L’umanità sta affrontando una profonda crisi di civiltà. La crisi terminale del modello prometeico di civiltà della modernità coloniale. Si tratta di una crisi multiforme, multidimensionale, di un modello di civiltà che in termini sintetici si potrebbe definire antropocentrico, patriarcale, coloniale, classista, razzista, e i cui modelli egemonici di conoscenza, la sua scienza e la sua tecnologia, lungi dall’offrire una qualche via d’uscita a questa crisi di civiltà, contribuiscono ad approfondirla.
Queste varie dimensioni del modello di civiltà egemonico non sono affatto indipendenti l’una dall’altra. Al contrario, si retro-alimentano e si rinforzano tra loro. I dogmi antropocentrici e patriarcali del progresso e dello sviluppo, le fantasie di crescita infinita in un pianeta limitato, stanno minando velocemente le condizioni che rendono possibile la riproduzione della vita sul pianeta terra. Questo modello di sviluppo e progresso ha raggiunto il suo limite. Nonostante una elevata porzione della popolazione non abbia accesso alle condizioni minime vitali (alimentazione, acqua potabile, un tetto, ecc.), l’umanità nel suo insieme ha già superato i limiti della capacità di carico della Terra. Senza un freno nel breve periodo a questo modello di crescita debordante, e un’inversione di marcia in direzione della decrescita, dell’armonia con il resto della vita, e senza una radicale ridistribuzione dell’accesso ai beni comuni del pianeta, non è più garantita la continuità della vita umana a medio termine.
Ciascuna delle dimensioni principali di questa crisi è stata incrementata, nelle ultime decadi, dalla globalizzazione neoliberista. In questi ultimi decenni hanno fatto passi da gigante i processi di mercantilizzazione, appropriazione e sottomissione tanto delle dinamiche naturali di riproduzione della vita, quanto delle pratiche culturali e delle conoscenze sapienziali dei diversi popoli del mondo, al fine di assoggettarli alle esigenze di accumulazione del capitale.
La cultura di dominazione scientifico-tecnologica sulla cosiddetta “natura”, che equipara il benessere umano con l’accumulazione di oggetti materiali e con la crescita economica infinita – la cui massima espressione storica è il capitalismo – ha i giorni contati. L’inclusione di nuovi territori da sfruttare, l’appropriazione delle conoscenze altrui, come anche la manipolazione dei codici della vita (con la biotecnologia) e della materia (con la nanotecnologia), accelerano il raggiungimento dei limiti di un pianeta finito. In un periodo storico nel quale i modelli egemonici di civiltà si mostrano via via impraticabili, in cui la monocultura della modernità coloniale si avvicina al suo orizzonte, l’umanità ha bisogno con urgenza della diversità e molteplicità delle culture, di altri modi di conoscere, pensare, vivere, come fonti di alternative per far fronte a questa crisi di civiltà.
Tuttavia, questi altri, come nel caso dei popoli e delle culture indigene e contadine di tutto il pianeta, sono minacciati e devastati dall’avanzare inesorabile della logica di monetizzazione di tutte le dimensioni della vita e dai processi dell’accumulazione per esproprio.
Il capitalismo, alla scala attuale, con la sua inevitabile logica espansiva di devastazione, è incompatibile con il mantenimento della vita come la conosciamo. Di conseguenza, la necessità di mettere un freno a questa macchina impazzita è ormai una questione di vita o di morte.
La distruzione accelerata delle condizioni che hanno reso possibile la creazione e riproduzione della vita
Nonostante il negazionismo persista, come vedremo più avanti, principalmente nei settori legati all’industria fossile e da parte dei neo-conservatori negli Stati Uniti, per la comunità accademico-scientifica internazionale e per le centinaia di milioni di persone che affrontano oggi in tutto il pianeta le conseguenze del collasso climatico, la sua realtà e gravità e le sue cause antropogeniche sono al di là di ogni dubbio.
Il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC)
L’analisi più completa, la più documentata sulle attuali trasformazioni climatiche su scala planetaria, è quella effettuata dal Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici con cinque rapporti successivi dal 1990.[1]
Questi rapporti sono il risultato del lavoro di centinaia di specialisti in una vasta gamma di discipline legate al clima, provenienti da tutto il mondo, sulla base dell’analisi di tutte le ricerche pubblicate dalle riviste scientifiche specializzate e di altri rapporti prodotti da tutti i centri di ricerca scientifica dedicati a questioni connesse al clima in tutto il pianeta.
In ognuno dei successivi rapporti dell’IPCC, la descrizione si è fatta via via più severa e con sempre maggiori livelli di attendibilità delle tendenze climatiche presentate. Si tratta di rapporti che, lungi dall’avere intenti allarmisti, hanno un’angolatura conservatrice. Non solo sono richiesti, per ognuna delle affermazioni prodotte, elevati livelli di consenso tra gli scienziati che partecipano, ma le conclusioni passano anche attraverso il filtro dei rappresentanti dei governi di tutto il mondo, a nome dei quali questo gruppo presenta i suoi risultati.
Alcuni di questi governi, come nel caso degli Stati Uniti, hanno fatto il possibile per minimizzare, e anche negare, la gravità delle trasformazioni climatiche attualmente in corso (Rattani, 2018).
