Il criminale assassinio del generale iraniano Souleimani ordinato dal presidente statunitense Trump sembrava lasciar presagire un’escalation di guerra guerreggiata tra l’imperialismo USA e la potenza regionale iraniana.
Nelle ore immediatamente successive alla morte del generale, proclami incendiari da parte di Teheran e la soddisfazione di Trump e dei “falchi” a lui vicini, sembrava dovesse lasciar posto all’estensione di un conflitto regionale minaccioso per le sorti dell’intero globo.
REALTÀ E RAPPRESENTAZIONE
La realtà, per fortuna, si è rivelata sul breve periodo meno drammatica di quanto l’emotività suscitata dall’evidente provocazione da parte USA avrebbe lasciato supporre. Alle minacce iraniane è seguito soltanto un attacco pilotato a due basi USA in Iraq (di cui le autorità irachene erano state avvertite), seguìto più recentemente da un altro attacco a una base ospitante personale USA a Balad, nel nord del paese, senza alcuna vittima. Da parte sua, Trump ha alternato, come suo costume, dichiarazioni bellicose a toni più distensivi, senza compiere ulteriori aggressive sul campo.
Ma, come diceva il bardo, c’è del metodo in questa follia. Sia le mosse della presidenza degli Stati Uniti che quelle del governo iraniano rispondono a logiche di ordine soggettivo e oggettivo, che tessono un filo di intellegibilità oltre i titoli sensazionalistici dei media.
Sebbene la possibilità della guerra tra potenze sia immanente e tendenziale nell’ordine internazionale dominato dal capitalismo e strutturato attorno al sistema imperialista globale, valutare le possibilità di una guerra e attivarsi concretamente per condurla non ha nulla di meccanico, ma risponde invece a logiche propriamente politiche e a diversi fattori. La combinazione di questi fattori, in forme e misure diverse, può spingere o no a lanciarsi un un’avventura bellica aperta, soprattutto quando si tratti di imprese particolarmente rischiose o delicate:
- Una strategia chiara, coerente con le risorse disponibili e la capacità di mobilitarle effettivamente
- L’unità o la frattura degli apparati dello Stato (militari, politici)
- Il consenso di massa a un’avventura bellica
- Una politica delle alleanze stabile e solida
LA GUERRA DEGLI USA
Per quanto riguarda gli USA, questi fattori sono pressoché tutti assenti. Non c’è, da parte della presidenza USA una strategia chiara e univoca; non c’è unità d’intenti tra gli apparati dello Stato USA e ci sono forti divisioni politiche su come dispiegare una strategia che arresti il declino dell’egemonia statunitense nel mondo (su cui, invece, c’è ovviamente consenso unanime); non c’è un consenso maggioritario nella popolazione, che è anzi in maggioranza contraria a nuove avventure belliche (una situazione molto diversa, ad esempio, da quella della seconda guerra del golfo di Bush Jr. nel 2003); la politica delle alleanze soffre l’autonomizzazione di diverse potenze regionali rispetto al precedente quadro della guerra fredda, con una sintonia più forte solamente con lo Stato di Israele (sebbene non sia poca cosa, nelle dinamiche geopolitiche dell’area mediorientale). È probabile che le motivazioni ultime di Trump nell’ordinare l’assassinio di Souleimani risiedano nella volontà di sviare lo sguardo dell’opinione pubblica dall’impeachment e dallo scandalo ucraino. Anzi, le sue oscillazioni successive, con il sostanziale scaricamento da parte delle alte gerarchie militari, sono sintomo della situazione di divisione e aspra contesa politica interna alle classi dominanti USA e ai loro rappresentanti, oltre alle caratteristiche indubbiamente iper-narcisistiche del personaggio.
Al tempo stesso, non possiamo sottovalutare che gli Stati Uniti sono tanto più spinti a utilizzare la propria supremazia militare quanto più la loro egemonia è messa in discussione da altri grandi giocatori nell’arena della competizione globale (Russia e Cina su tutti, ma anche l’Unione Europea), dal momento che questo è di fatto l’unico vantaggio di cui dispongono. E quanto più sono spinti all’uso della forza militare per il controllo delle aree di influenza e dei canali commerciali, tanto più è alto anche il rischio di incidenti forieri di disastri o di conseguenze non volute. È quindi chiaro che, occorre lottare strenuamente contro il militarismo e l’imperialismo USA, che detiene ancora oggi il più grande potenziale di distruzione. Ciò non può però voler dire che occorra lottare solo contro di esso, ma anche contro gli altri imperialismi, compreso quello di casa nostra (torneremo sul ruolo e le ambizioni dell’Italia in Libia in un prossimo articolo), che, sebbene ad intensità e forza variabile, partecipano tutti al Great Game della spartizione del mondo, e sono pertanto tutti partecipi delle potenzialità di annichilimento insite nel sistema imperialista mondiale, di cui gli Stati, con maggior o minor capacità distruttiva, sono espressione.
