Pomposamente chiamato “Deal of the Century” – l’accordo del secolo – il piano Trump sul Medio Oriente è subito apparso per ciò che é: un riconoscimento del fatto compiuto coloniale con un totale allineamento sulle posizioni della destra israeliana. Non sorprende che sia seccamente rifiutato dall’insieme delle forze palestinesi e dalla Lega araba nella misura in cui questo “piano” è oltraggiosamente favorevole a Israele e calpesta i diritti nazionali delle/dei Palestinesi. Restano da misurare le conseguenze che potrebbero avere le proposte di Trump 26 anni dopo l’annuncio in pompa magna a Oslo del “processo di pace” il cui fallimento non è più da dimostrare.
Il piano Trump si presenta come un quadro globale che dovrebbe servire da base alla redazione ed alla firma di un “accordo di pace israelo-palestinese” che dovrebbe presumibilmente mettere fine al “conflitto”. Al contrario degli accordi di Oslo, che si presentavano come “accordi transitori” che in un lasso di tempo di cinque anni avrebbero portato al “negoziato sullo statuto finale definitivo”, il piano Trump vuole essere la base di un testo di accordo definitivo. Pretende di rispondere infatti alla quasi totalità delle problematiche del “conflitto”: le colonie (designate, in conformità con il linguaggio ufficiale israeliano, “insediamenti”), le frontiere, Gerusalemme, i prigionieri, i rifugiati ecc. Il meno che si possa dire, in effetti, è che, contrariamente alla “Dichiarazione di principi” del settembre del 1993 – che aveva portato alla celebre stretta di mano tra Arafat e Rabin nei giardini della Casa bianca – ed ai testi transitori che ne sono seguiti e che evitavano accuratamente o diluivano in formule vaghe le questioni cruciali, il piano di Trump ha il merito della chiarezza.
Diritto internazionale?
Di primo acchito, il messaggio è già chiarissimo in materia di diritto internazionale, quel diritto che è supposto dover inquadrare qualsiasi regolamento del conflitto che oppone Israele ai Palestinesi. Dice infatti che: “dal 1946 ad oggi, le risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU sono state quasi 700 e più di 100 quelle adottate dal Consiglio di sicurezza senza che portassero alla pace. D’altra parte, le differenti parti in conflitto hanno proposto interpretazioni contrastanti delle più importanti risoluzioni dell’ONU, compresa la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza. (1) I giuristi che hanno lavorato sulle principali risoluzioni delle Nazioni Unite non concordano né sul loro significato, né sulle loro implicazioni giuridiche. Se rispettiamo il ruolo storico delle Nazioni Unite nel processo di pace, la Visione [l’altro nome, tutto intriso di modestia, del piano Trump] non è un riepilogo delle risoluzioni dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza, né di altre risoluzioni internazionali in merito, nella misura in cui non hanno risolto e non risolveranno mai il conflitto. Da troppo tempo, tali risoluzioni hanno permesso ai dirigenti politici di evitare di confrontarsi con la complessità di questo conflitto piuttosto che rendere possibile un cammino realista verso la pace”.
Si tratta di una posizione classicamente trumpiana rispetto al diritto ed alle istituzioni internazionali, perfettamente in linea con le posizioni israeliane. I “dirigenti politici” oggetto della critica non sono certo i dirigenti israeliani – che non hanno mai preso come riferimento le risoluzioni internazionali – ma i Palestinesi (e quanti li sostengono) i quali richiamano regolarmente l’esistenza di questi testi che consacrano i loro diritti. Anche se non abbiamo alcuna simpatia per l’ONU, e senza alcun feticismo per il Diritto internazionale, si deve pur riconoscere, come ricorda il giurista belga François Dubuisson (Facebook, 29.01.2020, Centre de droit international, Université libre de Bruxelles), che queste risoluzioni enunciano i seguenti principi: “diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese; Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est considerati come “territori palestinesi occupati”; illegalità delle colonie israeliane insediate in territorio palestinese; obbligo fatto ad Israele di ritirarsi dai territori occupati durante la guerra del 1967; diritto per i profughi al ritorno e ad un equo risarcimento; diritto per l’insieme degli Stati della regione di vivere all’interno di frontiere sicure e riconosciute; condanna delle violenze, israeliane o palestinesi che siano”.
