioni, sempre le stesse, appaiono sempre più deboli e saltano subito all’occhio incongruenze e contraddizioni.

Cifre superate e irrealistiche

La nuova Riforma fiscale presentata da Christian Vitta è l’applicazione a livello cantonale della Riforma fiscale e finanziamento dell’AVS (RFFA) che – almeno ufficialmente – aveva lo scopo di salvare gli introiti fiscali delle società a statuto speciale e il loro mitico indotto. Nel messaggio governativo, al capitolo “2.2.3 Rilevanza delle società a statuto speciale per il Ticino”, figurano però cifre obsolete. I dati sui quali si basano i calcoli del governo riguardano il 2016, sono anteriori alla partenza di Armani e soprattutto della Luxury Goods International (LGI), a cui per anni le autorità hanno perdonato tutto – dalle condizioni di lavoro e salariali ignobili alle false residenze dei manager- con la sola scusante che era il miglior contribuente del cantone. Ora che la tanto osannata e coccolata “gallina dalle uova d’oro” della moda sta abbandonando il Ticino, la situazione è radicalmente mutata. Ricordiamo che a Cadempino, dove avevano sede la LGI e altre società affiliate, la delocalizzazione in Italia di 150 dipendenti amministrativi ha causato un crollo del gettito fiscale del 90%. Anche l’ecomostro di Sant’Antonino sarà smantellato e verranno licenziati 400 dipendenti e da 200 a 500 interinali, con conseguenze inevitabili per le casse del comune e del cantone. Eppure il governo cita imperterrito le cifre di un’epoca in cui ancora si illudeva di fare della moda un settore chiave dell’economia cantonale, degno addirittura di diventare un’antenna del parco nazionale dell’innovazione.

Da notare che sia Armani che LGI hanno delocalizzato le loro sedi in Italia, dove l’imposizione è nettamente più alta già attualmente rispetto al Ticino. Lo aveva fatto notare anche Marco Bernasconi in un’intervista alla Regione (1): “c’è una tendenza da parte delle società a statuto speciale a lasciare il cantone per tornare nei loro Paesi di provenienza. Fino a qualche anno fa si pensava che il motivo della partenza poteva essere le aliquote molte alte del Ticino rispetto ad altri cantoni. Ma adesso si assiste a delle uscite non verso altri cantoni, ma verso l’estero». E in merito alle stime delle perdite fiscali dovute ai nuovi sgravi, Bernasconi aveva aggiunto: “le ipotesi di Vitta si basavano in una certa presunzione che queste società a statuto speciale mantenessero la sede in Ticino. Ora bisognerà rivedere un po’ i calcoli “.

E invece niente: non solo il Consiglio di Stato si basa su cifre anacronistiche, ma formula anche ipotesi irrealistiche. Stavolta, e non a caso, nemmeno gli esperti di architettura fiscale sostengono la riforma.

“Angoscia aziendale”

“Occorre agire e svelto per evitare la fuga di aziende”, ci dicono in coro da anni i promotori degli sgravi. Questa “angoscia aziendale”, che riemerge ad ogni votazione sugli sgravi, mal si sposa però con gli entusiastici studi presentati dalle associazioni economiche e la propaganda del governo che ci raccontano di “poderose crescite” e “successi economici” in questo triangolino di terra a sud delle Alpi. La crescita c’è stata eccome ed è attestata dalle cifre ufficiali. “Tra il 2011 e il 2015 l’economia ticinese è cresciuta. Il PIL (nominale) è aumentato dell’8,0%, le aziende hanno fatto un balzo del 17,1% e gli addetti e i posti di lavoro sono cresciuti rispettivamente dell’8,7% e del 7,4%. Confrontando questi risultati con quelli degli altri cantoni, si scopre che quella ticinese è stata l’economia più dinamica in Svizzera sia per aumento relativo di aziende, con un tasso di crescita circa tre volte e mezzo quello nazionale, sia per variazione di addetti e di posti di lavoro, con tassi quasi doppi rispetto a quelli segnati dall’insieme del paese” (2), precisa uno studio dell’Ufficio cantonale di statistica . Le aziende sono aumentate molto più che in “paradisi fiscali” come Zugo, Lucerna o Nidvaldo. Il nostro cantone quindi è fin troppo attrattivo anche con l’attuale aliquota, malgrado i costanti piagnistei delle associazioni economiche e della destra.