…E QUELLA DELL’IRAN
Da par suo, anche il governo iraniano deve affrontare notevoli difficoltà che intralciano lo sviluppo del suo progetto politico di egemonia regionale. Il vantaggio che la mossa di Trump gli aveva concesso, in termini di poter dirottare il malcontento e le forti proteste sociali in corso da settimane in tutto il paese in un’orgia nazionalistica, è stato dilapidato con il criminale abbattimento del Boeing 737 ucraino, a bordo del quale erano presenti anche ottantadue cittadini iraniani, in particolare giovani studenti. La rabbia popolare si è riaccesa immediatamente, dirigendosi verso il governo iraniano tutto e in particolare verso le più alte cariche dello Stato, dimostrando che le radici sociali delle mobilitazioni di massa in corso nel paese sono molto profonde, così come in tutti i paesi della regione. Le proteste contro l’aumento delle accise sui carburanti avevano già dimostrato che le contraddizioni del capitalismo globale, di cui i diversi paesi sono sezioni, si stanno approfondendo e stanno scaricando i propri effetti sulle classi lavoratrici e su settori sempre più ampi di “classi medie” (leggasi piccola borghesia), sospinti sempre più verso una marginalità sociale non sopportata e non sopportabile. Questi effetti colpiscono particolarmente i giovani ai quali, pur a fronte di un’elevata scolarizzazione, non è offerto alcun futuro dignitoso, costringendone settori sempre più ampi a barcamenarsi tra precarietà e carovita (in cui va annoverata soprattutto la questione degli alloggi, vero punto di caduta che rappresenta un punto importante di numerose mobilitazioni, ad esempio quella di Hong Kong). Sia pur nel contesto di una polarizzazione politiche che spesso sbiadisce i confini, la caratteristica delle mobilitazioni nel paese non è rimasta confinata in rivendicazioni di tipo economico ma ha avuto uno sbocco anche in questioni di ordine più generale, sovrapponendo condizioni sociali, democrazia e “modello di sviluppo”. In altri termini, si può affermare che sia in corso una dinamica incipiente che mette in discussione lo stesso potere politico nel paese. In alcuni settori, si ha al tempo stessa chiara consapevolezza che i destini dei popoli dell’area sono strettamente legati, e che l’emancipazione di uno, presuppone l’emancipazione di tutti.
LA VOCE DEL POPOLO
A tal riguardo, è istruttivo leggere un passo di un recente comunicato degli studenti del Politecnico Amir Kabir di Teheran*:
“Oggi il ‘male’ ci circonda da ogni lato. Mentre le politiche economiche del governo e la repressione politica hanno esaurito ogni capacità di sopportazione della popolazione, sopra le nostre teste è comparsa anche l’ombra della guerra. Nel mezzo delle continue minacce delle potenze militari, ciò che oggi manca nel clima politico iraniano è la voce del popolo. Al di sopra e al di là di ogni altra cosa, il popolo chiede libertà e uguaglianza e, lo scorso novembre, ha fatto sentire con grande forza la propria voce per far giungere ad altri il suo messaggio.»
«Gli eventi degli ultimi due mesi sono stati una chiara testimonianza della totale incompetenza del regime che governa l’Iran, un regime la cui unica risposta a ogni crisi è il ricorso alla forza. Oggi è nostro dovere dirigere tutti i nostri sforzi contro ogni sistema di repressione, sia esso nella forma di governo oppressivo che di potenza imperialista.»
«Negli ultimi anni, la presenza americana in Medio Oriente non ha prodotto altro che crescente insicurezza e caos. La nostra posizione nei confronti di quella potenza aggressiva è chiara. Tuttavia, è anche chiaro per noi che l’avventurismo americano nella regione non deve essere usato per giustificare la repressione all’interno».
«L’unico modo per uscire dall’attuale crisi è tornare a una politica basata sui diritti democratici della popolazione, una politica che non si getti tra le braccia dell’imperialismo perché teme il dispotismo, una politica che non legittimerà il dispotismo in nome della resistenza e della lotta contro l’imperialismo. Sì, l’unico modo per respingere e liberarsi dalla situazione attuale è respingere allo stesso modo sia il dispotismo che l’imperialismo.”