Tra le principali conclusioni presentate nell’ultimo rapporto dell’IPCC per il 2014 hanno particolare rilevanza le seguenti:
L’influenza dell’uomo sul sistema climatico è chiara, e le emissioni di gas serra di origine antropica sono al livello più alto della storia. Il riscaldamento nel sistema climatico è inequivocabile e, dagli anni ’50, molti dei cambiamenti osservati non avevano precedenti a memoria d’uomo. Ognuno degli ultimi tre decenni è stato successivamente più caldo sulla superficie della Terra di qualsiasi decennio precedente a partire dal 1850: “(…) Quanto maggiore è la perturbazione che l’attività umana produce sul clima, tanto più gravi saranno i rischi di impatti seri, generalizzati e irreversibili sulle persone e sugli ecosistemi, e più durevoli saranno i cambiamenti di tutte le componenti del sistema climatico.
Nel periodo compreso tra il 1992 e il 2011, le calotte di ghiaccio della Groenlandia e dell’Antartide hanno perduto massa, ed è probabile che la perdita si sia verificata ad un ritmo più veloce tra il 2002 e il 2011. I ghiacciai hanno continuato a ridursi in tutto il mondo. È molto probabile che la superficie media annua di ghiaccio marino dell’Artico sia diminuita nel periodo 1979-2012 dal 3,5% al 4,1% ogni decennio. Dalla metà del XIX secolo, il tasso di aumento del livello del mare è stato superiore alla media dei due millenni precedenti.
Le emissioni di gas serra provocate dall’uomo sono aumentate dall’era preindustriale, in gran parte come risultato della crescita economica e demografica, e sono ora più alte che mai. Di conseguenza, sono state raggiunte concentrazioni in atmosfera di anidride carbonica, metano e protossido di azoto senza paragoni, almeno per quanto riguarda gli ultimi 800.000 anni.
Dal 1950 circa, sono stati osservati cambiamenti in molti fenomeni meteorologici e climatici estremi.
In tutti gli scenari di emissione valutati, le proiezioni sottolineano che le temperature superficiali continueranno ad aumentare per tutto il XXI secolo. È molto probabile che le ondate di calore si verifichino più frequentemente e durino più a lungo, e che gli episodi di precipitazioni estreme siano più intensi e frequenti in molte regioni. L’oceano continuerà a riscaldarsi e ad acidificarsi e il livello medio globale del mare continuerà a salire.
Il cambiamento climatico aggraverà i rischi esistenti e creerà nuovi rischi per i sistemi naturali e umani. I rischi sono distribuiti in modo disomogeneo e generalmente maggiori per gli individui e le comunità svantaggiate all’interno dei paesi, indipendentemente dal loro livello di sviluppo. Molti aspetti del cambiamento climatico e i relativi impatti continueranno per secoli, anche se le emissioni di gas serra venissero fermate. I rischi di cambiamenti bruschi o irreversibili aumenta man mano che aumenta la temperatura.
Senza ulteriori sforzi di mitigazione oltre a quelli esistenti oggi, e pur portando a termine un lavoro di adattamento, per la fine del XXI secolo il riscaldamento provocherà un rischio da alto a molto alto di impatti gravi, diffusi e irreversibili su scala mondiale.
Il rapporto di sintesi sottolinea che abbiamo i mezzi per limitare il cambiamento climatico e i suoi rischi e disponiamo di molte soluzioni che permetterebbero un continuo sviluppo economico e umano. Tuttavia, per stabilizzare l’aumento di temperatura al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali sarebbe necessario un cambiamento radicale e urgente dello status quo. Inoltre, più aspettiamo ad agire, più alto saranno il costo e le sfide tecnologiche, economiche, sociali e istituzionali che dovremo affrontare (Gruppo Intergovernativo di Esperti sul cambiamento climatico, 2014).”
Oltre ai rapporti dell’IPCC, sono diversi gli approcci metodologici che utilizzano l’informazione molto vasta resa accessibile dai sofisticati strumenti tecnologici di cui disponiamo per poter descrivere ciò che sta accadendo sul pianeta.
Non esiste un consenso generalizzato su nessuna di queste prospettive, e alcune hanno generato intense polemiche. Il presente testo non ha lo scopo di relazionare su questi dibattiti né di valutare il valore relativo di ciascuno di essi. Ciò che è interessante notare è che, in termini generali, tutti sono d’accordo nel dire che sono stati superati i limiti della capacità di carico del pianeta e che la vita, così come la conosciamo, è in grave pericolo. Vale la pena soffermarsi brevemente su alcuni di questi approcci, ampiamente circolati, dato che permettono di constatare che se non si adottano provvedimenti drastici in proporzione alla gravità della crisi che dobbiamo affrontare come umanità, non è in alcun modo per mancanza di informazioni o perché ci sia un ragionevole dubbio su ciò che sta accadendo.
I limiti planetari
Lo Stockholm Resilience Centre dell’Università di Stoccolma ha elaborato un modello a nove variabili, che sono definite come limiti planetari che sarebbe indispensabile monitorare per garantire la salute dell’ecosistema terrestre. Al di là dei dibattiti sulla possibilità di definire limiti oggettivi quantificabili (Brand e Wissen, 2018), questo approccio ha il pregio di allargare la prospettiva per includere una serie di dimensioni che consentono un’analisi completa dello stato del pianeta. Queste variabili sono:
1. Il cambiamento climatico.
2. Cambiamenti nell’integrità della biosfera (perdita di biodiversità ed estinzione di specie).
3. Distruzione della cappa di ozono stratosferico.
4. Acidificazione degli oceani.
5 Flussi biochimici nell’atmosfera (cicli di fosforo e azoto).
6. Cambiamenti di utilizzo del terreno (ad es. deforestazione).
7. Uso di acqua dolce.
8. Carico di aerosol atmosferico (particelle microscopiche nell’aria che influiscono sul clima e sugli organismi viventi).