Tutti principi che non si ritrovano assolutamente nella “Visione” di Trump, anzi…
Bantustan
Le cose son chiarissime se si prende in considerazione la questione dei territori: lo “Stato” palestinese proposto da Trump è composto da piccoli frammenti di territori senza continuità geografica e, a volte, senza contiguità, che rimandano inevitabilmente ai bantustan dell’Apartheid sudafricana. Questi territori formano un arcipelago in un oceano tutto israeliano con una sola frontiera diretta con un altro Stato, l’Egitto a Gaza, sulla quale, previo alcuni “accomodamenti specifici” con l’Egitto, Israele dovrebbe poter disporre di un certo controllo. Mai avari in materia di provocazioni, gli Stati Uniti evocano nel loro piano “una rete innovativa di strade, ponti e gallerie favorevoli alla libertà di movimento delle popolazioni palestinesi” tra i vari bantustan il cui accesso sarebbe controllato dall’esercito israeliano. Da parte sua, lo Stato d’Israele si annetterebbe – tra l’altro – la Valle del Giordano, vale a dire il 40% della Cisgiordania, la maggior parte delle terre fertili e delle riserve d’acqua con, ovviamente, una continuità territoriale. Nel documento si può anche leggere che “il ritiro da territori occupati durante una guerra difensiva [sic!] è una rarità storica” e che il fatto che Israele si sia già ritirato da una parte di questi territori costituisce già una “concessione significativa”. No comment! Si noti anche che il termine “occupazione” non appare una sola volta nelle 181 pagine del piano Trump.
Non sorprendono le proposte in merito a Gerusalemme: “Gerusalemme resterà città indivisa e capitale di Israele”. In continuità con la decisione del novembre del 2017 di trasferire l’ambasciata USA a Gerusalemme in totale contraddizione con il diritto internazionale, il piano Trump conferma dunque il carattere irreversibile dell’annessione della città. E va anche oltre, affermando che incombe ad Israele il compito di garantire la protezione dell’insieme dei luoghi santi riconoscendogli di fatto il diritto di esercitarvi piena sovranità.
E, provocazione suprema, l’accordo del secolo precisa che “la capitale sovrana dello Stato palestinese potrà trovarsi in quella zona di Gerusalemme Est situata nelle zone a est e a nord dell’attuale barriera di sicurezza [cioè, il muro] comprendenti Kafr Aqab, la parte orientale di Shufat e Abu Dis e potrà chiamarsi al-Qods [Gerusalemme in arabo] o come vorrà lo Stato di Palestina”. In altri termini, i Palestinesi potranno chiamare Gerusalemme delle borgate e dei villaggi che si situano ai margini della città – Kafr Aqab per esempio è ben più vicina del centro di Ramallah che di quello di Gerusalemme – e farne la loro capitale…
Un’umiliazione per i/le Palestinesi
L’allineamento sulle posizioni israeliane è quindi totale e lo è anche per le altre questioni. Così, per quel che riguarda i profughi, il testo afferma che “non ci sarà né il diritto al ritorno né l’assorbimento di un solo profugo palestinese in Israele”. E mentre agli Stati arabi viene ordinato di integrare i rifugiati, Israele si riserva di esercitare congiuntamente con i Palestinesi la regolazione del ritorno di profughi invitati a “tornare” nel futuro Stato palestinese – allorché è il ritorno nelle loro terre che essi esigono. Ciò significa semplicemente che, come insegna l’esperienza dei “comitati congiunti” previsti dagli accordi di Oslo, gli Stati Uniti offrono a Israele la possibilità di opporsi in qualsiasi momento all’entrata di profughi…in un territorio che si suppone non appartenga loro.
La stessa “filosofia” prevale in materia di prigionieri/e palestinesi – che sono, secondo l’ONG israeliana B’Tselem, circa 5000 – la cui liberazione è sottoposta a drastiche restrizioni e condizionata dalla firma di un impegno “a promuovere nelle loro comunità i benefici della coesistenza tra Israeliani e Palestinesi e a comportarsi in modo tale de valorizzare tale coesistenza. Chi dovesse rifiutare di firmare un tale impegno rimarrà quindi in carcere”.
La lista delle provocazioni della “Visione” di Trump è lunga. Va dall’esigenza di uno Stato palestinese completamente demilitarizzato al mantenimento del controllo dello spazio aereo da parte di Israele, passando dalla promessa di un’iniezione di miliardi di dollari nei territori dei Palestinesi a condizione che questi ultimi rinuncino definitivamente a tutti i loro diritti.
Elemento quanto mai notevole, il piano Trump non solo conferma lo statuto di Israele quale “Stato nazionale del popolo ebreo”, ma preconizza il “trasferimento” forzato di 260’000 palestinesi cittadini israeliani le cui città e villaggi diventerebbero dei bantustan sotto amministrazione palestinese… Globalmente, l’Accordo del secolo altro non è che un schiaffo ai Palestinesi, compresi i più moderati, come la direzione dell’Autorità palestinese di Ramallah per la quale l’umiliazione è totale. Così, mentre Netanyahu ed il suo rivale Benny Gantz applaudono Trump – a riprova che la politica verso i Palestinesi non rappresenta il nocciolo delle elezioni legislative del prossimo 2 marzo – Mahmoud Abbas ed il suo ministro hanno respinto in blocco il piano.
Addirittura, qualche giorno dopo, Abbas ha annunciato la rottura delle relazioni con Israele, compresa la collaborazione in materia di sicurezza. Si vedrà poi se tali dichiarazioni saranno seguite da effetti concreti tenuto conto della dipendenza, in particolar modo sul piano economico, dell’apparato politico-amministrativo dell’Autorità palestinese rispetto a Israele che le riversa ogni anno centinaia di migliaia di euro provenienti dall’IVA e dalle tasse doganali prelevate sulle importazioni delle/dei Palestinesi di cui l’Autorità palestinese non può fare a meno, non foss’altro che per poter pagare i salari dei dipendenti pubblici.
