Il testo che segue è del novembre 2010. Lo pubblichiamo poiché affronta una serie di temi che ritornano nel dibattito attuale, in particolare il rapporto tra lotta per il clima e lotta anticapitalista; così come quello relativo ad una possibile “transizione” verso una società “sostenibile” dal punto di vista ambientale senza la necessità di una rottura con il capitalismo. (Red)
Nel paragrafo introduttivo del suo libro del 2009 Storms of My Grandchildren, James Hansen, principale climatologo USA e massima autorità scientifica mondiale sul cambiamento climatico, ha dichiarato: “Il Pianeta Terra, il creato, il mondo in cui la civiltà si è sviluppata, il mondo con i modelli climatici che conosciamo e linee costiere stabili, è in imminente pericolo… La sorprendente conclusione è che il prolungato sfruttamento di tutti i carburanti fossili sulla Terra minaccia non solo gli altri milioni di specie sul pianeta ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa -e i tempi sono più brevi di quanto crediamo”.
Facendo questa dichiarazione, Hansen stava comunque parlando solo di una parte della crisi ambientale globale che attualmente minaccia il pianeta: precisamente la crisi climatica. Di recente, scienziati di primo piano (compreso Hansen) hanno proposto nove punti-limite planetari, che demarcano lo spazio operativo sicuro per il pianeta. Tre di questi punti-limite (cambiamento climatico, biodiversità e ciclo nitrogeno) sono già stati oltrepassati, mentre altri, come la disponibilità di acqua pulita e l’acidificazione degli oceani, sono falle planetarie emergenti.
In termini ecologici, l’economia è ormai cresciuta a una dimensione e
un’invasività tali che sta sia travolgendo i punti-limite planetari che facendo
a pezzi i cicli biogeochimici del pianeta.
Quindi, quasi quarant’anni dopo che il Club di Roma ha sollevato il tema dei “limiti
alla crescita”, la crescita economica idolatrata dalla moderna società sta
nuovamente affrontando una sfida formidabile. Quella che è nota come “economia
della decrescita”, associata in particolare con il lavoro di Serge Latouche, è
emersa come un’importante movimento intellettuale europeo con la storica
conferenza su “decrescita economica per la sostenibilità ecologica e l’equità
sociale” a Parigi nel 2008, e ha da allora ispirato una rinascita del pensiero
verde radicale, così come si è articolato nella “Dichiarazione sulla
Decrescita” a Barcellona nel 2010.
Ironicamente la rapida ascesa della decrescita (décroissance in
francese) come teoria ha coinciso negli ultimi tre anni con la ricomparsa della
crisi economica e della stagnazione, che in queste dimensioni non si vedevano
dagli anni ‘30. La teoria della decrescita ci obbliga perciò a chiederci se la
decrescita è praticabile nella società capitalista “crescere o morire”, e se
non lo è, cosa ci dice sulla transizione a una società nuova.
Secondo il sito web del progetto europeo per la decrescita (www.degrowth.eu), “La
decrescita comporta l’idea di una volontaria riduzione delle dimensioni del
sistema economico, che implica una riduzione del PIL”. “Volontaria” qui
mette l’accento su soluzioni volontaristiche, anche se non individualistiche e
improvvisate nella concezione europea come nel caso del movimento per la “sobrietà
volontaria” negli USA, dove gli individui, (di solito agiati) scelgono
semplicemente di uscire dal modello di mercato ad alti consumi. Per Latouche il
concetto di decrescita implica un importante cambiamento sociale: un passaggio
radicale dalla crescita come obiettivo principale dell’economia moderna al suo
opposto (contrazione, riduzione).
Falsa promessa
Una premessa fondamentale di questo movimento è che di fronte all’emergenza
economica planetaria la promessa della tecnologia verde si è dimostrata falsa.
Questo si può attribuire al “paradosso di Jevons”, secondo il quale una
maggiore efficienza nell’uso dell’energia e delle risorse non porta alla
conservazione ma ad una maggiore crescita economica, e quindi a una maggior
pressione sull’ambiente.
L’inevitabile conclusione -condivisa da un’ampia schiera di pensatori
politico-economici e ambientali, non solo quelli collegati direttamente al
progetto europeo per la decrescita – è che ci vuole un drastico cambiamento
nelle tendenze economiche in atto a partire dalla rivoluzione industriale. Come
l’economista marxista Paul Sweezy scriveva più di vent’anni fa: “Dal momento
che non c’è modo di aumentare la capacità dell’ambiente di sopportare il carico
[economico e demografico]
che gli viene imposto, ne consegue che la correzione
dev’essere operata interamente sull’altro lato dell’equazione. E visto che lo
squilibrio ha già raggiunto proporzioni pericolose, ne consegue inoltre che per
raggiungere l’obiettivo ciò che è essenziale è un’inversione di rotta, non solo
un rallentamento, delle tendenze fondamentali degli ultimi secoli”.
