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Ne siamo tutti coscienti: non siamo ancora usciti dal tunnel. Nemmeno lontanamente. La situazione, in termini di casi di ospedalizzazione e di decessi a causa del Covid-19 si aggraverà nei prossimi giorni. Se la progressione prosegue allo stesso ritmo attuale, arriveremo a mille decessi, in Svizzera, a inizio settimana prossima. E il “bilancio reale (è) senza dubbio molto superiore dato che i tamponi non sono fatti automaticamente nelle case anziani. Molti anziani hanno, inoltre, redatto delle direttive anticipate e rifiutano ogni accanimento terapeutico.” (Tribune de Genève, 31 marzo 2020).

Malgrado tutto è tempo di un primo bilancio.

Un elemento è palese: i “nostri” governi, federale e cantonali, hanno una pesante responsabilità in questa situazione almeno a tre livelli.

In primo luogo, sono loro a essere i primi responsabili sia della penuria di mascherine e altro materiale sanitario sia della mancanza di tamponi; due strumenti decisivi, secondo l’avviso praticamente unanime della comunità scientifica, per combattere una pandemia. Senza dimenticare i loro tagli di bilancio nella salute pubblica, che si sono tradotti in mancanza di personale (sotto effettivi cronici), nella riduzione del numero di letti in terapia intensiva e nell’abbandono dei programmi di ricerca concernenti i virus emergenti, come la SARS (molto vicina al Covid-19), che avrebbero permesso di creare vaccini e medicamenti.

In secondo luogo, le autorità hanno preso delle misure estremamente tardive, come lo ha sottolineato, per non fare che un esempio, Marcel Salathé, direttore del laboratorio di epidemiologia digitale del Campus Biotech a Ginevra e professore all’EPFL: “abbiamo perso tempo prezioso” (Le Temps, 26 marzo 2020).

Le nostre vite valgono più dei loro profitti!

Infine, il Consiglio federale e i governi cantonali continuano a obbligare centinaia di migliaia di salariati/e a lavorare – sui cantieri, nelle imprese industriali, anche negli uffici – malgrado il fatto che le attività economiche in questione siano tutto meno che essenziali per rispondere ai bisogni fondamentali della popolazione. Questo contribuisce chiaramente alla propagazione del virus.

Su questo ultimo punto dobbiamo fare una precisazione. A un determinato momento, la configurazione d’insieme sarebbe potuta evolvere in un modo diverso. Il Consiglio di Stato ticinese, alla luce dell’aggravamento della situazione a sud delle alpi, ma anche per la pressione esercitata da Unia e dall’MPS, ha in effetti decretato, il 21 marzo, l’interruzione delle attività economiche non essenziali; una decisione chiaramente non in linea con la logica del padronato a livello nazionale e del Consiglio federale. Nei giorni che sono seguiti, una “finestra di opportunità” si era aperta: sarebbe stato possibile, almeno nel canton Vaud –dove, apparentemente il governo è a maggioranza di “sinistra” – infilarsi nella breccia e adottare un decreto dello stesso tipo di quello in vigore in Ticino. Ginevra avrebbe potuto sicuramente accodarsi e in seguito anche altri cantoni; ne sarebbe risultata una sorta di “crisi politica”.

In mancanza di una decisione di questo tipo, il vento è cambiato. Si è aperto lo spazio alle pressioni del Consiglio federale sul governo ticinese, all’appello di Economiesuisse (per non dire all’ingiunzione dell’organizzazione padronale…), affinché autorizzasse la riapertura dei settori di attività, in particolare nell’industria, e, più in generale, a delle prese di posizione in favore di un “ritorno alla normalità” il più presto possibile, di cui la recente arringa dell’UDC non ne è che l’illustrazione più avanzata.

Al di di tutto, è indubbio che, da un punto di vista sindacale, piuttosto che incensare i “sette Saggi” e i loro accoliti locali, bisogna denunciare la loro politica al servizio del padronato. Diciamolo francamente: giocano con le nostre vite per preservare gli interessi dei loro mandanti, per i quali l’accumulazione del capitale è la misura di ogni cosa.