È dunque chiara la percezione di doppia minaccia contro le classi lavoratrici e i settori popolari della società iraniana da parte del regime oppressivo di Teheran e dell’imperialismo USA, anzi, dei diversi imperialismi operanti direttamente nella regione (quello russo, ad esempio, nulla ha da invidiare agli Stati Uniti) e la necessità che anche le altre mobilitazioni popolari nella regione vincano per poter gettare le basi di un cambiamento sociale e politico radicale. D’altro canto, la doppia minaccia è esattamente quella che si trova a fronteggiare la mobilitazione popolare in Iraq, così come il Libano ha visto un intervento controrivoluzionario degli Hezbollah per conto di Teheran nel mantenimento del regime politico settario e del neoliberismo economico, da cui profittano anche i diversi imperialismi, per non parlare della situazione di una Siria devastata dalla dittatura del clan Assad, principale attore della brutale repressione della rivolta del 2011 che ha aperto le porte alla ripresa dell’ISIS, a una guerra per procura tra potenze imperialiste e regionali sul suolo siriano, e alla destituzione di un popolo, diviso tra permanenza nel paese ed esilio forzato. E ancora, Algeria, Egitto, Tunisia.
IL MEDIO ORIENTE IN RIVOLTA
Il ciclo delle rivolte inaugurate nel 2011 non si è esaurito. Le condizioni che le hanno propiziate sono ancora tutte presenti. L’autoritarismo, la repressione, il neoliberismo selvaggio, la mancanza di futuro per larghissime fasce giovanili, continueranno a produrre rivolte e mobilitazioni, oltre gli inevitabili flussi e riflussi del processo. Che queste rivolte, come quelle in altre parti del mondo, come l’America Latina, non mostrino l’emersione di un progetto politico organizzato in grado di trascinare le mobilitazioni verso un chiaro orizzonte strategico di rottura con l’ordine costituito non deve e non può sorprendere. A differenza del secolo scorso, in cui, seppur con diversità e specificità, l’orizzonte delle rivolte e delle rivoluzioni era stato fortemente segnato dalla Rivoluzione Russa del 1917 e dai partiti che, in un modo o nell’altro, vi si riferivano, la situazione contemporanea è figlia di una profonda sconfitta storica del movimento operaio internazionale e della liquidazione delle sue “istituzioni”. In particolare, in Medio Oriente i diversi partiti comunisti stalinizzati o nazionalisti hanno prodotto tali e tanti disastri da rendere spesso irrilevante l’intera sinistra araba. Di conseguenza, anche il riferimento del socialismo come orizzonte e traguardo non si riflette più nei cuori e nelle menti di molti tra i giovani e giovanissimi protagonisti delle mobilitazioni. Queste lotte nascono e si sviluppano partendo dalle contraddizioni sociali reali del capitalismo globalizzato e non potrebbe essere altrimenti, parlando il linguaggio delle strade e delle esperienze che, individualmente e collettivamente, questi giovani fanno ogni giorno, ma non sono certo meno radicali. Anzi, la profondità della crisi sociale prodotta dal capitalismo globale, la gravissima crisi ecologica e la mancanza di soluzioni adeguate a combinare consenso sociale e ripresa sostenuta e sostenibile dell’accumulazione del Capitale, spingeranno ulteriormente in direzione di esplosioni sociali sempre più vaste. Che queste vincano, non è ovviamente affatto scontato. Ma la vittoria di queste mobilitazioni, di queste rivolte, di questo processo, è necessaria affinché si aprano strade e possibilità nuove in direzione di uno sbocco radicalmente anticapitalista, l’unico a poter risolvere gli enormi problemi dei popoli della regione.
Noi sosteniamo incondizionatamente, anche se non acriticamente, queste rivolte, contro regimi oppressivi e corrotti, per la democrazia e la giustizia sociale, sia perché tutti i popoli hanno diritto a alla ribellione e all’autodeterminazione (e non, come vorrebbe qualcuno, in preda a deliri orientalistici, restarsene zitti e buoni per non danneggiare governi presuntamente “antimperialisti”), sia perché una loro vittoria è esattamente una delle condizioni per mettere in crisi il sistema imperialista globale. Non è un caso che tutti le potenze imperialiste, così come quelle regionali, abbiano agito sì in aspra competizione le une con le altre, ma unite quando si è trattato di deviare, corrompere, sopprimere, schiacciare le rivolte. E sosteniamo, laddove siano presenti, le correnti politiche anticapitaliste e rivoluzionarie nello sforzo di ricostruire una prospettiva strategica anticapitalista.
Noi sappiamo da che parte stare, non abbiamo tentennamenti: dalla parte dell’emancipazione, contro tutte le oppressioni, anche quelle con la maschera di “antimperialismo”.
*http://www.combat-coc.org/le-proteste-popolari-contro-il-regime-iraniano-si-intensificano-in-risposta-allabbattimento-di-un-aereo-passeggeri-da-parte-delliran/?fbclid=IwAR37WPz_b40gi-Fjoy70YLh10IiEcpd-ixcFoU0Lyei864igYs2vaHjPlUA