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Si apre una nuova settimana tra caos, incertezze e contraddizioni. Dopo i primi giorni di panico, da venerdì scorso il messaggio dominante, in particolare delle cosiddette ‘parti sociali’ (associazioni padronali e Cgil Cisl Uil), è improvvisamente diventato ‘tornare alla normalità, per il bene del paese, dell’economia, del turismo e delle imprese’.

Di normale, però, soprattutto al Nord, c’è ben poco.

Primo, perché siamo comunque di fronte a un virus che ha ancora indici di diffusione significativi (oltre due contagiati per ogni malato) e che, pur con ridotti tassi di mortalità, presenta la necessità di un’ospedalizzazione per un’ampia fascia di ammalati. Una ospedalizzazione che, persino nelle ricche e efficienti regioni del nord (almeno così fino a ieri ci veniva detto), mette sotto stress il sistema sanitario pubblico, da anni deprivato dai tagli alle risorse e alle assunzioni. C’è solo da immaginare cosa succederebbe se lo stesso livello di diffusione del contagio avvenisse in regioni dove gli ospedali non sono in condizioni di affrontare nemmeno la normalità, figuriamoci una emergenza.

Secondo, perché le lavoratrici e i lavoratori sono lasciati nell’incertezza: se non lavorano, moltissimi sono ancora senza garanzia dello stipendio e nemmeno certezze sugli ammortizzatori sociali; se lavorano non hanno ancora certezza sui rischi che corrono e sulle relative disposizioni di sicurezza. Con interi settori che, per contro, stanno stra-lavorando, primo tra tutti la sanità (in alcuni ospedali senza turni di riposo da giorni), ma anche la grande distribuzione commerciale e gli appalti di manutenzione e sanificazione. Con l’aggravio delle scuole chiuse in diverse regioni del nord.

Insomma, caos, incertezze e contraddizioni…

Fabbriche chiuse perché ‘c’è rischio contagio’ (ma senza ancora ammortizzatori sociali), fabbriche aperte a poche centinaia di metri perché ‘non c’è rischio contagio’ (magari però il padrone ti obbliga a rispondere a questionari o indossare mascherine o a stare in fila al freddo per entrare perché prima devi misurarti la febbre, come è accaduto stamattina alla Electrolux di Porcia).
Scuole chiuse, teatri chiusi (con migliaia di lavoratori e lavoratrici dello spettacolo e del turismo senza lavoro e stipendio), eventi sportivi chiusi, ma centri commerciali incredibilmente aperti come se niente stesse accadendo.

E poi, la più grande delle contraddizioni: l’invito a riprendere la normalità e consentire alle imprese di tornare ai loro profitti, da un lato; il «fermo invito» a non scioperare fino al 31 marzo, dall’altro (che soprattutto nei settori pubblici suona, da subito, come intimazione a revocare lo sciopero del 9M di Nudm, mentre è stata già revocata da tutti i sindacati la mobilitazione dei precari della scuola).

Delle due l’una! Anche senza drammatizzare (come è stato fatto nei primi giorni), bisogna che al paese si dica cosa sta accadendo e si garantisca che prima di tutto viene la salute e la sicurezza, dopo il profitto. Prima di tutto, quindi, si affronti l’attuale emergenza sanitaria, determinata non tanto dalla mortalità di un virus, quanto dalla necessità di contenerne la diffusione e dalla disponibilità di personale medico, posti letto negli ospedali pubblici e servizi di terapia intensiva per curare gli ammalati.

L’emergenza nel paese è la sanità pubblica! Perché per decenni si sono tagliate risorse, bloccato il turn over, persino limitati gli accessi alle facoltà universitarie. Al nord (che ora sta esplodendo), ma ancora di più al sud, dove è più che probabile che a brevissimo si diffondano i casi di contagio e le richieste di ospedalizzazione.

L’emergenza nel paese è l’autonomia delle regioni, che differenzia servizi universali come quello alla salute! In questi anni, dopo la riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, si è affidato sempre più alla Regioni poteri e risorse nella gestione dei propri servizi di welfare. Oggi, con la legge Boccia, si vuole rafforzare ancor di più queste autonomie, differenziandole tra loro. Come si è visto proprio in queste settimane, però, così si producono sperequazioni e diseguaglianze tra i diversi territori, dividendo i lavoratori e differenziando i diritti. Una diversificazione che proprio nei casi di crisi esplode in comportamenti contrastanti e contradditori.

Allora, l’emergenza non è sbloccare i cantieri per far ripartire l’economia, come ci hanno spiegato ieri sulla Rai, più o meno all’unisono, il presidente di Confindustria e il segretario generale della Cgil. L’emergenza non è la rassicurazione dei turisti stranieri o dei partner internazionali che altrimenti non investono più nel nostro paese. L’emergenza è verificare la sicurezza e la tutela della salute dei cittadini e delle cittadine, in particolare di chi lavora, investire sulla sanità pubblica e bloccare ogni disgraziato progetto di ulteriore autonomia differenziata. Poi viene tutto il resto.

Più che appelli alla normalizzazione, vorremmo che la Cgil incalzasse il Governo e la Confindustria su questo, avendo il coraggio anche di chiedere che paese è quello che mette l’interesse delle imprese prima di quello per la salute, che si fa governare da mercati azionari e spread e che per decenni ha tagliato sui servizi pubblici, spendendo milioni in armamenti e spese militari piuttosto che in ospedali e scuole.

Riconquistiamo Tutto!