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Ieri si è concluso il Consiglio europeo in videoconferenza. Quattro ore di scontro durissimo. Da una parte erano schierati i nove primi ministri, di Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna, firmatari della lettera al Presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, dello scorso 26 marzo. Dall’altra parte gli stati del nord, guidati da Germania, Olanda, Austria e Finlandia, ma, nei fatti, rappresentati anche dall’altra lettera, quella presentata dal Presidente dell’Eurogruppo, lo spagnolo Mario Centeno, sempre al Presidente del Consiglio europeo, del 24 marzo scorso.

Le posizioni in campo erano chiare. I nove primi ministri hanno espressamente richiesto l’emissione di uno strumento europeo di debito comune, “emesso da una istituzione europea per raccogliere fondi sul mercato su una stessa base e con gli stessi benefici per tutti gli Stati membri… nello stesso spirito di efficienza e solidarietà, noi possiamo esplorare altri strumenti come uno specifico finanziamento per la spesa legata al Corona virus nei bilanci dell’Unione”, in virtù del fatto che lo shock del Covid-19 non è attribuibile a nessuno, e non si può far pagare di più alcuni Stati membri per una colpa che non hanno. In altre parole, si richiedeva l’emissione di un titolo pubblico europeo federale, sebbene transitorio per la fase di emergenza del nuovo corona virus. Ovvero gli ormai celeberrimi CovidBond, o European Recovery Bond. Il tutto, in via temporanea, e soprattutto garantendo di non spingersi affatto alla richiesta di vera e propria mutualizzazione del debito pregresso dei singoli Stati membri.

Ciò nonostante, gli Stati membri del nord si sono fortemente opposti a questa richiesta, come era facilmente prevedibile (vedi articolo https://anticapitalista.org/2020/03/23/bce-e-patto-di-stabilita-e-tutto-oro-quel-che-luccica/). Del resto, se un BTP decennale rende l’1,25% (dopo l’intervento della BCE, nell’ambito del nuovo programma di acquisto, altrimenti era già salito in chiusura quasi al 3%, con uno spread sui Bund di 262 punti base), e il Bund rende -0.38%, con uno spread di 163 punti base, il titolo comune europeo può rendere, più o meno, quanto il decennale emesso dall’ESM, European Stability Mechanism (MES nell’acronimo italiano), ossia il famigerato Fondo salva-stati, una sorta di Fondo monetario europeo, a un valore pressoché medio e pari a 0,4%; di conseguenza, l’Italia risparmierebbe 0,8 punti percentuali, ma la Germania aggraverebbe il suo costo del debito di altrettanti 0,8 punti percentuali. In gergo tecnico, questa si chiama TransferUnion, ovvero Unione dei trasferimenti, ovvero Stato federale, ovvero Tesoro federale: tutto ciò che l’Unione europea non è mai stata e non si appresta a essere, vincolata com’è alle logiche imperialiste degli stati membri.

Piuttosto, gli Stati membri meno indebitati avrebbero preferito, come si evince anche dalla lettera del Presidente dell’Eurogruppo, l’utilizzo delle linee di credito rafforzate dell’ESM, le quali sono subordinate a una rigorosa, strict, condizionalità, per “assicurare un sentiero sostenibile” nel lungo termine; tale programma, infatti, prevede, per mezzo della sottoscrizione di un Memorandum, il rientro dal debito pubblico immediatamente dopo la fine dell’emergenza, a suon di austerità, avanzi primari, tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni. È lo stesso piano che Draghi ha previsto, quando, con il tanto decantato, specie asinistra, discorso del whatever it takes, escogitò il programma OMT, di acquisto di titoli di stato in cambio di austerità fiscale. Ovviamente, l’Italia e la Spagna avrebbero preferito l’utilizzo dell’ESM senza le condizioni attualmente previste nel Trattato. Tuttavia, quelle condizioni sono state previste proprio a garanzia del rimborso del credito e sembrava, sin da subito, assai improbabile una loro revisione. Occorre, piuttosto, prendere definitivamente atto che l’Unione europea, lungi dal costituirsi come Stato federale e di presunta coesione sociale, è in realtà poco più di una confederazione di stati imperialisti, in perenne e aspro conflitto tra loro, in cui la legge dell’austerità viene imposta senza scrupolo dagli stati membri creditori agli stati membri indebitati. Senza una rivoluzione della classe lavoratrice su scala europea, internazionalista e ecosocialista, non sarà mai possibile un autentico stato federale e di giustizia sociale.  