9.Introduzione di nuove entità (ad es. inquinanti organici, materiali radioattivi, nanomateriali e microplastiche).
Queste nove dimensioni sono state rappresentate su una scala di quattro categorie:
1. Limiti che finora non sono stati quantificati.
2. Sotto i limiti (sicuro).
3. Zona di incertezza (rischio crescente).
4. Oltre la zona di incertezza (alto rischio).
Secondo il rapporto aggiornato per il 2015, quattro di questi limiti sono già stati superati a causa dell’attività umana: il cambiamento climatico, l’integrità della biosfera, i cambiamenti di utilizzo del terreno e i flussi biochimici nell’atmosfera. Due di questi, il cambiamento climatico e l’integrità della biosfera, sono qualificati come limiti fondamentali, il cambiamento dei quali porterebbe cioè il sistema Terra a un nuovo stato (Stockholm Resilience Center, 2015).
Biocapacità e impronta ecologica
La Rete globale dell’impronta ecologica (Global Footprint Network) cerca di quantificare la pressione che gli esseri umani esercitano sui sistemi di riproduzione della vita sul pianeta. Per farlo, prende in esame due categorie principali: la biocapacità e l’impronta ecologica.
La biocapacità o capacità biologica è definita come la capacità degli ecosistemi di produrre materiali biologici e riassorbire i rifiuti prodotti dagli esseri umani, con gli schemi di gestione e le tecnologie attuali.
L’impronta ecologica è un indicatore dell’impatto ambientale generato dalla domanda umana di risorse esistenti negli ecosistemi del pianeta e dalla nostra capacità di trattare i rifiuti, in relazione alla capacità ecologica della Terra di rigenerare queste capacità. Per sintetizzare la nozione di impronta ecologica in un indicatore unitario, i calcoli dell’impronta ecologica vengono effettuati sommando il numero medio di ettari produttivi che sarebbero necessari per un determinato modello di vita e di consumo, sia esso individuale, comunale, regionale (per paese e per continente) o globale. Nel calcolo sono incorporati i seguenti fattori: 1. superficie edificata, abitazioni, strade, etc; 2. superficie richiesta per assorbire l’impronta ecologica generata; 3. superficie agricola; 4. superficie adibita a pascolo; 5. superficie boschiva; 6. superficie utilizzata per la pesca (Global Footprint Network, senza data). Oggi, e di gran lunga, la superficie necessaria per riassorbire l’impronta di carbonio è la più forte di tutte le pressioni sulla biocapacità del pianeta.
Secondo questa prospettiva e i suoi metodi di calcolo, se l’impronta ecologica dell’umanità nel suo complesso è inferiore a quella della biocapacità del pianeta, c’è una riserva ecologica. Se, invece, l’impronta ecologica è maggiore della biocapacità del pianeta, si verifica un deficit ecologico o un debito ecologico.
L’equivalente planetario è il numero di pianeti Terra che servirebbero per sostenere l’impronta ecologica dell’umanità data una certa impronta ecologica a livello globale, per paese, ecc.
Secondo i calcoli della Rete, l’umanità nel suo insieme ha utilizzato meno della biocapacità totale del pianeta fino ai primi anni ’70, accumulando da allora un crescente deficit ecologico.
Dagli anni Settanta, l’umanità ha avuto un sovrautilizzo ecologico, con una domanda annuale di risorse che supera ciò che la Terra può rigenerare ogni anno. Oggi l’umanità usa l’equivalente di 1,7 Terre per fornire le risorse che usiamo e assorbire i nostri rifiuti. Ciò significa che ora la Terra impiega un anno e sei mesi per rigenerare ciò che usiamo in un anno. Utilizziamo più risorse e servizi ecologici di quanto la natura possa rigenerare, attraverso la pesca eccessiva, lo sfruttamento eccessivo dei boschi e il rilascio di più anidride carbonica nell’atmosfera di quanto possano assorbire le foreste (Global Footprint Network, senza data).
Attraverso la quantificazione dell’impronta ecologica è possibile valutare la pressione umana, sia sull’intero pianeta, sia su territori, continenti, paesi, ecc. più limitati. L’impronta ecologica varia notevolmente da una regione all’altra del pianeta a seconda dei modelli di vita e dei livelli di consumo delle popolazioni. I paesi industrializzati del Nord del mondo, sia in termini di accumulazione storica che per le loro attività attuali, hanno un’impronta ecologica molto maggiore di quella dei paesi del Sud del Mondo e tendono a superare di gran lunga la capacità di carico dei propri territori.
Se c’è un deficit ecologico regionale o nazionale, significa che la regione sta importando biocapacità per vie commerciali o consumando crediti ecologici regionali, o scaricando rifiuti in beni comuni globali come l’atmosfera. A differenza che al livello nazionale, il deficit ecologico globale non può essere compensato con il commercio ed equivale quindi al sovrautilizzo. (Global Footprint Network, senza data).
L’impronta ecologica che oggi supera la capacità di carico globale si verifica in condizioni estremamente disuguali. Come già detto, una parte significativa della popolazione mondiale non ha accesso regolare ai beni di prima necessità come cibo, acqua, abitazione ed energia. Per contro, affinché l’intera popolazione del pianeta abbia gli attuali livelli di consumo medio della popolazione statunitense, sarebbero necessari 4,1 pianeti (McDonald, 2015).