Dato che i Paesi ricchi sono già caratterizzati dal sovraccarico ecologico,
appare sempre più evidente che non c’è alternativa, come sottolineava Sweezy, a
un’inversione di tendenza alle pressioni sull’ambiente da parte dell’economia.
Questo è rafforzato dagli argomenti dell’economista ecologico Herman Daly, che
insiste da molto tempo sul bisogno di un’economia a crescita zero. Daly traccia
la sua prospettiva a partire dalla famosa discussione di John Stuart Mill sullo
“stato stazionario” nei suoi Principi di Economia Politica, dove
sosteneva che se l’espansione economica si fosse arrestata (come si aspettavano
gli economisti classici), lo scopo economico della società avrebbe potuto essere
deviato verso gli aspetti qualitativi dell’esistenza, piuttosto che su
un’espansione meramente quantitativa.
Un secolo dopo Mill, Lewis Mumford insisteva nel suo Condition of Man,
pubblicato per la prima volta nel 1944, che non solo c’era uno stato
stazionario, nel senso in cui lo intendeva Mill, ecologicamente
necessario, ma che questo doveva essere legato a una concezione di “comunismo
elementare… applicando all’intera comunità i criteri della famiglia” e
distribuendo “le risorse sulla base del bisogno” (una visione mutuata da
Marx).
Oggi si pensa che questo ricorso al bisogno per fermare la crescita economica
nelle economie sovrasviluppate, e anche per restringere queste economie, abbia
le sue radici teoriche in The Entropy Law and the Economic Process [La
Legge dell’Entropia e il Processo economico] di Nicholas Georgescu-Roegen,
che mise le basi della moderna ecologia sociale.
La decrescita come tale non viene vista neppure dai suoi proponenti come una
soluzione stabile, ma come uno strumento per ridurre le dimensioni
dell’economia a un livello di output che possa essere mantenuto indefinitamente
in uno stato stazionario. Questo può comportare la restrizione delle economie
ricche di almeno un terzo rispetto ai livelli attuali tramite un processo che
porterebbe a investimenti negativi (per cui non solo cesserebbe l’investimento
netto ma neanche tutto il capitale sociale esaurito verrebbe rimpiazzato).
Un’economia a stato stazionario, invece, comporterebbe il rinnovo degli investimenti ma azzererebbe il nuovo investimento netto. Come spiega Daly “un’economia a stato stazionario” è “un’economia con stock costanti di risorse umane e mezzi di produzione, mantenuti ai livelli sufficienti che si desiderano tramite un basso tasso di “prestazioni” di manutenzione, cioè tramite i flussi più bassi possibile di materia ed energia”.
Viziato da contraddizioni
È superfluo dire che nessuna di queste cose potrebbe facilmente realizzarsi
nell’ambito dell’esistenza dell’attuale economia capitalista. In particolare il
lavoro di Latouche, che può essere considerato esemplare del progetto
europeo per la decrescita, è viziato da contraddizioni, che derivano non
dalla concezione della decrescita in sé, ma dal suo tentativo di svicolare
dalla questione del capitalismo. Questo si può notare nel suo articolo
del 2006, The Globe Downshifted, dove argomenta in modo
contorto:
“Per alcuni nell’estrema sinistra la risposta tipica è che il capitalismo è il problema, cosa che ci lascia nell’ansia impotente di muoverci verso una società migliore. La contrazione economica è compatibile con il capitalismo? Questa è una domanda chiave, ma una domanda a cui è importante rispondere senza ricorrere a dogmi, se si vogliono capire i veri ostacoli…
Il capitalismo eco-compatibile è concepibile in teoria, ma irrealistico nella pratica. Il capitalismo richiederebbe un alto livello di regolazione per gestire la riduzione del nostro impatto ecologico. Il sistema di mercato, dominato dalle enormi corporazioni multinazionali, non si adatterà mai di sua spontanea volontà al modello virtuoso dell’eco-capitalismo…
I meccanismi di contrappeso tra i poteri, così come sono esistiti nella regolazione keynesiana-fordista dell’era socialdemocratica, sono concepibili e desiderabili. Ma la lotta di classe sembra essersi interrotta. Il problema è: il capitale ha vinto…
“Una società basata sulla contrazione economica non può esistere sotto il capitalismo. Ma il capitalismo è una parola di una semplicità ingannevole per una storia lunga e complessa. Liberarsi dei capitalisti e mettere al bando il lavoro salariato, la moneta e la proprietà privata dei mezzi di produzione farebbe sprofondare la società nel caos. Porterebbe il terrorismo su grande scala… Abbiamo bisogno di trovare un’altra via d’uscita dallo sviluppo, dall’economicismo (come convinzione della supremazia delle cause e dei fattori economici) e dalla crescita: che non significhi abbandonare le istituzioni sociali che sono state annesse dall’economia (moneta, mercati, anche i salari) ma inserirle in una nuova cornice secondo differenti principi”.