In realtà le uniche che fuggono sono le aziende a statuto speciale. Il loro numero continua a ridursi da anni, e non è certo a causa della fiscalità visto che godono di tassazioni privilegiate. Basta confrontare le cifre fornite da Vitta in occasione delle varie riforme fiscali. Alla prima Giornata dell’economia, il 25 aprile 2016, il responsabile del DFE aveva parlato di 1’492 società a statuto speciale che versavano globalmente 191,3 milioni di imposta federale, cantonale e comunale. In dicembre dello stesso anno, quando si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della Riforma III della fiscalità delle aziende, Vitta aveva già ridimensionato le cifre: 1’355 società a statuto speciale e 165,6 milioni di franchi di imposte globali. Ora sono nuovamente state corrette al ribasso e si parla di 1’086 società e di un gettito complessivo di 144 milioni.

La riduzione si nota anche nelle statistiche ufficiali riguardanti holding e società di sede, due forme giuridiche che beneficiano dello statuto speciale. (In media queste imprese versano al cantone meno di 1’000 franchi di imposte, tenendo conto anche di quella immobiliare)

I motivi del “fuggi fuggi” sono due e sono intimamente legati. Da un lato le nuove regole internazionali che imporranno alle aziende internazionali di pagare le imposte dove creano valore aggiunto e non dove hanno la sede ufficiale e dall’altro la crescente pressione delle autorità giuridiche estere che tentano di rimpatriare fondi sottratti al fisco del loro paese con pratiche di ottimizzazione fiscale, tanto in voga in Svizzera.

Sembra un tema relativamente nuovo, ma solo perché sia a livello federale che cantonale le autorità hanno scrupolosamente evitato di parlarne. L’MPS ha inoltrato già tempo fa atti parlamentari in cui chiede una valutazione dell’impatto dei nuovi standard dell’Ocse e del G20 contro l’erosione della base fiscale il trasferimento degli utili (Base Erosion and Profit Shifting, BEPS); domande sulle quali il governo ha glissato come un’anguilla.

A livello federale invece è andato in onda recentemente un simpatico siparietto in cui alcuni consiglieri agli Stati hanno finto di stupirsi dei possibili effetti degli standard Beps sulla Svizzera: Pirmin Bischof, presidente della Commissione dell’economia e dei tributi del Consiglio degli Stati, alla NZZ am Sonntag che “se includiamo cantoni e comuni, potrebbe costare alle autorità fiscali svizzere fino a dieci miliardi di franchi” (3). In realtà di questo progetto si parla da anni ormai e anche se le conseguenze precise non possono ancora essere valutate, si sa che il sostrato fiscale risulterà comunque ridotto. Nello stesso articolo si fa l’esempio di Novartis: il colosso farmaceutico ha un fatturato mondiale di quasi 51 miliardi di franchi svizzeri, di cui solo il 2% realizzato in Svizzera. Se Novartis fosse tassata interamente secondo la logica dei mercati di vendita, la Svizzera incasserebbe solo 36 milioni di franchi di imposte, invece dei 700 milioni attuali.

Prima della votazione sulla RFFA però nessuno si è preso la briga di spiegare che le imprese internazionali, che restino o che partano, pagheranno comunque le imposte su una cifra ridotta perché parte dei loro utili saranno tassati all’estero. Ueli Maurer ha atteso fino in giugno, un mese dopo il voto, per annunciare in Parlamento che queste nuove regole potrebbero totalmente rivoluzionare il nostro sistema fiscale, anche se la riunione decisiva dell’OCSE sul tema si è svolta a marzo.

In Ticino, dove gli statuti speciali sono stati concessi con estrema leggerezza, le conseguenze saranno ancora più marcate. Eppure l’orchestrina sul Titanic continua a raccontarci che le società a statuto fiscale vanno salvate ad ogni costo perché assicurano la prosperità a lungo termine del cantone.

Classe media, ma media quanto?

Stavolta che non ci sono ipotetiche misure sociali o mandati da distribuire a varie associazioni per convincere i cittadini a concedere ancora sgravi che svuoteranno le casse pubbliche, autorità e maggioranza partiti hanno pensato bene di mettere sul tavolo il jolly: la classe media. È l’”asso piglia tutto” perché questa cosiddetta “classe media” ha una definizione fluida come l’acqua e le si può far assumere la forma che si vuole. Il ceto medio, nelle democrazie occidentali, dovrebbe comprendere la maggioranza della popolazione; negli Stati Uniti, a furia di alleggerimenti fiscali ai ricchi e alle aziende, non è già più cosi dal 2015. In Svizzera ci stanno lavorando.