Il piano Trump, colpo di grazia al processo di Oslo
Una cosa è certa: pur rifiutato in blocco dalle/dai Palestinesi, il piano Trump legittimerà l’accelerazione delle politiche coloniali israeliane, in modo particolare con l’annessione, di cui già si discute nei corridoi della Knesset, di blocchi di colonie e della Valle del Giordano.
Sono decisioni che confermano sempre più una realtà che molti rifiutano di vedere. La Francia, per esempio, s’è accontentata di ricordare il suo sostegno alla “soluzione dei due Stati” quando, nei fatti, tra il Mediterraneo ed il Giordano, di Stati ce n’è uno solo che, nella misura in cui queste non sono un fattore di destabilizzazione, tollera in suo seno solo delle “zone autonome”. Che poi, in un documento statunitense queste “zone autonome” siano ribattezzate “Stato della Palestina” non cambia nulla, anzi.
Sarebbe quindi particolarmente fuori luogo pretendere che tutto ciò si iscriva nella continuità del processo di Oslo, avviato nel 1993-1994, ed al quale il piano Trump dà il colpo di grazia. Quegli accordi non erano che la riorganizzazione del dispositivo d’occupazione israeliano con l’Autorità palestinese incaricata di evacuare le zone palestinesi più densamente popolate, accordate ad una Autorità palestinese sottoposta a flebo economica e incaricata di mantenere l’ordine mentre Israele continuava la sua politica coloniale pur pretendendo di iscriversi in una logica negoziale. (2)
Il fallimento di Oslo come “processo di pace” non è l’espressione di appuntamenti mancati, di scelte sbagliate o di cattiva volontà da parte di uno o l’altro protagonista. Il fallimento di Oslo è quello di un processo tramite il quale s’è voluto imporre alle/ai Palestinesi la rinuncia ai loro diritti in nome di un’illusoria autonomia e di un trasferimento di una parte delle competenze e prerogative dell’amministrazione coloniale ad un’amministrazione autonoma senza reale sovranità.
In tal modo, il piano Trump dà nel contempo il colpo di grazia al processo di Oslo e lo porta a compimento nella misura in cui lo si considera come un processo di riorganizzazione e non un processo di pace. Resta da vedere se i nuovi passi che Israele si appresta a fare, incoraggiato dagli Stati Uniti, obbligheranno le principali forze di un movimento nazionale palestinese, moribondo e in crisi, a fare il “gran salto” compiendo la minaccia più volte agitata; annuncio dello scioglimento, per lo meno sul piano politico, dell’Autorità palestinese.
È questa la tappa indispensabile per finirla con la favola “dell’autonomia” e del “proto-Stato palestinese” e per mettere Israele davanti alle sue responsabilità di potenza occupante. È una decisione che, lungi dal risolvere tutti i problemi, contribuirebbe a ridefinire i termini del conflitto e aprirebbe la strada alla rifondazione di un movimento nazionale comprendente tutte le forze palestinesi riunite su obiettivi di liberazione e non di gestione di uno pseudo-apparato di Stato.
Vista la situazione attuale e lo stato di decomposizione delle forze palestinesi, tali prospettive possono sembrare velleitarie. Tuttavia, non sussiste oramai alcun dubbio: la pagina della lotta “per uno Stato palestinese indipendente a fianco di Israele ottenuto in seguito ad un processo negoziato” è definitivamente girata e i/le Palestinesi avranno bisogno di un potente movimento di solidarietà internazionale nella loro lotta contro il regime di apartheid israeliano. (2 febbraio 2020)
*Julien Salingue autore di “La Palestine des ONG. Entre résistance et collaboration”, novembre 2015 e “La Palestine d’Oslo”, settembre 2014. L’articolo originale è apparso sul sito del Nouveau Parti Anticapitalista (NPA) www.npa2009.org. La traduzione in italiano è stata curata da Paolo Gilardi per il sito www. rproject.it
1. Adottata dopo la Guerra dei sei giorni nel giugno del 1967, la risoluzione 242 esige il ritiro israeliano dai territori conquistati con la forza (Cisgiordania, Gaza, Golan siriano, Sinaï egiziano). Le versioni francesi e inglesi sono però differenti: se quella francese parla di “ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati”, quella inglese formula il “withdrawal of Israeli armed forces from Territories occupied”, che può essere tradotto come “ritiro delle forze armate israeliane da territori occupati”. Nel suo splendido isolamento internazionale, lo Stato d’Israele ha sempre affermato che solo la versione inglese conta.
2. Si legga in proposito di Julien Salingue “Oslo, 20 ans après, il n’y a jamais eu de processus de paix” 13 settembre 2013, su https:/blogs.mediapart.fr/les-invités-de-mediapart/article/120913/oslo-20-ans-apres-il-n-y-a-jamais-eu-de-processus-de-paix