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Nessuno o tutti/ Non si può salvarsi da sé.

(Bertolt Brecht, Poesie e canzoni)

La nostra vita è intessuta di relazioni sociali come mai prima nella storia. Viviamo in una società capitalistica che funziona come una rete di relazioni fondate sulla centralizzazione mondiale, industriale e finanziaria, delle holding che interconnette direttamente o indirettamente quasi otto miliardi di persone. Miliardi di persone-molecole si dispongono in reti di relazioni le quali, nelle condizioni presenti, non sono fattori di evoluzione sociale ma di enormi contraddizioni. Siamo contemporaneamente individui isolati coi nostri social a disposizione, ma anche costretti ad essere sociali. Non solo il tempo di lavoro è fatto di relazioni, anche quello libero e di riproduzione della forza lavoro, è tempo di relazioni valorizzanti, indotte e fagocitate dall’industria del divertimento e del consumo. La vita degli individui diventa sempre più frenetica, la valorizzazione del capitale è il motore dell’accelerazione sociale. Il capitalismo contemporaneo, sostiene Jonathan Crary nel suo libro 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, (2015), vuole tutto il tempo della persona la quale deve essere aperta alla produzione e al consumo 24 ore su 24 per i sette giorni della settimana. Ogni momento è buono per lavorare, comprare, giocare, intrattenersi sui social network. Una presenza, quella del capitalismo nella nostra vita quotidiana, che Crary non esita a definire ossessiva, che ci condiziona imponendo il disumano principio di una «operatività incessante».

I virus che infettano, e a volte uccidono, milioni di persone, le mode, le idee che omologano l’umanità intera, dilagano secondo le leggi delle reti. Il pericolo coronavirus che cammina nella filiera della libera circolazione di capitali e merci a livello planetario, provoca nell’immediato non l’apocalisse della specie umana, ma una crisi sanitaria e una recessione mondiale. La diffusione del virus in Cina pochi mesi orsono era considerata in Occidente un fenomeno collocato in un mondo altro, diverso e lontano dal nostro. Invece stavamo tutti nello stesso tempo, collegati nello spazio globale di un sistema mondo interconnesso. La malattia è globale come il capitalismo, infatti l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha dichiarata una pandemia cioè un’epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, invadendo rapidamente vastissimi territori e continenti favorita da tre fattori: un organismo virale virulento, la mancanza di immunizzazione specifica nell’uomo e la facilità di trasmissione da persona a persona.

Individuo “malato” società “infetta”

Il coronavirus è “sociale”, si diffonde nella collettività promiscua, sommatoria di tante individualità. Alla socialità del virus si dovrebbe opporre la solidarietà di specie, quella che opera collettivamente per salvaguardarsi e difendersi nel nome del bene di tutti, anche a scapito di quello immediato ed effimero del singolo individuo o di gruppi di potere economici e finanziari specifici. Così dovrebbe essere se vivessimo in una società pudding in cui l’individuo si sente parte del tutto, è “impastato” e agglutinato con gli altri in una “lievitazione” di interessi collettivi. Invece oggi ci troviamo di fronte a una società costruita sul modello trionfante dell’insalata, dove si sta assieme ma ognuno conserva la propria caratteristica e assume comportamenti slegati da ogni considerazione di reciprocità nelle relazioni sociali, badando solo al proprio tornaconto personale o di élite del potere, secondo i dettami cari alla “filosofia” del libero mercato e del profitto sui quali si è costruito il modello dell’«homo oeconomicus, un essere le cui azioni sono motivate unicamente da un supremo principio normativo consistente nel perseguimento dell’interesse o utilità personale»[1]. Questa concezione ha corrotto i legami sociali, la reciprocità e la solidarietà, ha costruito nuovi collanti identitari fondati sull’“altro da sé” visto come causa o minaccia del malfunzionamento della società. La dottrina neoliberista non ha comportato solo la distruzione di regole istituzionali e di normative giuridiche, ha costituito un nuovo modello di relazioni sociali e di soggettività.

Conflitto d’interessi

Il coronavirus ha messo bene in luce il conflitto d’interessi tra salvaguardare i profitti e salvare la vita biologica, similmente a quello che si evidenzia nel rapporto tra sistema produttivo ed ecosistema, tra la vita del pianeta, delle sue specie viventi (uomo-donna compresi) e le priorità dell’economia capitalistica che non accetta limiti e costrizione ecologiche e biologiche. Anche se consapevole del pericolo, il sistema capitalistico, data la sua logica di accumulazione e di riproduzione allargata, è incapace di prevenirlo, è “costretto” ad agire sulla base dei bisogni del capitale in primo luogo, e non delle popolazioni e della natura. Difatti, nel momento in cui sarebbe necessario mettere al servizio dell’uomo conoscenze e competenze insite nelle forze produttive materiali e intellettuali di cui disponiamo, per prevenire e contrastare la diffusione del virus, si assiste invece al prevalere dell’interesse economico imprenditoriale, accompagnato dalla “comprensione” di vari esponenti politici e confindustriali che difendono la libertà di produrre e commerciare, a scapito della salute stessa delle lavoratrici e dei lavoratori. Questa epidemia rivela la fragilità del sistema capitalista, come dimostra il crollo dei mercati finanziari presi da pandemica paura, e mette in luce la sua irresponsabilità e dannosità verso le classi lavoratrici, consegnate al produttivismo accelerato che sembra non conoscere timori e riserve verso la malattia e la crisi ecologica-climatica. Oggi si guarda positivamente all’esempio cinese, a come quello Stato ha affrontato la questione, dopo che inizialmente i mass media occidentali si erano dimostrati critici e diffidenti. Una cosa però non sottolineano, come meriterebbe invece fare. La Cina, al di là del suo discutibile sistema di governo, ha gestito la crisi impegnandovi direttamente ingenti risorse statali e affermando il primato, almeno nei momenti di crisi sistemica, del governo politico sugli interessi privati dell’economia, difatti ha fermato le attività economiche non immediatamente necessarie perché ha ritenuto servisse a frenare il contagio. In tal senso in Italia occorrerebbe stanziare risorse straordinarie per la garanzia di tutti i posti di lavoro e la loro copertura salariale, garantire la sicurezza sul lavoro per chi opera nei settori dove non è possibile sospendere l’attività.