L’antropocene e la sesta estinzione di massa
Un altro importante contributo alla diagnosi e alla quantificazione della situazione ambientale del pianeta sono i rapporti denominati Living Planet [Pianeta Vivente], prodotti congiuntamente da wwf International (Svizzera); Zoological Society Institute of Zoology, Londra; Resilience Centre, Università di Stoccolma; Global Footprint Network; Stockholm Environment Institute and Metabolic, Paesi Bassi (wwf e altri, 2016, 2018). Questi rapporti affrontano la crisi ambientale globale monitorando ciò che sta accadendo alla biodiversità e all’abbondanza di specie negli ecosistemi del pianeta. Il rapporto del 2016 si concentra sulla caratterizzazione dell’antropocene come il sesto evento di estinzione di massa nel mondo.
Dalla metà del XX secolo, le dimensioni e la scala delle attività umane sono cresciute in modo esponenziale. Di conseguenza, le condizioni ambientali che hanno favorito questa formidabile crescita cominciano a cambiare. Per simboleggiare questa condizione ambientale emergente, il premio Nobel Paul Crutzen (2002) e altri autori hanno sostenuto che siamo passati dall’olocene a una nuova epoca geologica, che hanno chiamato “antropocene”. Nell’antropocene, il nostro clima è cambiato più rapidamente, gli oceani sono diventati più acidi e interi biomi sono scomparsi, tutto ad un ritmo che può essere misurato nell’arco della vita di un essere umano.
L’entità del nostro impatto sul pianeta è tale che l’antropocene potrebbe essere descritto come il sesto evento di estinzione di massa nel mondo. In passato, eventi di questo tipo hanno richiesto da centinaia di migliaia a milioni di anni. Ciò che rende l’antropocene così impressionante è che questi cambiamenti si verificano in periodi di tempo estremamente ridotti. Inoltre, il motore di questa transizione è eccezionale. È la prima volta che un’era geologica può essere determinata da ciò che una singola specie (homo sapiens) ha consapevolmente fatto al pianeta, in contrapposizione a ciò che il pianeta ha imposto alle specie che lo abitano (WWF e altri, 2016).
L’indicatore principale con cui Living Planet lavora per studiare la diversità è l’Indice Globale del Pianeta Vivente, che monitora nel tempo 14.152 osservazioni di 3.706 specie di vertebrati (mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili) in tutto il mondo. Secondo i risultati di questo monitoraggio, tra il 1970 e il 2012, in soli 42 anni, “l’abbondanza della popolazione vertebrata è calata del 58%” senza alcun segnale di rallentamento del tasso annuo di diminuzione. (wwf e altri, 2016, 12).
Tra il 1972 e il 2012, le popolazioni terrestri sono diminuite del 38%, quelle d’acqua dolce dell’81% e quelle marine del 36%. “Se le tendenze attuali persistono, entro il 2020 le popolazioni di vertebrati saranno diminuite in media del 67% dal 1970 (wwf e altri, 2016, 14). Secondo il rapporto del 2018, con dati aggiornati al 2014, “il calo della popolazione delle specie è particolarmente pronunciato ai tropici, con il Sud e Centro America che subiscono il calo più drammatico, una perdita dell’89% rispetto al 1970 (WWF e altri, 2018).
Secondo il Segretario esecutivo della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica, Ahmed Djoghlaf, si stanno estinguendo 150 specie animali al giorno, la più grande perdita di diversità biologica dalla scomparsa dei dinosauri (El País, 2007).
Impatti socio-ambientali attuali e futuri delle trasformazioni climatiche globali
Sebbene il riscaldamento globale abbia ricevuto la maggiore attenzione e sia stato maggiormente documentato negli ultimi decenni, di per sé non spiega le molteplici dimensioni del collasso ambientale globale. Non si tratta più di potenziali impatti a medio o breve termine, ma piuttosto di trasformazioni che stanno alterando e distruggendo le condizioni per la riproduzione della vita di centinaia di milioni di persone oggi.
Gli impatti più importanti sono i seguenti:
- Aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi meteorologici estremi: uragani, inondazioni, siccità, ondate di calore, incendi boschivi. L’uragano Maria ha segnato un prima e un dopo nella vita degli abitanti dell’isola di Porto Rico. Un anno dopo il suo evento, con migliaia di case ancora distrutte e senza servizi di base, si è verificata una migrazione significativa. Questa devastazione, in condizioni di profondo indebitamento del settore pubblico, viene utilizzata per politiche di austerità draconiane e privatizzazioni che minacciano anche l’Università di Porto Rico.
- Siccità prolungata, processi di desertificazione e perdita diffusa di terreni agricoli e zootecnici. In Africa, in particolare, questo ha generato massicce migrazioni climatiche nella misura in cui le condizioni per la riproduzione della vita vengono distrutte.
- L’innalzamento del livello del mare sta portando alla scomparsa delle isole abitate. Centinaia di milioni di persone, soprattutto in Bangladesh, vivono in territori con un’altitudine minima sul livello del mare e sono minacciate da inondazioni permanenti (Ahmed, 2015). Le città costiere di tutto il pianeta sono a grave rischio.