In questo stile apparentemente pragmatico, non-dogmatico, Latouche cerca di
tracciare una distinzione tra il progetto della decrescita e la critica
socialista del capitalismo: (1) dichiarando che “il socialismo eco-compatibile
è concepibile”, almeno in teoria; (2) dicendo che gli approcci keynesiani e cosiddetti
“fordisti” alla regolazione, associati alla socialdemocrazia, potrebbero – se
ancora praticabili – addomesticare il capitalismo, ricacciandolo sul “virtuoso
sentiero dell’eco-capitalismo”; e (3) insistendo sul fatto che la decrescita
non ha lo scopo di rompere la dialettica capitale-lavoro salariato o
interferire con la proprietà privata dei mezzi di produzione. In altri scritti,
Latouche chiarisce che considera il progetto della decrescita compatibile con
la continuità della valorizzazione (per es. un aumento dei rapporti di valore
capitalistici) e che nulla di ciò che va verso l’eguaglianza sostanziale è
considerato fuori portata.
Ciò che Latouche sostiene più esplicitamente in relazione al problema
ambientale è l’adozione a ciò che definisce “misure riformiste, i cui
principi [di economia dello stato sociale] sono stati tracciati all’inizio del
XX secolo dall’economista liberale Arthur Cecil Pigou [e] porterebbero a una
rivoluzione” internalizzando le esteriorità ambientali dell’economia
capitalista. Ironicamente, la sua posizione è identica a quella dell’economia
ambientale neoclassica e diversa dalla più radicale critica spesso sostenuta
dall’economia ambientale, nella quale viene duramente attaccata l’idea che i
costi ambientali possano essere semplicemente internalizzati nell’attuale
economia capitalista.
Implicazioni di classe
“La stessa crisi ecologica è descritta” nell’attuale progetto per la
decrescita, come ha osservato criticamente il filosofo greco Takis Fotopoulos, “nei
termini di un problema comune che “l’umanità” affronta a causa del degrado
ambientale, senza citare per niente le diverse implicazioni di classe di questa
crisi, per es. il fatto che le implicazioni sociali della crisi ecologica sono
pagate soprattutto in termini di distruzioni di vite e qualità della vita dai
gruppi sociali inferiori -in Bangladesh come a New Orleans- e molto meno da
parte delle élites e delle classi medie”.
Dato che si prende a bersaglio il concetto astratto della crescita economica
piuttosto che la realtà concreta dell’accumulazione capitalistica, la teoria
della decrescita – nell’influente forma articolata da Latouche e altri- trova naturalmente
difficile affrontare l’odierna realtà di crisi economica/stagnazione, che ha
prodotto i più alti livelli di disoccupazione e devastazione economica dagli
anni ’30 ad oggi.
Latouche stesso ha scritto nel 2003 che “non ci sarebbe niente di peggio di
una crescita economica senza crescita”. Ma di fronte ad un’economia
capitalista chiusa in una profonda crisi strutturale, gli analisti europei
della decrescita hanno poco da dire. La Dichiarazione sulla Decrescita,
scritta a Barcellona nel Marzo 2010, diceva semplicemente: “Le cosiddette
misure anti-crisi che cercano di stimolare la crescita economica, a lunga
scadenza peggioreranno le disuguaglianze e la situazione ambientale”. Senza
aspirare né a difendere la crescita, né a rompere con le istituzioni del
capitale – neanche, quindi, a schierarsi con i lavoratori, il cui bisogno più
grande oggi è l’occupazione – i principali teorici della decrescita rimangono
stranamente silenziosi di fronte alla più grande crisi economica dopo la Grande
Depressione.