Nel frattempo, Mister Draghi è tornato a parlare, e di nuovo a sproposito. Lo ha fatto sulle colonne del Financial Times. Da destra alla presunta sinistra, è stato osannato per l’invocazione del debito pubblico di entità necessaria a fronteggiare l’emergenza. Egli stesso, però, ha evidenziato che la “questione chiave non è sé, ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio”. D’accordissimo, infatti, più o meno, l’entità del debito sta aumentando dappertutto. Ma come? e soprattutto, con quali costi, presenti e futuri?

Draghi non ha dubbi a riguardo: “l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari… Le banche, in particolare, si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito… poiché in questo modo, le banche stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali … L’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario choc. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno.”. Insomma, esattamente la stessa logica che ha condotto l’Unione monetaria all’incapacità di reagire alla crisi, nonché al fallimento delle politiche monetarie, nell’obiettivo di trasmettere gli effetti all’economia reale. Errare è umano, ma perseverare è diabolico!

Il punto chiave è, infatti, come avviene il finanziamento del debito pubblico d’emergenza. Esattamente come prima, per il tramite degli intermediari finanziari e del mercato dei titoli obbligazionari. Occorre, al contrario, una svolta a 180 gradi. Il prezzo dei titoli, e il conseguente rendimento inverso, lo deve fissare la banca centrale e non il mercato finanziario. Non si tratta, cioè, di scegliere un titolo che costa la media tra quello tedesco e quello italiano; si tratta, piuttosto, di imporre il costo zero, pari all’attuale tasso di rifinanziamento principale, all’emissione di titoli pubblici straordinari; e comunque tale da garantire un percorso di sostenibilità effettivo. Attualmente, la BCE si limita a intervenire per evitare un rialzo eccessivo del costo del debito e lo fa sul mercato secondario e non in asta, con un duplice errore: da un lato, non consente di imporre un costo del debito inferiore al tasso di crescita del PIL nominale, in modo da vincolare una riduzione sostenibile nel tempo; dall’altro lato, cede, in ogni caso, al mercato la fissazione del prezzo dei titoli, subendo la valutazione del rischio, limitandosi a un intervento minimale sulla crescita dei rendimenti. Questo, secondo Draghi e i suoi epigoni, sarebbe l’eccellente equipaggiamento dell’Unione monetaria? Ma per favore!

Draghi sostiene ancora che “dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabili futuri dei tassi d’interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio”. Ma ciò non è affatto vero. Ciò che determina il costo reale del servizio del debito, è lo scarto tra il tasso di interesse pagato sul debito e il tasso di crescita nominale del PIL; se l’Italia paga ancora un costo nominale basso, sebbene superiore agli altri Stati membri, ma comunque superiore alla crescita economica, il costo reale del debito sale, la sua sostenibilità si compromette e, conoscendo Draghi e i suoi colleghi, si scaricherà immediatamente dopo sui ceti popolari per mezzo delle politiche di austerità sulla spesa pubblica e di deflazione salariale sulla classe lavoratrice. Infine, da parte di Draghi, neanche un cenno agli strumenti di debito comune o alla mutualizzazione europea del debito; ciò nonostante, continua a essere osannato persino dalla presunta sinistra radicale.

Inoltre, la quantità fa la qualità. Gli Stati Uniti, oltre ad avere un meccanismo di trasmissione della politica monetaria sull’economia reale differente da quello dell’Unione monetaria europea, hanno previsto un programma di circa 2 mila miliardi di dollari, il 9% del PIL Usa, più del PIL italiano, quasi il doppio di quello stanziato dopo la crisi del 2008, pari al 5,7% del PIL. Il programma aggiuntivo della BCE si ferma a 750 miliardi di euro, circa 90 miliardi per l’Italia. Considerando che a ogni mese di quarantena dovrebbero corrispondere almeno 50 miliardi di euro, facile calcolarne l’inadeguatezza. Un ammontare simile a quello degli Stati Uniti garantirebbe, invece, all’Italia 350 miliardi di euro. L’idiozia liberista europea, pressata dalle contraddizioni imperialistiche interne, ignora persino il pragmatismo borghese degli Stati Uniti, finalizzato a ripristinare al più presto le condizioni di profittabilità e di accumulazione capitalistica.

