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Bene, cerchiamo di restare positivi. Dal Vertice della Terra in poi (1992), le emissioni di CO2 sono continuamente aumentate, nonostante tutte le COP, i protocolli, gli accordi, i “meccanismi di mercato”, etc.

Oggi, “grazie” al Coronavirus, abbiamo una chiara dimostrazione che è possibile avviare una reale radicale riduzione di CO2, dell’ordine del 7% su base annua. A una condizione: produrre meno e trasportare meno.

Ovviamente, il Coronavirus non mostra alcun discernimento, alcun piano: riduce ciecamente le emissioni, il che porta a una esacerbazione delle disuguaglianze sociali e della precarietà, in particolare nei paesi più poveri e a scapito delle popolazioni più povere. A lungo termine tutto questo può portare a una carenza di beni di prima necessità. Di conseguenza, solo i reazionari e/o i cinici possono rallegrarsi per l’impatto climatico dell’epidemia.

Resta il fatto che questa vicenda consente, in una certa misura, di liberare l’immaginazione. Qualche esempio.

– Perché la riduzione cieca della produzione e dei trasporti non potrebbe lasciare il posto a una riduzione concordata e pianificata, cominciando dalle produzioni inutili e dannose?

– Perché alle lavoratrici e ai lavoratori colpiti dall’eliminazione di queste produzioni inutili o dannose (esempio le armi) non si potrebbe garantire il mantenimento del proprio reddito e una riconversione collettiva in posti di lavoro socialmente ed ecologicamente utili e valorizzanti?

– Perché la globalizzazione dettata dalla massimizzazione del profitto sulle “catene di valore” delle multinazionali non potrebbe lasciare il posto a una cooperazione decolonizzata basata sulla giustizia sociale e climatica?

– Perché l’agrobusiness devastatore della biodiversità e della salute, che favorisce la propagazione dei virus, non potrebbe lasciare spazio a un’agroecologia che possa prendersi cura sia della salute umana che degli ecosistemi, dando un senso al lavoro?

È ovvio che queste alternative – e altre che vanno nella stessa direzione – possono concretizzarsi solo attraverso un cambiamento politico radicale. In effetti, che si tratti di affrontare il Coronavirus o di affrontare i cambiamenti climatici, le risposte dei governi sono sulla stessa linea: negano di fatto le leggi della natura (la propagazione del virus da una parte e l’effetto dell’accumulazione di CO2 dall’altra), si limitano a rincorrere gli avvenimenti per non ostacolare la corsa al profitto e poi attingono, dalla loro negligenza, il pretesto per misure di regressione sociale accompagnate da giri di vite autoritari.

Oggi possiamo vedere chiaramente, grazie a questo fottuto Coronavirus, che un cambiamento politico radicale deve comportare due aspetti:

– Da un lato un insieme di misure anticapitaliste. Sono essenziali per rompere con la dittatura che la legge del profitto esercita sulla società, e qui non entro nei dettagli. Diciamo solo questo: di fronte all’epidemia di Coronavirus, il problema chiave è chiaramente la subordinazione della politica sanitaria agli interessi capitalisti, nonché la totale libertà con cui i capitalisti possono trarre profitto dall’epidemia (per esempio speculando o monopolizzando le scorte di materiali e prodotti).

La socializzazione dell’industria farmaceutica è uno dei principali obiettivi per un’altra politica.

Allo stesso modo, di fronte ai cambiamenti climatici, un obiettivo importante e inevitabile è la socializzazione del settore energetico. E, in entrambi i casi, questi passi devono essere accompagnati dalla socializzazione della finanza, che ne tira le fila.

– Da un altro lato, un insieme di misure di democrazia radicale. Non si combatte un’epidemia senza il coinvolgimento della popolazione e la maggior parte della popolazione non parteciperà a una politica neoliberista-autoritaria che aggrava le disuguaglianze. Ed è la stessa cosa, molto più forte, di fronte ai cambiamenti climatici: gli enormi cambiamenti nelle strutture e nei comportamenti necessari per limitare il disastro non possono essere realizzati senza il coinvolgimento della popolazione, e la maggior parte della popolazione non parteciperà a una politica neoliberista-autoritaria che aggrava le disuguaglianze. Per conto parteciperà – e anche con entusiasmo! – a politiche restrittive delle quali essa ha il controllo e delle quali abbia compreso la necessità imperativa… se (e soltanto se) queste politiche migliorano radicalmente le proprie condizioni di esistenza e il significato dell’esistenza collettiva.

Questo secondo punto è capitale (e non è un gioco di parole!), specialmente quando lo si affronta –  ed è in questo modo che lo si deve affrontare – nella sua dimensione Nord-Sud – cioè nella sua dimensione decoloniale – e nella sua dimensione di genere – vale a dire dal punto di vista dell’emancipazione di donne e di LGBTQ. In effetti, il discorso ecologico è spesso costruito attorno all’affermazione secondo cui i drastici cambiamenti necessari richiederebbero un potere forte. In questo senso assistiamo ad una convergenza oggettiva potenzialmente molto pericolosa con la destra e l’estrema destra (convergenza che si manifesta anche nella sinistra “populista”). In realtà è il contrario ad essere vero. In verità, vale la stessa cosa per i cambiamenti climatici come per le epidemie: i cambiamenti drastici che sono necessari possono essere affrontati solo attraverso la realizzazione di

 progressi democratici radicali (quindi anche, evidentemente, un’evoluzione antirazzista, anti-sessista, antiomofoba, etc.).

La più ampia democrazia è essenziale per consentire l’assimilazione della sfida, la comprensione delle sue cause profonde, la discussione delle misure da adottare e la loro esecuzione collettiva.

Visto così, in definitiva, il Coronavirus potrebbe avere delle ricadute ideologiche, ecosocialiste, ecofemministe e decoloniali positive.

Peccato che dobbiamo pagarle con l’elevato prezzo dell’epidemia …