Proteggere la salute dei salariati? L’ultima delle loro preoccupazioni…

Questo è manifesto anche ad altri livelli. I salariati e le salariate che sono costretti/e a lavorare devono farlo spesso in condizioni pericolose per la loro salute. Il Consiglio federale si è rifiutato di mettere in campo degli effettivi controlli per far rispettare le raccomandazioni, pertanto limitate, dell’Ufficio federale della salute pubblica (UFSP), controlli che avrebbero potuto essere implementati da un Ispettorato nazionale del lavoro, incaricato unicamente di questo compito. Come denunciato più volte da Unia – di cui dobbiamo lodare la presa di posizione, contro tutti, in favore dell’interruzione delle attività economiche non essenziali – queste raccomandazioni sono cadute nel nulla. Vi è, inoltre, una grande carenza a livello del materiale di protezione necessario, in particolare le mascherine, anche solo quelle chirurgiche. Allo stesso modo, i tamponi non sono affatto sufficienti, allorché sarebbe necessaria una campagna di test massiccia per isolare immediatamente i/le salariati/e contaminati/e e proteggere così i/le loro colleghi/e e le loro famiglie. I nostri “sette Saggi” non hanno voluto nemmeno mettere in campo una disposizione elementare di protezione della salute: il “diritto di ritirarsi”, come è applicato in Francia, per esempio, che permette a un/a salariato/a di interrompere il lavoro quando ha il “ragionevole dubbio di essere esposto/a a una situazione che presenta un rischio grave e imminente”. 

Nella stessa logica, la liberazione dall’obbligo di lavorare per le persone a rischio, ossia ad esempio i/le salariati/e che soffrono di diabete o di malattie respiratorie croniche (i/le salariati/e “vulnerabili”), se il lavoro a domicilio non è possibile, non è garantita. Rispondendo alle pressioni del padronato, il Consiglio federale ha in effetti modificato l’ordinanza che proteggeva questi/e salariati/e. Senza dimenticare la sua decisione di sopprimere l’applicazione della Legge sul lavoro negli ospedali che prendono a carico pazienti Covid-19. Scopo dell’esercizio: autorizzare il superamento della durata massima del lavoro e ridurre i periodi di riposo per il personale toccato. Nell’interesse dei pazienti?

Disoccupazione in aumento, salari in diminuzione

Il carattere manifestamente al servizio del padronato della politica dei “nostri” governi appare evidente anche analizzando altri aspetti della gestione della pandemia.

Ad esempio se guardiamo la gestione degli impieghi e dei salari. Benché potessero fruire del lavoro ridotto, diversi datori di lavoro hanno continuato a licenziare. Non ha minimamente attraversato il cervello di nessuno dei nostri “sette Saggi”, per esempi di quello o quella che si pretendono “di sinistra”, di proporre il divieto di licenziamento; una misura proclamata, certo con degli effetti limitati, da alcuni loro accoliti di paesi ce ci circondano. Risultato: nel solo canton Vaud, in un mese si registrano già 2800 persone disoccupate in più! Allo stesso modo, non si è mai parlato del mantenimento dell’integralità del salario. La disoccupazione parziale copre infatti solo l’80% della perdita risultante dalla diminuzione delle ore di lavoro. Ebbene, cosa giustifica che i/le salariati/e, in nessun modo responsabili della presente situazione, ne paghino il prezzo? Anche l’ex numero 2 della Banca nazionale svizzera (BNS), Jean-Pierre Danthine, si stupisce: “Non c’è nessuna ragione logica che giustifichi che la compensazione finanziaria fornita dalla disoccupazione temporanea sia inferiore al 100% del salario del lavoratore in interruzione” (Le Temps, 24 marzo 2020)!

Privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite?

Infine, il finanziamento delle misure decise dal Consiglio federale consolida la nostra valutazione d’insieme della natura della sua politica.