Statisticamente il ceto medio viene definito come le persone che hanno un introito fra il 70% e il 150% del reddito lordo equivalente mediano. A livello nazionale si va quindi dai 3’930 agli 8’421 franchi per una persona sola, anche se risulta evidente che le difficoltà ad arrivare a fine mese sono ben diverse a dipendenza di dove ci si posiziona su questa ampia scala. In Ticino, essendo il reddito da lavoro decisamente più basso, anche la “classe media” dovrebbe situarsi entro cifre inferiori. Manca però una soglia precisa e quindi ognuno la piazza un po’ dove crede.

Poco importa comunque dove si situa il ceto medio perché quel che conta sono i risparmi effettivi di cui maggioranza della popolazione beneficerebbe grazie a questa riforma fiscale. In base alla statistica ufficiale, oltre il 73% dei contribuenti ticinesi ha un reddito imponibile sotto i 60’000 franchi. Su questi importi una riduzione del moltiplicatore cantonale o dell’aliquota lascia in tasca solo poche decine di franchi l’anno, abbastanza appena a pagarsi una pizza in famiglia, come diceva qualcuno.

Imposta cantonale sul reddito delle persone fisiche1 domiciliate in Ticino: contribuenti tassati e imposta, secondo la classe di reddito imponibile2 in franchi, in Ticino, nel 2015

Gli effetti di simili misure si fanno sentire solo per i redditi alti, quelli che già profittano maggiormente delle detrazioni fiscali e di altre misure definite “sociali” introdotte recentemente. Se prendiamo ad esempio le detrazioni cantonali per figli a carico, le famiglie con di reddito inferiore ai 60’000 franchi risparmiano poco più di 1’000 franchi di tasse l’anno, a quelle con redditi da oltre 500’000 franchi rimangono in tasca quasi 3’000 franchi media, eppure è sulla prima che pesano maggiormente i costi di un figlio. Questo sistema fa sì che il 15% dei contribuenti più ricchi causi circa un terzo delle mancate entrate dovute alle deduzioni cosiddette “sociali” (figli, figli agli studi, oneri assicurativi).

Lo stesso vale per le detrazioni dall’imposta federale diretta (IFD).

Recentemente il Parlamento federale ha aumentato sia quelle per la cura di figli da parte di terzi sia quelle per figli a carico (contro quest’ultima è stato lanciato un referendum). La metà delle famiglie però non paga l’IFD perché non arriva alla soglia imponibile, quindi non trarrà alcun beneficio da queste deduzioni, quelle che pagano poco risparmieranno cifre irrisorie e a beneficiarne appieno saranno, ancora una volta, gli alti redditi. Questa tendenza ad aumentare le deduzioni dall’IFD è in atto da anni anche per altre voci di spesa, tanto è vero che nel 2012 l’Amministrazione federale delle contribuzioni (AFC) ha invitato il Parlamento a tirare il freno definendo queste detrazioni “sussidi occulti” che avvantaggiano in misura maggiore gli alti redditi rispetto alle persone con risorse finanziarie modeste. Ogni anno, secondo le stime, l’erario perde da 17 a 21 miliardi di franchi annui per favorire chi non fatica ad arrivare a fine mese.

Neanche a dirlo l’AFC è rimasta inascoltata. I parlamentari federali hanno continuato imperterriti, alzando ad esempio il massimo deducibile per le spese di formazione continua a 12’000 franchi. Visto che il salario mediano ticinese è di 5’262 franchi lordi per 12 mensilità, quanti “lavoratori del ceto medio” possono permettersi di pagare 1’000 franchi al mese per una formazione supplementare? Stesso discorso per la defiscalizzazione dei contributi per il III pilastro che molti oggi vogliono portare a 15’000 franchi.

Ciliegina sulla torta: molti di questi alti redditi sono imprenditori o liberi professionisti, che dalla Riforma II dell’imposizione delle imprese beneficiano anche della tassazione ridotta degli utili. Figurando sia proprietari che dipendenti della loro azienda, possono versarsi un salario contenuto e il resto in dividendi, dei quali solo il 70% è tassato, e non versano un franco di contributi AVS e per l’assicurazione disoccupazione. Sono somme consistenti: un proprietario-dipendente che si versa 50’000 franchi di salario e il resto in dividendi rispetto a un salario di 450’000 franchi risparmia globalmente 41’200 franchi di AVS/AI/IPG, 3’562 franchi di assicurazione disoccupazione e 8’400 franchi di assegni famigliari. Non è un caso che dal 2011 sia aumentato il numero dei proprietari-dipendenti e le trasformazioni di ditte individuali in società anonime. Naturalmente questo giochino vale la pena solo a partire da una soglia elevata di utili, i piccoli artigiani non ne approfittano.