- Lo scioglimento dei ghiacciai mette a rischio la vita di un sesto dell’umanità che dipende dai fiumi che nascono dai ghiacciai (Jamail, 2018). Ciò è particolarmente minaccioso per il Sud America, dove si trova il 99% di tutti i ghiacciai tropicali del pianeta, ghiacciai estremamente sensibili ai cambiamenti climatici. Negli ultimi 50 anni si è registrata una costante riduzione del loro volume e della loro copertura. Questo è particolarmente grave per la Bolivia e il Perù, poiché gran parte della loro popolazione vive in zone aride fortemente dipendenti dai fiumi alimentati dai ghiacciai (Rabatel e altri, 2013).[2]
- La perdita accelerata della biodiversità, condizione fondamentale per la conservazione della vita, diventa ancora più grave nelle condizioni dei cambiamenti climatici accelerati che si stanno verificando. Interi sistemi ecologici possono collassare a causa della perdita di biodiversità. Può avvenire l’estinzione funzionale di una specie quando questa, pur conservando livelli di una relativa abbondanza, cessa di mantenere interazioni con l’ambiente, senza le quali possono verificarsi effetti devastanti su altre specie (Rabatel e altri, 2013). La capacità di adattamento alle attuali mutevoli condizioni climatiche è significativamente limitata se la biodiversità è ridotta. Gravi conseguenze sociali e politiche derivano dalla perdita della varietà dei semi degli alimenti di base come grano, mais, soia, patata, e dal controllo oligopolistico che poche multinazionali hanno su di essi (…). Il collasso massiccio della popolazione di insetti sul pianeta, causato dall’azione umana, ha ricevuto meno attenzione ed è stato studiato meno sistematicamente della perdita di biodiversità e di popolazione di altre varietà di vita animale e vegetale. Tuttavia, gli insetti costituiscono una componente essenziale dei sistemi vitali del pianeta. Tra le altre funzioni, sono una fonte fondamentale di cibo per uccelli e pesci. La perdita di impollinatori rappresenta una grave minaccia per la riproduzione di piante sia selvatiche che coltivate, e perciò per la sicurezza alimentare dell’umanità (Bidau, 2018).
- Inquinamento su larga scala del suolo e dell’acqua dovuto all’uso di agrotossici in agricoltura, e alla scala, alla concentrazione e ai metodi utilizzati nelle cosiddette fabbriche di animali, come le grandi industrie suinicole.
- Inquinamento locale nelle grandi città del Sud del mondo, con gravi effetti sulla salute dei loro abitanti.
- L’innalzamento della temperatura del mare e l’acidificazione stanno deteriorando le barriere coralline che svolgono un ruolo vitale nella protezione delle aree costiere, fungono da habitat per molte specie marine, sono una fonte di azoto e di altri nutrienti essenziali per catene alimentari marine e contribuiscono alla fissazione del carbonio e dell’azoto (Queensland Museum, 2010-2019). L’IPCC afferma con un elevato grado di certezza che con un aumento della temperatura di 1,5 gradi Celsius scomparirebbe tra il 70% e il 90% delle barriere coralline, e il 99% se l’aumento di temperatura raggiungesse i 2 gradi Celsius (Intergovernmental Panel on Climate Change, 2018).
- Secondo il rapporto Lancet sulla salute e il cambiamento climatico nel 2018, “gli attuali cambiamenti nelle ondate di calore, nella capacità lavorativa, nelle malattie trasmesse da vettori e nella sicurezza alimentare forniscono un allarme tempestivo del molteplice e travolgente impatto sulla salute pubblica se le temperature continueranno ad aumentare come previsto. Le tendenze dell’impatto, dell’esposizione e delle vulnerabilità di fronte al cambiamento climatico mostrano un livello di rischio inaccettabilmente elevato per la salute attuale e futura delle popolazioni di tutto il mondo (Lancet, 2018).
Mentre c’è pieno consenso nelle comunità scientifiche sulla gravità dei cambiamenti ambientali e sulla loro origine antropica, non c’è un pieno consenso sul tempo di cui l’umanità dispone prima che la continuazione di questi processi devastanti e soprattutto la costante produzione di gas a effetto serra provochino effetti catastrofici e irreversibili. Tale è la complessità di questi processi, il loro carattere non lineare e le loro dinamiche di feedback, che anche i sistemi di calcolo più sofisticati non sono in grado di stabilire con precisione quali potranno essere i punti di non ritorno a partire dai quali tutto cambierebbe. Secondo l’Istituto di ricerca sull’impatto climatico di Potsdam e una serie di altre istituzioni riconosciute che lavorano sul tema (Potsdam Institute for Climate Impact Research e altri, 2017),[3] il tempo a disposizione per adottare misure drastiche è straordinariamente breve.
Secondo queste istituzioni, l’obiettivo raggiunto con l’accordo di Parigi per evitare che l’aumento della temperatura media globale superi i due gradi, e per quanto possibile non superare di un grado e mezzo i livelli preindustriali, è considerato necessario per prevenire rischi incalcolabili per l’umanità. Tuttavia, sarebbe realistico solo se le emissioni di gas a effetto serra raggiungessero il loro massimo entro il 2020 al più tardi, e da quell’anno in poi iniziassero a diminuire. Secondo questo rapporto, se questo obiettivo non viene raggiunto, il pianeta corre il rischio di andare oltre soglie al di là delle quali si scatenerebbero grandi, e fondamentalmente irreversibili, cambiamenti nel sistema terrestre.
Come rispondono a queste sfide i poteri di fatto del sistema capitalistico mondiale?
In questo contesto di profonda crisi, che sta corrodendo le condizioni per la riproduzione della vita, gli immaginari del progresso, dello sviluppo, di una crescita senza fine continuano a guidare le politiche pubbliche e le priorità di investimento in tutto il sistema globale. Per le istituzioni economiche e finanziarie multilaterali, come il Fondo Monetario Internazionale, la crescita del Prodotto Interno Lordo continua ad essere il criterio principale in base al quale vengono valutati i risultati dell’attività economica, un obiettivo in funzione del quale formulare gli orientamenti principali della politica economica. In tutti i paesi del mondo si continua a valutare i risultati del governo sulla base di tali criteri. Questo consenso sull’auspicabilità di una “forte crescita economica globale” è stato ratificato nella dichiarazione finale del G20 tenutosi a Buenos Aires alla fine del 2018 (G20, 2019).