Tutte le richieste del padronato sono state accettate. Ma chi le pagherà? Per l’essenziale, le pagheranno le cosiddette “assicurazioni sociali” (l’assicurazione disoccupazione in primo luogo) e le collettività pubbliche. In altri termini i contribuenti (alle assicurazioni sociali) salariati e i contribuenti (cittadini) salariati! La logica all’opera è sempre la stessa: la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite. Se l’impatto economico del Covid-19 è evidente, bisogna comunque ricordare che durante gli ultimi anni i profitti delle imprese, comprese molte PMI, sono stati molto importanti. Non è per nulla che gli azionisti intascano, ogni anno, sempre più dividendi. L’anno scorso, le imprese svizzere hanno versato, per l’esercizio 2018, 47 miliardi ai loro azionisti, vale a dire il doppio di 10 anni fa e venti volte di più di 20 anni fa. In secondo luogo, grandi padroni e azionisti hanno beneficiato di un regalo fiscale dopo l’altro –miliardi di franchi, non noccioline! – l’ultimo in data (la RFFA) è entrata in vigore quest’anno. Non è per nulla se, secondo la classifica della rivista Bilanz, i 300 più ricchi della Svizzera, detengono una ricchezza superiore a 700 miliardi di franchi…

Grandi padroni e azionisti alla cassa!

In un contesto come quello odierno, un governo che non fosse asservito ai grandi padroni e azionisti, avrebbe dovuto esigere dalle imprese toccate, che rinuncino, questa primavera, alla distribuzione dei dividendi (e al riacquisto delle azioni!), come l’hanno fatto alcune grandi banche europee, come la Commerzbank, pertanto poco sospetta di radicalismo di sinistra… (UBS e Credit Suisse hanno invece deciso di addirittura aumentare i loro dividendi!). In caso di rifiuto, avrebbe potuto decidere di tassare integralmente i dividendi in questione, compresi quelli provenienti dalle riserve provenienti dagli apporti in capitale, sulla base di un tasso del 100%. E perché non introdurre, in parallelo, un’imposta federale sulla fortuna dei milionari?

Ecco come alimentare massicciamente un fondo pubblico “per la protezione della vita umana, per la salute pubblica e per il mantenimento degli impieghi e dei salari”! Per finanziare la produzione massiccia di materiale di protezione, di mascherine, di tamponi e la loro messa a disposizione generalizzata e gratuita. Per garantire il mantenimento integrale del salario di tutte e tutti i lavoratori e le lavoratrici. Per rinforzare i mezzi a disposizione della sanità pubblica e versare un “premio di rischio” conseguente ai salariati e alle salariate che sono al fronte, in primo luogo il personale ospedaliero.

Non c’è nessuna ragione per innaffiare tutte le imprese (e non facciamo qui riferimento ai piccoli indipendenti più adepti dell’autosfruttamento che allo sfruttamento degli altri…), comprese quelle che continuano a licenziare e a versare dividendi ai loro azionisti, invitando i/le salariati/e a pagare l’integralità della fattura!

Note di speranza

Che nel sistema capitalista, il governo fosse al servizio del padronato non è certamente una scoperta. Marx e Engels lo scrivevano già più di 170 anni fa nel Manifesto del partito comunista: “Il governo moderno non è che un comitato che gestisce gli affari comuni dell’intera classe borghese”. Nulla di nuovo quindi. È comunque necessario, soprattutto in questo periodo di appelli all’unità nazionale, ricordare chiaramente che la realtà è un’altra. Un mondo dove la brutalità con la quale sono trattati i/le salariati/e si combina con il disprezzo della protezione del clima e della biodiversità. Un mondo che porta l’umanità alla sua perdita e che quindi bisogna cambiare, per creare una società fondata sul diritto all’esistenza, sul bene comune e sull’appropriazione sociale. L’impegno costante, dei salariati, soprattutto delle donne, per far girare la società, a rischio della loro salute, in questa situazione di crisi, la simpatia e la riconoscenza di massa che questo impegno ha suscitato, come il formidabile slancio di solidarietà che si è manifestato un po’ ovunque, soprattutto per aiutare le persone anziane, ne disegnano i contorni. (2 aprile 2020)

* sindacalista