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Le elezioni di sabato 9 febbraio rappresentano a un tempo una svolta storica nella politica irlandese e una boccata d’aria pura, di cui si sentiva la necessità, in un quadro europeo sempre più appestato dai miasmi dell’estrema destra xenofoba e dai continui cedimenti nei confronti di quest’ultima da parte di consistenti segmenti delle forze che si definiscono liberaldemocratiche (ultimo esempio lo sdoganamento dell’estrema destra tedesca in Turingia, con successiva e imbarazzata marcia indietro, che ha comunque provocato una crisi ai vertici della CDU).

Tornando all’Irlanda, i risultati elettorali rappresentano una “svolta storica” nel senso che pongono fine a un rigido regime bipartitico durato praticamente un secolo (dal 1922), che vedeva alternarsi regolarmente al potere gli eredi della guerra civile degli anni Venti, il Fine Gael e il Fianna Fáil, entrambi sorti, con altre denominazioni, da scissioni del movimento nazionalista antibritannico (il Sinn Féin) ed entrambi collocatisi sulla destra, destra democristiana il primo, destra liberale il secondo. E questa fine del regime bipartitico avviene a opera di un partito, il Sinn Féin appunto, che è riuscito per la prima volta a relegare al secondo e al terzo posto Fine Gael e Fianna Fáil sulla base di un programma di riformismo radicale, con marcati tratti anticapitalistici, e che ha reintrodotto con forza nel panorama politico irlandese la discriminante lungo l’asse sinistra/destra e ha “spostato” a sinistra un po’ più di un decimo del corpo elettorale.

Le dimensioni della vittoria del Sinn Féin

Con 536.000 voti (arrotondiamo alle migliaia), il 24,5 % e 37 seggi, il Sinn Féin è oggi il primo partito in termini di seguito elettorale. Rispetto alle precedenti elezioni del 2016 guadagna 240.000 voti, il 10,7 % e 14 seggi. Il suo primato in termini di voti non si è tradotto però adeguatamente in seggi, perché viene superato dal Fianna Fáil (38 seggi). Ciò è dipeso soprattutto da un errore di valutazione della direzione del partito, che basandosi sui risultati relativamente modesti ottenuti nelle elezioni europee del 2019, ha presentato un numero ridotto di candidati (42 per i 160 seggi del parlamento), sottostimando il proprio successo.

È accaduto infatti che in alcune circoscrizioni nelle quali il Sinn Féin aveva presentato un solo candidato, ha ottenuto un numero di voti che gli avrebbero consentito di eleggerne due. Col risultato che, grazie al meccanismo elettorale irlandese, i seggi che gli sarebbero spettati (almeno tre o quattro in più) sono stati distribuiti fra gli altri partiti. Detto questo, il suo progresso appare comunque straordinario. Si presentava in 38 delle 39 circoscrizioni, e in 15 di esse arriva in testa (in quattro con oltre il 40 % e in cinque con oltre il 30 %). Nella maggior parte delle circoscrizioni i suoi guadagni in percentuale superano il 10 %, con un massimo del più 20 % in una delle circoscrizioni di Dublino. Sembra evidente che il Sinn Féin abbia preso voti sia dalla estrema sinistra di Solidarity-PBP, sia da varie formazioni di centrosinistra, sia dall’elettorato tradizionale del centrodestra, e questo grazie a un programma credibile e a una campagna elettorale intelligente, che ha insistito su temi molto popolari, quali il dissesto del sistema sanitario nazionale, mancante di medici, infermieri e di fondi in seguito ai drastici tagli seguiti agli anni della crisi; la forte carenza di alloggi popolari, in parte responsabile all’aumento spropositato degli affitti e della formazione di un piccolo esercito (almeno 10.000), di senzatetto; i mostruosi privilegi fiscali delle imprese nazionali e internazionali, eccetera.

Il successo dei verdi e il variegato schieramento della sinistra, estrema e moderata

La straordinaria avanzata del Sinn Féin ha in parte oscurato i progressi dei verdi del Green Party. Con 156.000 voti, il 7,1 % e 12 seggi, questi progrediscono infatti di 98.000 voti, del 4,4 % e di ben 10 seggi. Qui i voti sembrano venire in gran parte, oltre che dall’elettorato giovanile, da altre formazioni di centrosinistra, e in particolare dal Labour Party, che perde 45.000 voti e un seggio, attestandosi al 4,4 % e a 6 seggi: il livello più basso mai raggiunto da questo partito, che non è riuscito a scrollarsi di dosso la partecipazione subalterna al governo di Edna Kenny, del Fine Gael (2011-2016), con le sue micidiali politiche austeritarie. È andata meglio invece ai Social Democrats, una scissione (2015) a sinistra del Labour, che mantiene sostanzialmente le sue posizioni (2,9 %), con sei seggi: un raddoppio rispetto ai precedenti tre dovuto alla particolarità del sistema elettorale irlandese. Altro piccolo partito che subisce perdite è quello degli indipendenti di sinistra, gli Independents for Change (I4C) che da quattro seggi si riducono a uno, con meno 23.000 voti.