In contrasto con i numerosi segnali di allarme formulati dalle diagnosi a cui si è fatto riferimento, tutte le principali proiezioni sul consumo di combustibili fossili indicano una crescita sostenuta del consumo ben oltre il 2020. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, nel caso in cui gli impegni dell’Accordo di Parigi fossero rispettati, la domanda di petrolio continuerà a crescere almeno fino al 2040, ultimo anno per il quale sono state effettuate le proiezioni (Agenzia Internazionale dell’Energia, 2017). In quelle che chiamano “economie avanzate”, continuerebbe una lenta riduzione delle emissioni di gas serra, con le emissioni della Cina che si stabilizzerebbero per alcuni anni e poi inizierebbero lentamente a diminuire intorno al 2030. Tuttavia, queste riduzioni sarebbero più che compensate dall’aumento sostenuto che continuerebbe a verificarsi in quello che chiamano “il resto del mondo”.
Il rapporto Shell sulla transizione energetica per l’anno 2018 esplora l’andamento delle emissioni di gas serra e della temperatura in tre possibili scenari. In uno solo di essi, uno scenario in cui la società intraprende le azioni necessarie per rispettare gli accordi di Parigi, sarebbe possibile evitare temperature superiori ai due gradi centigradi. “Ciò richiederebbe una collaborazione senza precedenti e sostenuta in tutti i settori della società, supportata da politiche governative altamente efficaci” (Shell, 2018). Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi ha reso questi obiettivi una remota possibilità.
Secondo l’impresa BP, l’uso di combustibili fossili crescerà almeno fino al 2040, l’ultimo anno per cui sono state fatte delle stime. Le emissioni di gas serra aumenteranno anch’esse (BP, 2018, 7, 14). Le proiezioni della ExxonMobil indicano che tra il 2015 e il 2040 il prodotto interno lordo mondiale raddoppierà. Tra il 2015 e il 2030, la classe media mondiale, con i corrispondenti livelli di consumo, avrà una crescita ancora maggiore. Nelle proiezioni fino all’anno 2040, il consumo di combustibili fossili continuerebbe a crescere in modo sostenuto fino a quell’anno, in cui il 60% del fabbisogno energetico del pianeta sarebbe soddisfatto da petrolio e gas (ExxonMobil, 2017).
Cosa dovrebbe cambiare perché non cambi nulla?
Le élites economiche, politiche e scientifiche del pianeta si sono poste una domanda complessa in modo più o meno esplicito: come rispondere alla profonda crisi climatica senza doversi confrontare con i modelli di civiltà che ad essa hanno condotto e senza mettere in discussione le relazioni di potere che oggi controllano le decisioni che definiscono il corso del pianeta, senza mettere in discussione le forme dominanti di conoscenza della modernità coloniale? In altre parole, come ne Il Gattopardo, cosa si dovrebbe cambiare perché non cambi nulla? È possibile dare risposte efficaci partendo dagli stessi modelli economici, politici, commerciali e scientifico-tecnologici che hanno portato l’umanità alla crisi attuale? Non sarebbe opportuno prendere sul serio il monito di Albert Einstein: “Non possiamo risolvere i problemi con la stessa mentalità con cui li abbiamo creati”?
È possibile proporre vie d’uscita che permettano alla vita umana di sopravvivere sul pianeta senza mettere radicalmente in discussione la modernità coloniale, cioè, secondo le parole di Santiago Castro-Gómez (2000), il “tentativo faustiano di sottomettere tutta la vita al controllo assoluto dell’uomo sotto la guida sicura della conoscenza”?
È possibile trovare soluzioni alla profonda crisi ambientale senza alterare le straordinarie disuguaglianze esistenti, e senza una drastica riduzione dei modelli di consumo delle minoranze più ricche del pianeta, quando si stima che quasi il 50% delle emissioni di carbonio sia il risultato delle attività di circa il 10% della popolazione globale, che il 70% delle emissioni sia generato dal 20% della popolazione (Anderson, 2018), che “solo 10 paesi, con gli Stati Uniti in testa, siano storicamente responsabili dei due terzi dei gas emessi e che attualmente 10 nazioni siano responsabili di oltre il 70% delle emissioni” (Ribeiro, 2018)?
Per le potenze egemoniche, la sfida sta nel come prospettare i problemi di fronte a cui si trova l’umanità in modo tale che possano essere affrontati senza mettere in questione le fondamenta del modello di civiltà attuale. Come effettuare la diagnosi in modo che abbia delle soluzioni tecnologiche e di mercato e che, lungi dal mettere in discussione l’ordine capitalistico esistente, lo riaffermi?
C’è una stretta e inscindibile sovrapposizione tra le dimensioni strettamente ontologiche ed epistemologiche che hanno a che fare con le posizioni essenziali della modernità coloniale (la separazione soggetto/oggetto, la natura come oggetto, i dogmi dello sviluppo del progresso, della crescita infinita, gli immaginari della possibilità di un controllo totale sull’uomo e sulla natura), da un lato, e dall’altro gli interessi politici, geopolitici ed economici, i luoghi a partire dai quali si formulano diagnosi e si propongono soluzioni alle sfide che l’umanità oggi si trova ad affrontare.