Nel frattempo, Madame Christine Lagaffe prosegue nel suo personale percorso di pentimento, aumentando gli strumenti a disposizione della BCE per fronteggiare la crisi. Ieri è stata definitivamente cancellata la soglia del 33% dal programma straordinario di quantitative easing. Sarà possibile, in altre parole, per la BCE acquistare un singolo strumento di titolo pubblico anche oltre la soglia del 33%. Tale soglia era prevista per evitare che la BCE potesse avere un ruolo decisivo in una eventuale ristrutturazione del debito; ma, di fatto, era anche un modo per limitare gli acquisti di titoli di stato. Ciò nonostante, in questo modo, la Germania rischiava di arrivare al tetto nei prossimi mesi, bloccando tutto l’intero programma di acquisti della BCE.

Infatti, anche qui è stato sbagliato il bersaglio. Il problema non è dato tanto dalla soglia del 33%, quanto dalla regola della c.d. chiave capitale, capital key, secondo la quale la BCE deve acquistare titoli pubblici in base alla ripartizione del capitale della BCE, a sua volta una media tra il PIL e la popolazione degli stati membri; in questo modo alla Germania spetta il 26,4% degli acquisti, prima in classifica, all’Italia il 17%, terza in classifica, alla Grecia il 2,5%. In altre parole, gli acquisti della BCE non sono legati ai bisogni reali di finanziamento, ma al potere imperialistico. Della serie, una regola per cui piove sempre sul bagnato! Inutile sottolineare che questa regola non è stata minimamente messa in discussione.

La Commissione europea, a sua volta, sta per pubblicare un regolamento che prevede uno schema di emergenza per l’assicurazione europea contro la disoccupazione, SURE (Scheme Unemployment Risk European); di fatto, si offre la possibilità di garantire prestiti a condizioni favorevoli agli Stati membri per offrire sussidi di disoccupazione estesi anche ai lavoratori e alle lavoratrici autonome. Ma tali presunte condizioni favorevoli sono dettate dal fatto di essere contratte a livello comune dell’Unione, non dal fatto di essere emesse fuori dalle condizioni di mercato. Il lupo perde il pelo ma non il vizio!

Al contrario, continuiamo a ribadire che occorre uno straordinario finanziamento monetario delle politiche fiscali in deficit per fronteggiare l’emergenza, ma fuori dalle condizioni imposte dai mercati finanziari e dalle istituzioni monetarie e bancarie. Inoltre, ciò non risulta neanche sufficiente per uscire dalla strutturale crisi capitalistica. Di fronte alla crisi di profittabilità, cominciata ben prima dello scoppio dello shock della pandemia, l’espansione monetaria e fiscale non è in grado di salvaguardare la classe lavoratrice: non basta la creazione di moneta, se poi si rimane nel disastro creato dal modo di produzione capitalista dominato dalla violenta legge del profitto.

Occorre una duplice direzione della politica economica: da un lato, la proprietà pubblica delle banche e delle imprese strategiche, transnazionali e multinazionali, soprattutto quelle farmaceutiche, in grado di moltiplicare l’espansione monetaria attraverso massivi investimenti pubblici; occorre, dialetticamente, una totale riconversione in senso ecosocialista della produzione in modo da superare la crisi, immediatamente sul piano sanitario, ma soprattutto, e in una prospettiva di brevissimo periodo, sia sul piano socio-economico sia sul piano ambientale ed energetico; dall’altro lato, è necessario difendere il lavoro e i salari, attraverso la garanzia di un salario sociale di quarantena per tutte e tutti, lavoratrici e lavoratori, comprese le forme di lavoro subordinato fittizio e mascherato dalle presunte partita IVA; è necessario il controllo dei prezzi e delle tariffe, nonché il ripristino della scala mobile a tutela del potere d’acquisto, contro le possibili forme di requisizione capitalistica, per mezzo delle fiammate inflazionistiche di classe in reazione all’espansione monetaria.

Occorre una società diversa, più libera e più eguale, più sociale e più ecologica, con più spesa pubblica sanitaria e farmaceutica, più medici pubblici, più infermiere e infermieri, più operatrici e operatori sanitari, più ospedali e più posti letto! Ma non basta potenziare le cure. Occorre un sistema di prevenzione che lavori attivamente per ridurre le cause.

* articolo apparso sul sito dei nostri compagni di Sinistra Anticapitalista

Il capitalismo ha fatto il suo (terribile) tempo.

Ci vuole una rivoluzione. Ci vuole l’ecosocialismo