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I salari sempre più bassi, ma il governo si preoccupa solo delle imprese

Il Ticino ancora una volta si distingue in peggio: non solo è il cantone con le retribuzioni più basse della Svizzera, ma è l’unico in cui il salario mediano è calato di ben 200 franchi in soli due anni. Anni di “promozione economica”, sgravi a pioggia alle aziende e dumping istituzionalizzato ci ha reso più poveri e di conseguenza più fragili di fronte alle crisi.

In base alle ultime cifre pubblicate dell’Ufficio federale di statistica, il salario mediano ticinese nel 2018 era di 5’363 franchi nei settori pubblico e privato, esattamente 200 franchi meno rispetto al 2016. È la prima volta dal 2000 che si assiste a un calo della mediana cantonale, ma fin dalla pubblicazione della statistica 2014 erano emersi peggioramenti delle buste paga in molti settori, che il Consiglio di Stato si è sempre rifiutato di analizzare (vedi risposte ai nostri atti parlamentari sul tema). Questo significa che la pressione al ribasso dei salari negli ultimi anni si è accelerata e che, a dispetto delle tante dichiarazioni di facciata, non esiste nessuna reale volontà di Governo e Parlamento di lottare efficacemente contro il dumping. Oggi guadagniamo addirittura meno rispetto al 2010, anche se da allora i premi di cassa malattia e gli affitti sono lievitati.

I ticinesi devono quindi affrontare l’epidemia di coronavirus e la conseguente crisi economica partendo da una situazione finanziaria già svantaggiata rispetto agli altri svizzeri e che si è ulteriormente deteriorata negli ultimi due anni. Se paragonate alla mediana svizzera, nel nostro cantone le retribuzioni sono di quasi 1’200 franchi inferiori. Già prima della pandemia molte persone e famiglie faticavano ad arrivare a fine mese e ora si ritrovano a terra e senza nessuna risorsa per sopravvivere.

Questo è il risultato di anni di “promozione dell’innovazione” e tappeti rossi stesi alle aziende senza mai fissare criteri qualitativi per i salari e gli impieghi offerti. Non a caso i settori descritti come “promettenti” dal governo e da eminenti economisti sono quelli dove le disparità salariali sono più marcate rispetto al resto della Svizzera. Nella farmaceutica, ad esempio, il salario mediano era già circa il 50% inferiore a quello nazionale ed è ulteriormente calato in due anni di oltre 300 franchi. Nel settore finanziario, dopo anni di “licenziamenti silenziosi” fatti alla spicciolata per non dover adottare un piano sociale, le retribuzioni sono calate di ben 650 franchi. Probabile che le banche stiano trasferendo le posizioni di rilievo a Zurigo o che abbiano licenziato over 50 per assumere dipendenti “meno costosi”

Rispetto agli altri anni stavolta sono toccati anche i settori pubblici e parapubblici. I lavoratori dei servizi sanitari, quelli che oggi chiamiamo eroi e per cui si sprecano applausi e lodi da parte delle massime autorità, hanno visto la loro retribuzione mediana calare di 300 franchi in due anni. Ha ragione l’Associazione degli infermieri: gli applausi non bastano, se si vuole promuovere questa professione fra i giovani bisogna migliorare le condizioni di lavoro, non peggiorarle come avvenuto negli ultimi anni.

Anche la situazione di chi lavora nell’amministrazione pubblica è peggiorata (-433 franchi) dopo anni di sproloqui liberisti sulla necessità di tagli nello Stato, benché sia più che evidente in questo momento che siano proprio i servizi statali quelli di cui i cittadini hanno maggiormente bisogno. Nell’istruzione, altro settore di primaria importanza, si è registrato un vero e proprio crollo dei salari: 971 franchi in meno. Queste riduzioni dimostrano che le autorità di questo cantone, non solo tollerano il dumping, ma lo praticano attivamente. Una verità che affermiamo da anni e che ora emerge con chiarezza.