A conferma di questo, di fronte all’”attuale decrescita” nella Grande
Recessione del 2008-2009 e al bisogno di una transizione alla “decrescita
sostenibile”, la nota economista ecologica Joan Martinez-Alier, che ha di
recente abbracciato la bandiera della decrescita, ha offerto il palliativo di “un
keynesianesimo verde di breve termine o un new deal verde”. Lo scopo, ha
dichiarato, era quello di promuovere una crescita economica e “contenere
l’aumento della disoccupazione” tramite l’investimento pubblico in tecnologia
verde e infrastrutture.
Questo è stato considerato compatibile con il progetto della decrescita in
quanto questo keynesianesimo verde “non diventava una dottrina della crescita
economica continua”. Ma come i lavoratori potessero collocarsi in questa
strategia largamente tecnologica (fondata sulle idee di efficienza energetica
che gli analisti della decrescita generalmente rifiutano) rimaneva incerto.
Infatti, piuttosto che affrontare direttamente il problema della disoccupazione
-con un programma radicale che darebbe alla gente posti di lavoro diretti alla
creazione di genuini valori d’uso in modi compatibili con una società più
sostenibile- i teorici della decrescita preferiscono enfatizzare un orario di
lavoro ridotto che separi “il diritto a ricevere una remunerazione dal fatto di
essere occupato” (attraverso la promozione di un reddito universale di base).
Si pensa che questi cambiamenti dovrebbero permettere al sistema economico di
restringersi e allo stesso tempo garantire un reddito alle famiglie -mantenendo
nel frattempo intatta la struttura basilare dell’accumulazione del capitale e
del mercato.
Ma guardando da un punto di vista più critico è difficile considerare
l’attuazione di un orario di lavoro ridotto e di un reddito di base garantiti
nelle dimensioni ipotizzate se non come elementi di una transizione a una
società post-capitalista (quindi socialista). Come diceva Marx, la regola per
il capitale è: “Accumulare, accumulare! Così dicono Mosé e i profeti!”
Per rompere con le basi istituzionali della “legge del valore” del
capitalismo o mettere in discussione la struttura basilare su cui si fonda lo
sfruttamento del lavoro (che sarebbero entrambe minacciate da una drastica
riduzione dell’orario di lavoro e da un reddito sostanziale garantito) si
devono affrontare questioni più ampie di cambiamento di sistema – cosa di cui i
principali teorici della decrescita non sembrano disponibili a rendersi conto
per il momento. Inoltre un approccio significativo alla creazione di una nuova
società dovrebbe assicurare non solo reddito e tempo libero, ma provvedere
anche al bisogno umano di un lavoro utile, creativo e non alienato.
Decrescita e Sud
Ancora più problematico è l’atteggiamento dell’attuale teoria sulla decrescita
verso il Sud globale. “La decrescita, scrive Latouche, deve
applicarsi al Sud quanto al Nord se vogliamo che vi sia la possibilità di
impedire alle società del Sud di percorrere il vicolo cieco dell’economia della
crescita. Finché siamo in tempo, non dovrebbero puntare sullo sviluppo ma
sull’uscita dal meccanismo -rimuovendo gli ostacoli che gli impediscono di
svilupparsi in modo diverso… I Paesi del Sud hanno bisogno di uscire dalla
loro dipendenza economica e culturale dal Nord e riscoprire le loro proprie
storie”.
Mancando di un’adeguata teoria dell’imperialismo, e non riuscendo ad affrontare
il profondo abisso di disuguaglianza che separa le nazioni più ricche da quelle
più povere, Latouche allora riduce l’immensa complessità del problema del
sottosviluppo a un fatto di autonomia culturale e soggezione al feticcio
occidentalizzato della crescita.
Si può fare un confronto tra questo e la risposta molto più ragionata di Herman
Daly, che scrive: “È un’assoluta perdita di tempo predicare moralisticamente
le dottrine sullo stato stazionario ai Paesi sottosviluppati prima che i Paesi
sovrasviluppati abbiano preso provvedimenti per ridurre la loro stessa crescita
demografica o la crescita del loro consumo pro capite di risorse. Quindi il
paradigma dello stato stazionario dev’essere prima essere applicato nei Paesi
sovrasviluppati… Una delle maggiori forze necessarie a spingere i Paesi
sovrasviluppati verso il… paradigma dello stato stazionario dev’essere
l’attacco del terzo mondo al loro sovraconsumo… Il punto di partenza nell’economia
dello sviluppo dovrebbe essere il “teorema dell’impossibilità”… che uno
stile di vita USA con un’economia ad alto consumo di massa per un mondo di
quattro miliardi di persone [la cifra era questa nel 1975] è
impossibile, e anche se si ottenesse qualche miracolo, questo avrebbe
certamente vita breve”.