Un modello ampiamente diffuso per quanto riguarda le risposte formulate dai centri di potere politico, economico e scientifico contemporanei è il tentativo di ridurre a poche, e preferibilmente a un’unica variabile, la complessa interrelazione dei fattori che influenzano i cambiamenti climatici. Se questo può essere sintetizzato in una singola cifra, ancora meglio. Questo è espressione del riduzionismo radicale che confonde la realtà con la quantificazione. Proprio come nell’economia l’obiettivo era quello di esprimere la complessa realtà economica in una cifra, quella del PIL, negli studi, nei dibattiti e negli accordi internazionali sul cambiamento climatico si è proceduto nella direzione di questa stessa logica riduzionista.
Le molteplici dimensioni del collasso ambientale planetario sono state ridotte ad un aspetto fondamentale: il riscaldamento globale, inteso come l’aumento della temperatura media della superficie terrestre.
Questo a sua volta è stato ridotto ad un’unica causa: l’emissione di gas serra, principalmente come risultato della combustione di combustibili fossili. Si crea quindi un indicatore sintetico: la concentrazione di particelle di gas serra nell’atmosfera, espressa in parti per milione, in quella che Camila Moreno ha chiamato la metrica del carbonio.[4] In questo modo, la crisi di un modello di civiltà antropocentrico, patriarcale e monoculturale di crescita infinita è affrontato come se fosse una questione tecnica. Come limitare la concentrazione di gas serra nell’atmosfera attraverso una riduzione delle emissioni e meccanismi di cattura? Quali normative, quali risposte tecnologiche e quali investimenti sarebbero necessari a tal fine? Come sostiene Moreno, il modo in cui descriviamo e inquadriamo un problema predetermina il tipo di soluzioni e di risposte che possiamo prendere in considerazione. Cioè, mentre si mettono in luce alcune dimensioni del problema, altre vengono oscurate o nascoste. Mentre si evidenzia la rilevanza e l’utilità di certi modelli di conoscenza e delle loro capacità tecnologiche, altri sono negati o distrutti. Quando si tratta di questioni complesse in relazione alle quali esistono interpretazioni diverse e interessi divergenti, una prima area di confronto e di esercizio di rapporti di potere disuguali consiste proprio nel controllo dell’agenda, nella definizione delle questioni di base: come intendere quello che è in gioco? Nella misura in cui si impone una sola interpretazione, le possibili risposte provenienti da altri soggetti, altre conoscenze, altre prospettive vengono escluse, anche se la storia ha dimostrato più volte che molte di quelle altre culture hanno una maggiore capacità di vivere in armonia con la natura rispetto alla moderna logica coloniale, nonostante tutta la sua sofisticazione scientifico-tecnologica. Da una prospettiva monoculturale autoritaria, viene negata la possibilità di altre scelte di vita, di altre culture sul pianeta Terra. Prospettive come il Sumak Kawsay e il Suma Qamaña [nozioni indigene del Buon Vivere e di una Vita Degna] o la difesa dei diritti della natura come punti di partenza per avviare le necessarie profonde trasformazioni paradigmatiche nel rapporto degli esseri umani con il resto delle reti della vita, non meritano nemmeno qualche momento di attenzione.
In questo modo, le diagnosi, i dibattiti e gli accordi internazionali sul cambiamento climatico hanno funzionato come dispositivi che hanno rafforzato l’esclusione e il controllo coloniale sugli “altri”, che a partire dalle loro conoscenze e dalle loro esperienze non avrebbero nulla da offrire. Si tratta di un vero e proprio epistemicidio. Come sottolinea Camila Moreno: “(…) il cambiamento climatico indotto dall’uomo sta accadendo e sta accadendo velocemente. (…) Inquadrare il problema in modo specifico come fosse incentrato sul carbonio crea conoscenza e possibilità per la comunicazione globale e l’azione politica, ma nello stesso tempo esclude e addirittura distrugge la conoscenza. (…) Tradurre una complessa crisi ecologica e sociale multidimensionale come il cambiamento climatico in tonnellate di anidride carbonica equivalenti (CO 2) – che possiamo misurare, contare, possedere, monetizzare e commerciare – non solo riduce la nostra visione di quelle che sarebbero azioni realmente trasformatrici, ma permette agli attori e agli interessi di continuare a far funzionare il sistema attuale come ha fatto finora. (Moreno, Speich Chassé e Fuhr, 2017).
La metrica del carbonio ha permesso di assegnare un valore monetario alle emissioni di carbonio, e con questo di creare strutture istituzionali ad hoc chiamate mercati del carbonio, in cui il diritto di inquinare viene acquistato e venduto, a livello nazionale e internazionale (Dag Hammarskjöld Foundation, 2009; Transnational Institute and Carbon Trade Watch, 2007). Questo permette ai paesi e alle aziende più ricche di mantenere o aumentare i loro livelli di consumo e di inquinamento, compensandoli con pagamenti ai paesi più poveri perché limitino le loro emissioni. Chi ha maggiori risorse finanziarie può così continuare ad appropriarsi di un bene comune fondamentale del pianeta, la capacità di assorbire/catturare i gas serra. Un meccanismo particolarmente perverso nella logica dei mercati del carbonio è rappresentato dai meccanismi coloniali volti a ridurre le emissioni da deforestazione e degrado forestale (REDD e REDD+), attraverso i quali la gestione delle foreste passa dalle modalità tradizionali degli abitanti locali a una gestione scientifico-tecnologica altamente sofisticata, controllata da transnazionali e grandi ONG ambientali (Cabello e Gilbertson, 2012).