Questi dati non possono che preoccupare perché significano, come abbiamo sempre sostenuto, che l’introduzione di un salario minimo legale di 3’200 franchi rischia di accelerare ulteriormente questa discesa; da misura pensata per combattere il dumping rischia di diventare un fattore di accelerazione del dumping salariale. E questo non certo per il fatto che venga introdotto un salario minimo legale (principio più che accettabile), ma perché il livello che il Parlamento ha fissato (con l’accordo dei partiti di governo e dei Verdi) è talmente basso da contribuire ad una dinamica negativa verso il basso di tutto il sistema salariale.

Ora, per superare la crisi del coronavirus, le misure federali e cantonali, ancora una volta, si concentrano sugli aiuti alle imprese, tenendo conto solo in misura marginale della difesa del potere d’acquisto dei salariati (che rappresentano la grande maggioranza della popolazione).  In pratica si somministra in dosi più forti la stessa medicina che, negli anni scorsi, ha creato più povertà e precariato. Con l’idea che salva l’impresa salvi tutti e tutte.

Di fronte a questi dati non solo appare necessario, a breve e medio termine, mettere in campo una mobilitazione sociale (e le organizzazioni sindacali bene farebbero a riflettere autocriticamente su questi risultati) che rilanci la lotta salariale nel cantone; ma appare urgente rivendicare che questa fase dominata dalla pandemia non comporti tagli pesanti che andrebbero a peggiorare ulteriormente la situazione.

Ribadiamo quindi la nostre proposte già presentate alcune settimane fa, dell’introduzione di un reddito di pandemia che comporti, rimanendo in ambito salariale, la garanzia per tutti i salariati e le salariate del mantenimento del salario completo, attraverso l’integrazione della perdita di salario subita a causa dell’introduzione del lavoro ridotto (20%).

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Bertoli, come non detto!

Qualcuno ieri si era un po’ meravigliato del nostro commento positivo sulle decisioni pubblicate ieri dal DECS, relative ai criteri di promozione e di conclusione dell’anno scolastico. Le avevamo definite sagge e incitato il ministro Bertoli, anche come atto conseguente, a rinunciare alla ipotizzata apertura delle scuola dell’obbligo il prossimo 11 maggio.

Ma già nella serata di ieri (e ancora stamattina) Bertoli ha deciso di dimostrarsi, con coerenza rispetto a quanto fatto negli ultimi anni, ancora una volta inadeguato, preannunciando di fatto l’intenzione di riaprire le scuole dell’obbligo il prossimo 11 maggio.

Naturalmente, per mostrare che per il DECS è preminente l’aspetto sanitario, si cominciano ad elencare “condizioni” che dovrebbero garantire il ritorno a scuola in assoluta tranquillità e sicurezza. Ancora, nel dettaglio, non si sa. Probabilmente verranno discussi e negoziati anche con i rappresentanti (si fa per dire) sindacali degli insegnanti che sembrano scalpitare dalla voglia di dire di sì, appena si mette loro davanti un “modello” che (astrattamente e al di fuori di ogni concreto confronto con la realtà) garantirebbe il ritorno in condizioni “sicure”.

Poco importa che questi “modelli” (ad esempio quello di scaglionare l’entrata dei ragazzi a scuola, come alla Migros…) o, ancora, di dividere una classe in almeno due gruppi (sicuramente non sufficienti in una classe di 22-23 allievi come ne vediamo tante…) siano astratti perché pensati solamente per il momento della presenza in classe. E il resto?

Ma gli allievi, e pensiamo in modo particolare a quelli delle medie, non si soffermano solo in aula. Vi è un percorso casa scuola (tralasciamo la questione, già di per sé irrisolvibile di coloro che devono spostarsi con i mezzi pubblici): di solito vanno a piccoli gruppetti, contenti di vedersi dopo settimane di lontananza, di stare vicini, di toccarsi…; vi sono le pause, nei corridoi o nei piazzali; vi sono i momenti di uscita dalla scuola e quelli che precedono l’inizio delle lezioni: sono tutti momenti che esistono perché rappresentano un momento di socializzazione dei nostri ragazzi. Certo, si può tentare di convincerli a cambiare atteggiamento, a rispettare altre norme; ma è difficile modificare, nello spazio di qualche giorno, comportamenti e atteggiamenti che sono anche legati alle dinamiche, diremmo naturali, dei rapporti tra ragazzi di questa età.