Ora, con la Riforma fiscale appena approvata dal Gran Consiglio, questi contribuenti già avvantaggiati potranno risparmiare ulteriormente sulle imposte grazie alla riduzione delle aliquote per le persone giuridiche e del moltiplicatore cantonale. Quando i promotori degli sgravi ci assicurano che è necessario “lasciare i soldi in tasca a chi crea lavoro” parlano di questa categoria di contribuenti, che già si è riempita le tasche con i privilegi concessi dalle ultime riforme, che sottrae “legalmente” milioni di contributi alle assicurazioni sociali e che con la classe media non ha nulla a che fare.

La rivincita delle rane?

La lista delle bufale che da anni ormai circolano attorno al dibattito sulla fiscalità purtroppo non si esaurisce qui. Questi sono solo tre esempi palesi di come sarebbe possibile smontare gli argomenti dei sostenitori degli sgravi, senza essere un economista o un esperto di fiscalità. Eppure solo pochissimi lo fanno, il mainstream continua ad essere quello dello “sgocciolamento della ricchezza verso il basso”. A furia di ripetere incessantemente che “più aziende creano più benessere per tutti” e che “i ricchi pagano la socialità”, il Ticino si è riempito di gente pronta a difendere a spada tratta un globalista o uno “stilista” sfruttatore più di quanto sia disposta a lottare per i propri diritti. Appartengono probabilmente a quella “classe media” a cui per anni governo e parlamento hanno imposto preventivi “lacrime e sangue”, a cui hanno tagliato sussidi di cassa malattia, assegni integrativi e di prima infanzia e borse di studio per i figli per raggiungere l’”indispensabile” pareggio di bilancio, diventato di colpo superfluo di fronte all’”assoluta necessità” di sgravare ancora una volta aziende e ricchi. È il principio della “rana bollita” di Noam Chomsky, quella che finisce per morire cotta in pentola se la si abitua lentamente a sopportare temperature sempre più alte: a poco a poco la gente si è adattata ad un graduale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, senza mai ribellarsi.

Le incongruenze fra la propaganda e la situazione reale però si fanno sempre più stridenti: la favola del “successo economico” e della “ridistribuzione della ricchezza” comincia a scricchiolare davanti all’aumento della disoccupazione e della sottoccupazione, al dumping salariale e sociale sempre più presente e a tassi di povertà e rischio di povertà doppi rispetto alla media nazionale. Senza contare che l’esasperazione cresce perché sempre più persone si accorgono che le promesse fatte in occasione delle passate votazioni erano specchietti per le allodole: fioccano le proposte di aumentare l’età di pensionamento in generale ed in particolare della delle donne malgrado in occasione del voto sulla RFFA ci avessero promesso il contrario, i bonus bebè bastano appena a coprire i costi dei pannolini per un anno, i 200 franchi di sconto sulla retta dell’asilo nido non han niente di “sociale” visto che vengono distribuiti a pioggia anche alle famiglie con SUV e vacanze alle Maldive.

L’esito tiratissimo della votazione sulla Riforma fiscale e “sociale” cantonale del 2018 dimostra che in presenza di un dibattito pubblico equilibrato è possibile spiegare e convincere. La differenza si è vista con la votazione sulla RFFA, dove gli interventi contrari sui media si contavano sulle dita di una mano, rendendo il risultato scontato. In assenza di una stampa critica, tocca ai militanti e ai simpatizzanti mobilitarsi e le occasioni non mancheranno: dall’opposizione all’ennesima iniezione di soldi pubblici per un aeroporto con soli voli privati alla nuova iniziativa per contrastare il dumping, all’inevitabile battaglia contro l’aumento dell’età di pensionamento.

  1. “Il dopo Kering: ‘Il Ticino si trova in una posizione molto delicata”, 22.5.2019
  2. Extra dati, A. XVIII, n. 01, aprile 2018, Cinque anni di espansione. I risultati della statistica strutturale delle imprese (STATENT), Oscar Gonzalez e Silvia Walker
  3. Die Schweiz fürchtet wegen Steuerplänen von G-20 und OECD um einen grossen Teil ihrer Steuereinkünfte, 20 luglio 2019