Va male anche per il cartello elettorale della estrema sinistra, Solidarity-People Before Profit, che nel 2016 aveva registrato un buon risultato. Con 84.000 voti e il 2,6 %, ne perde infatti 27.000 e l’1,3 %, mantenendo comunque cinque dei sei seggi che aveva. Qui hanno probabilmente giocato alcuni fattori: l’irresistibile richiamo del “voto utile” a favore del Sinn Féin e il radicamento ancora “a pelle di leopardo” e un certo grado di instabilità delle tre organizzazioni che formano il cartello (Solidarity, nuova denominazione della Anti-Austerity Alliance; People Before Profit; e RISE, Radical, Internationalist, Socialist and Environmentalist). Se il cartello elettorale, che si presentava in 32 delle 39 circoscrizioni, arretra complessivamente, registra tuttavia aumenti in nove circoscrizioni e, soprattutto, regge bene nei suoi punti di maggior forza. Per esempio, a Dublin South-Central (11,0 %), a Dublin West (10,0 %) e a Dún Laoghaire (15,5 %), dove ottiene quasi 10.000 voti (più di un sesto del 57.000 raccolti in tutta l’Irlanda). Da questi dati dovrebbe risultare chiaro come la spinta al “voto utile” a favore del Sinn Féin si sia fatta sentire soprattutto nelle circoscrizioni dove Solidarity-PBP era già debole e non era in grado di far eleggere alcun candidato.

La crisi del bipartitismo

La sconfitta è invece netta per i due partiti di destra, il Fine Gael e il Fianna Fáil, che appoggiava dall’esterno il governo di minoranza del primo. Il Fine Gael ottiene 456.000 voti, il 20,9 % e 35 seggi, con perdite di 99.000 voti, il 4,6 % e 14 seggi. Il Fianna Fáil, con 484.000 voti, il 22,2 % e 38 seggi, lascia sul campo 35.000 voti, il 2,1 % e 7 seggi. Complessivamente, i due partiti perdono 134.000 voti, il 6,7 % e 21 seggi. Da quasi il 50 % che accumulavano nel 2016 scendono al 43 %, il livello più basso mai raggiunto. Di qui la constatazione della crisi, quasi certamente irreversibile a breve-medio termine, del bipartitismo.

All’estrema destra, niente o quasi

Temi quali l’immigrazione e altri tipici dell’estrema destra europea non hanno avuto alcuno spazio in questa campagna elettorale. Di qui i risultati più che confidenziali ottenuti da un partito come il National Front (meno di 5.000 voti e lo 0,2 %). L’eccezione è rappresentata da Aontú, un partito fondato da un ex deputato del Sinn Féin contrario alla legalizzazione dell’aborto, che ha preso 42.000 voti, l’1,9 % ed è riuscito ad ottenere un seggio. Più che di un partito classico dell’estrema destra, si tratta dunque di una formazione integralista cattolica monotematica (no all’aborto), che non sembra destinata a un grande avvenire.

Quali prospettive?

Quella che si è delineata in queste elezioni è una nuova Irlanda. Se consideriamo la sinistra nel suo complesso (comprese dunque le sue componenti moderate), questa progredisce rispetto al 2016 di oltre il 10 % (dal 31,8 al 42,0 %), mentre il blocco Fine Gael-Fianna Fáil subisce un processo opposto (dal 49,8 al 43,1 %). Il resto (circa il 15 %) è rappresentato in gran parte da candidati indipendenti di vario orientamento. Naturalmente, non si tratta di un mutamento improvviso, ma dello sbocco politico di processi, strutturali e sovrastrutturali, in corso da anni.

Per quanto concerne i primi, hanno contato i disastri prodotti nella vita materiale dalle politiche ultraliberiste pervicacemente applicate nel corso degli ultimi anni. I brillanti risultati macroeconomici (la “Tigre celtica”) non si sono tradotti a livello “microeconomico”: i servizi pubblici sono sull’orlo dello sfascio, mancano gli alloggi e i prezzi delle case e degli affitti sono fra i più alti d’Europa, le diseguaglianze sociali si sono approfondite.

Quanto ai secondi, la tradizionale, nazionalistica e cattolicissima Irlanda ha da tempo mutato pelle. Per limitarci a pochi tratti, l’aborto è stato legalizzato e lo stesso è avvenuto per i diritti degli omosessuali, matrimonio compreso. Cosa fino a pochi anni fa impensabile, lo stesso leader del Fine Gael – un partito di destra – è un meticcio e un omosessuale. Infine, il nazionalismo irlandese, incarnato soprattutto dal Sinn Féin, pur senza riuniciare al suo storico obiettivo dell’unificazione con l’Irlanda del nord, ha arricchito il proprio programma di forti contenuti sociali, caraterizzato da un radicalismo, come già si è detto, con accentuati tratti anticapitalistici.

Sono i riflessi politici di questi mutamenti che non hanno colto a tempo i partiti della destra, e che ha invece “letto” correttamente il Sinn Féin, diretto dalla dinamica Mary Lou McDonald. Quella sorta di “fattore K” che per anni ha emarginato l’antico “braccio politico dell’IRA” non era più operante nella nuova Irlanda, “modernizzata”, e allo stesso tempo profondamente dilaniata, dall’ultraliberalismo.

I giochi comunque non sono ancora fatti. La formazione di un governo appare alquanto complessa, per non dire impossibile. I due partiti di destra potrebbero certo coalizzarsi, e con i loro 73 seggi e l’appoggio di qualche indipendente superare la soglia degli 80 seggi necessari per formare un governo. Ma su quale programma, visto che è proprio il loro programma che è uscito pesantemente sconfitto? Sarebbe la coalizione dei perdenti, in prospettiva un vero e proprio suicidio. D’altro canto, ancora più ardua appare la possibilità di un governo “largo” di tutte le sinistre: potrebbe contare su 67 seggi, e avrebbe bisogno del sostegno di almeno 14 indipendenti. Ma è inutile addentrarsi in ulteriori speculazioni. Qualunque sia la formula provvisoria che eventualmente sia adottata (governo di minoranza, governo di larghe intese, eccetera) sembra evidente che a breve o medio termine l’Irlanda dovrà affrontare una nuova prova elettorale.

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