Crisi del sistema sanitario e sgranamento del tessuto sociale

La crisi da coronavirus ha fatto emergere la precarietà del sistema sanitario pubblico, vessato da anni di tagli di spesa e privatizzazioni, e il grado di sgranamento di un tessuto sociale solidale che si nutriva di numerosi apporti, non ultimo quello del movimento operaio. Nell’immediato il principale pericolo scatenato dal dilagare del virus è rappresentato dal rischio di superare la disponibilità di posti adeguati di cura presso gli ospedali. Esiste un protocollo a riguardo che impone la scelta di chi curare e chi no, chi è recuperabile e ha maggiori probabilità di vita e chi invece avrebbe un decorso dall’esito incerto, con una probabilità-lunghezza di vita minore poiché vecchio e magari già afflitto da altre patologie. Se si raggiunge e si supera la soglia critica delle disponibilità, che varia a seconda dei sistemi sanitari in auge nei vari paesi, a farne le spese sarebbero i più deboli, gli anziani. La malattia da coronavirus prospetta possibilità di una selezione simil dawiniana dove chi ha più punti biologici e sociali di classe accede a percorsi di cura privilegiati. Una tipologia di ragionamento che guarda caso, come ha scritto Marco Revelli (Il medio star virus, https://volerelaluna.it/ ) è simile a quella che «un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi (i “vecchi”, in primis) e meritevoli i vincenti (i “forti”)».

Ha fatto notizia la spericolata fuga dal Nord “infetto” di migliaia di persone verso le regioni meridionali d’origine, che è qualcosa di diverso dal fuggire da un evento catastrofico, un terremoto o un’alluvione. Chi scappa da un siffatto evento non lo porta con sé. Chi fugge da un’epidemia in diffusione sì. Altrettanto scalpore hanno provocato l’affollamento di parchi, pub, discoteche e piazze a contatto “sardine” e le immagini provenienti dalle stazioni sciistiche di folle in coda davanti agli impianti. Chi si stupisce non sa, o fa finta di non sapere che scontiamo decenni di involuzione civica dovuta a iniezioni massicce di liberismo, di esaltazione egotica dell’individuo, padrone di se stesso, del tutto indifferente e irresponsabile verso la collettività, vissuta negativamente come un limite, indirizzato a far da sé, a cercare soluzioni personali.

L’epidemia in corso impone un ripensamento, tardivo (meglio tardi che mai) delle politiche di austerità e tagli praticate sulla sanità pubblica: 37 miliardi di euro tagliati nel periodo 2010-2019, 70 mila posti letto in meno, con forte riduzione di quelli previsti per la terapia intensiva, mancata assunzione di personale medico e infermieristico e politica del numero chiuso alla facoltà di medicina. Tutti provvedimenti presi nel nome della religione dell’austerità liberista, della “riduzione del debito”, delle “regole di bilancio europee”, della “competitività”, che hanno dato beneficio solo alla sanità privata e ai ricchi, riducendo per milioni di cittadine e cittadini il diritto alla salute.

 Comunicazione

La cattiva comunicazione ha offerto in questi giorni il peggio. Prima ha creato il panico, poi ha discusso degli italiani presi dal panico per poi attestarsi attualmente su un’informazione incerta, alla giornata che arranca dietro i fatti. La cattiva comunicazione, al pari della pessima politica, non solo lascia solo il cittadino, fa peggio: alimenta l’ignoranza e la rabbia, la ricerca di colpevoli e untori e apre il campo al giornalismo di denuncia della carenza di senso civico degli italiani, risultato invece delle controriforme liberiste che hanno agito in maggior profondità, corrodendo le vecchie forme della socialità a beneficio di un individualismo competitivo. Paghiamo il prezzo di decenni di comunicazione basata sull’emotività, sul pathos iniettato ovunque. Oggi si sanno molte cose, si è infornati su di una massa enorme di eventi, ma non sono conoscenze. Televisione, internet, social offrono molte informazioni, spesso confezionate più per stupire, intrattenere, intimorire o rassicurare che per informare, per indurre un orientamento critico e politico. Sui social network le tesi argomentate da dati e da esperti e una qualsiasi interpretazione o credenza si equivalgono e il giudizio emotivo regna incontrastato. La giusta necessità di saper pensare in modo critico si è trasformata in un esercizio praticato senza conoscenza e con argomentazioni improvvisate, rese vere in nome della libertà di opinione. Opinione, si badi bene, non pensiero che è altra cosa. Il mare magnum delle opinioni forma un mondo algebrico di “secondo me”, “io penso che”, la cui somma finale, nei termini di una formulazione corretta della conoscenza dei fatti, è uguale a zero.

*Diego Giachetti, storico, collabora al nostro giornale Solidarietà con una rubrica fissa sull’Italia. Questo articolo è apparso sul sito dei nostri compagni italiani di Sinistra Anticapitalista

[1] Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Torino, Einaudi, 2013, p. 227.