Ma la questione di fondo toccata da questa volontà di tornare a scuola è stata accennata dallo stesso Bertoli quando ha parlato della necessità di un “ritorno alla normalità”. È necessario ricordare (come hanno fatto Christian Marazzi in un’intervista odierna o Ángel Luis Lara in un recente intervento https://mps-ti.ch/2020/04/non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/ ) che è proprio il ritorno alla “normalità” la logica dalla quale dobbiamo distanziarci.

Per queste ragioni la scuola dovrebbe cominciare a sganciarsi dal quel rapporto osmotico con il capitalismo e il suo modo di funzionamento.

Non vi sono dubbi che il tentativo di accelerare il ritorno alla normalità del sistema produttivo (dettato dalle esigenze padronali) spinga al “ritorno alla normalità” anche di tutte quelle istituzioni complementari al sistema produttivo, sia in termini di formazione della forza lavoro che di quella che potremmo chiamare “l’ideologia del lavoro”.

Da questo punto di vista la scuola svizzera è un esempio perfetto di educazione al lavoro, alla “mise au travail” per usare una pregnante espressione francese. Lezioni dalle 8 a mezzogiorno, pausa (magari in mensa come in una vera azienda) e poi ritorno per altre tre ore al pomeriggio: veri e propri ritmi di fabbrica. Non si produce nulla se non un’educazione, un’abitudine al lavoro: si produce, in realtà, il futuro salariato e la disciplina al lavoro (la produttività) tipica del capitalismo svizzero. A scuola, come in fabbrica o in ufficio, non si protesta, non si arriva in ritardo, etc. etc.

Pensiamo che dietro a questa voglia di riprendere a tutti i costi il normale funzionamento della scuola vi sia tutto questo, di cui un personaggio come Bertoli è talmente intriso da non averne nemmeno coscienza.

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Commercio al dettaglio: la sicurezza del personale è un optional?

Tutti noi abbiamo sicuramente un grande debito di riconoscenza nei confronti di coloro che lavorano nei supermercati. In un contesto difficile come quello che viviamo hanno garantito la distribuzione di beni essenziali. Mai come in queste circostanza si vede quale sia il valore del lavoro e come non vi sia nessun rapporto tra il valore di questo lavoro dal punto di vista sociale (e di altri lavori considerati “minori”) e il riconoscimento in una società come quella capitalista (che passa, prima di tutto, attraverso i livelli salariali).

Oltre ad essere un settore dove le retribuzioni rimangono basse e le condizioni di lavoro sono sempre più precarie, continua a non esistere, nemmeno nel contesto pandemico, alcun obbligo legale, né la volontà da parte delle aziende di garantire una protezione adeguata a questi lavoratori.

Le mascherine, ad esempio, non vengono obbligatoriamente distribuite, ma solo su richiesta e se vi è disponibilità (tanto che buona parte del personale si arrangia a spese proprie). Le distanze sul luogo di lavoro non sono sempre possibili o facili da mantenere proprio a causa degli spazi di lavoro ridotti al minimo per massimizzare le aree di vendita. Inoltre le distanze spesso vengono ignorate proprio a causa delle disposizioni cantonali che considerano accettabile la vicinanza per meno di 15 minuti (senza porre un limite a quante volte questa eccezione possa essere applicata nel corso della giornata).

All’entrata dei supermercati vi è un agente di sicurezza che dilaziona i clienti, ma all’interno nessuno veglia affinché non vi siano raggruppamenti o a garanzia delle distanze con il personale concentrato sul lavoro.

Inoltre l’eccessivo sfruttamento delle superfici interne genera strettoie e corridori angusti in cui le distanze raccomandate sono impossibili da mantenere. Anche quando qualcuno risulta positivo al Covid19 e viene posto in quarantena al proprio domicilio non c’è l’obbligo di isolare preventivamente i colleghi che hanno lavorato a stretto contatto con questa persona.

Viene quindi spontaneo chiedersi se la sicurezza del personale sia un optional; e cosa dobbiamo aspettarci quando, fra qualche giorno, passeremo alla fase di “riapertura”?