La nozione che la decrescita come concezione possa essere applicata
essenzialmente allo stesso modo sia ai Paesi ricchi del centro che ai Paesi
poveri della periferia rappresenta un errore tipico causato dalla semplice
imposizione di un’astrazione (la decrescita) a un contesto nel quale è
sostanzialmente privo di significato, come ad Haiti, nel Mali, o per molti
versi anche in India. Il vero problema nella periferia globale è quello di
superare i legami imperiali, trasformare l’esistente modo di produzione e
creare possibilità produttive ugualitarie-sostenibili.
È chiaro che molti Paesi del Sud con redditi pro capite molto bassi non possono
permettersi la decrescita ma hanno bisogno di un tipo di sviluppo sostenibile,
diretto ai bisogni reali come l’accesso all’acqua, al cibo, all’assistenza
sanitaria, all’educazione, ecc. Questo richiede che nella struttura sociale ci
si allontani radicalmente dai rapporti di produzione del
capitalismo/imperialismo. È significativo che negli articoli largamente diffusi
di Latouche non vi sia praticamente nessuna citazione di quei Paesi, come Cuba,
Venezuela e Bolivia, dove sono in corso lotte concrete per spostare le priorità
sociali dal profitto ai bisogni sociali. Cuba, come ha indicato il Living
Planet Report, è il solo Paese del mondo che ha un alto sviluppo umano e un
impatto ecologico sostenibile.
Co-rivoluzione
È innegabile che oggi la crescita economica sia il principale fattore del
degrado ambientale planetario. Ma incentrare la propria intera analisi sul
rovesciamento di un’astratta “società della crescita” significa perdere ogni
prospettiva storica e buttar via secoli di scienza sociale. Il valore in
termini ecologici della concezione della decrescita è solo quello di apportare
un genuino significato come parte di una critica dell’accumulazione
capitalistica, e parte della transizione a un ordinamento sostenibile, egualitario,
comunitario, – nel quale i produttori associati governino la relazione
metabolica tra la natura e la società nell’interesse delle generazioni
successive e della Terra stessa (socialismo/comunismo così come Marx lo
definiva).
Quello di cui si ha bisogno è un “movimento co-rivoluzionario”, per usare il
pregnante termine di David Harvey, che metterà insieme la critica tradizionale
al capitale della classe lavoratrice, la critica dell’imperialismo, le critiche
del patriarcato e del razzismo, e la critica della crescita ecologicamente
distruttiva (insieme ai relativi movimenti di massa).
Nella crisi generalizzata dei nostri tempi, un movimento così ampio,
co-rivoluzionario, è concepibile. Qui l’obiettivo sarebbe la creazione di un
nuovo ordine nel quale la valorizzazione del capitale non governerebbe più la
società.
“Il socialismo è utile”,
scriveva E. F. Schumacher in Piccolo è Bello, proprio per la “possibilità
che crea per il superamento della religione dell’economia”, cioè, ‘la moderna
tendenza verso la quantificazione totale a spese dell’apprezzamento delle
differenze qualitative’. In un ordinamento sostenibile, le persone delle
economie più ricche (specialmente quelle degli strati più alti) dovrebbero
imparare a vivere con ‘meno’ in termini di prodotti per abbassare il peso pro capite
sull’ambiente. Allo stesso tempo, la soddisfazione dei genuini bisogni umani e
la richiesta di una sostenibilità ecologica potrebbero diventare i principi
costitutivi di un nuovo ordine più comunitario mirato alla reciprocità umana,
che consenta lo sviluppo qualitativo, e anche la pienezza.
Questa strategia può assicurare alla gente un lavoro che abbia un valore, non
dominato dal cieco produttivismo. La lotta ecologica, intesa in questi termini,
deve puntare non solo alla decrescita in astratto ma più concretamente alla
dis/accumulazione – nel senso di un processo di uscita da un sistema alimentato
dall’accumulazione senza fine di capitale. Al suo posto dovrebbe mettere una
nuova società co-rivoluzionaria, dedicata ai bisogni comuni dell’umanità e
della Terra.*John Bellamy Foster è professore di sociologia all’Università
dell’Oregon e anche redattore della celebre rivista marxista americana Monthly
Review. Scrive di economia politica del capitalismo e crisi economica, ecologia
e crisi ecologica e teoria marxista. L’articolo originale è apparso su http://www.redpepper.org.uk/degrow-or-die/.
La traduzione, per la rivista Senzasoste, è stata curata da Andrea
Grillo