Quando il problema viene inquadrato in questi termini, le questioni più importanti in gioco rimangono invisibili o relegate ad ambiti politici di secondo piano. In primo luogo, rimane fuori da qualsiasi diagnosi, dibattito o accordo la questione cruciale delle disuguaglianze estreme e crescenti che caratterizzano il mondo di oggi. Nessuno oserebbe suggerire durante i negoziati internazionali sul clima che solo attraverso una radicale redistribuzione dell’uso della capacità di carico del pianeta sarebbe possibile affrontare contemporaneamente le due questioni dei limiti del pianeta e del fatto che centinaia di milioni di persone non dispongono delle condizioni minime per la riproduzione delle proprie vite.
Il ruolo fondamentale dei modelli di produzione, distribuzione e consumo alimentare dell’agroindustria, che producono straordinari impatti ambientali attraverso la riduzione della diversità genetica, la massiccia contaminazione delle acque e dei terreni con gli agrotossici, la deforestazione necessaria all’espansione della frontiera agricola, scompaiono dalla visuale quando questa è focalizzata sulla metrica del carbonio. Secondo Grain, un’organizzazione internazionale dedita a sostenere i piccoli agricoltori nella lotta per la biodiversità e per mantenere sistemi alimentari sotto il controllo della comunità, “l’uso di fertilizzanti, di pesticidi, di macchinari e la distruzione del terreno causano poco più di un decimo dei gas serra. Una delle cause principali della distruzione del suolo è che la materia organica non viene più restituita ai terreni” (Grain, 2010). “Considerate nel loro insieme, le cinque multinazionali produttrici di carne e di prodotti caseari sono attualmente responsabili di una maggiore quantità di emissioni annuali di gas serra rispetto alla ExxonMobil, alla Shell e alla BP” (Grain, 2018).
Alternative come quelle che propone la Via Campesina con riferimento al contributo che può dare l’agricoltura contadina ecologica al raffreddamento del pianeta (Via Campesina 2015) non sono nemmeno prese in considerazione. Le esperienze e le conoscenze delle popolazioni indigene dell’Amazzonia, che non solo hanno vissuto per millenni in armonia con il loro ambiente, ma anche, attraverso le loro pratiche colturali, hanno contribuito a creare sistemi ecologici di enorme diversità biologica, sono considerate non scientifiche, tanto che queste voci sono escluse anche da progetti che riguardano i loro territori.
Se il problema del consumo di energia viene affrontato esclusivamente come una questione di emissioni di gas serra, non c’è bisogno di mettere in discussione i livelli di consumo energetico, che si suppone continuino inevitabilmente a crescere in modo costante. Di conseguenza, sono considerate alternative adeguate tutte le forme di produzione di energia che contribuiscono a limitare le emissioni.
Da questo punto di vista, c’è stato un tentativo di rilegittimare l’energia nucleare (Public Citizen, senza data; Union of Concerned Scientists, senza data). Anche l’eminente ambientalista James Lovelock, creatore dell’ipotesi Gaia, ha sostenuto che l’energia nucleare è l’unica opzione per salvare il pianeta (McCarthy, 2004). Si evidenziano le virtù dell’energia eolica e solare come energie pulite, senza incorporare nell’analisi le conseguenze dell’estrazione mineraria su larga scala che è necessario realizzare nei territori dei popoli del Sud del mondo perché queste siano rese possibili. Si festeggia il fatto che tali fonti non producono emissioni in fase di generazione di energia, mentre si lascia fuori dal dibattito il fatto che le mega installazioni eoliche e solari, controllate dalle grandi multinazionali, limitano la realizzazione delle aspirazioni che esistono oggi nelle comunità di tutto il mondo per il diritto ad avere accesso all’energia e per il controllo democratico, locale e sovrano della produzione e gestione dell’energia (Transnational Institute, 2016; Brand, Gensler e Strickner, 2012).
La costruzione di grandi dighe idroelettriche viene promossa come energia pulita, nonostante il loro devastante impatto ambientale e le forti emissioni che producono in fase di costruzione. I fiumi hanno funzioni fondamentali nella conservazione degli ecosistemi di tutto il pianeta.
In molti luoghi, i fiumi a flusso libero, connessi tra loro, sono cruciali per il trasporto dei sedimenti a valle, quindi per il deposito delle sostanze nutrienti sui terreni alluvionali, per il mantenimento dei terreni e dei delta, che inoltre proteggono contro gli eventi atmosferici estremi, e per fornire occasioni di svago o di realizzazione spirituale (WWF e altri, 2016, trad. it. 38).
Eppure, secondo il rapporto Living Planet 2016, quasi la metà del volume totale dei fiumi del pianeta è stata alterata dalla regolazione o dalla frammentazione del loro flusso. Se le 3.700 grandi dighe di irrigazione o idroelettriche che sono state progettate o che sono in fase di costruzione venissero completate, il 93% della portata naturale dei fiumi del pianeta ne risentirebbe (WWF e altri, 2016, 36). L’opposizione alle grandi dighe che allontanano le popolazioni dai loro territori è attualmente uno dei focolai di resistenza più diffusi in tutto il Sud del mondo, in particolare in America Latina (Gómez, 2014; Red-DESC, senza data; Gómez Fuentes, 2015).
In nome della protezione dell’ambiente, da una prospettiva incentrata sugli effetti della combustione di combustibili fossili, gli agrocarburanti sono stati promossi come combustibili ecologici. In questo modo, la produzione di alimenti viene sostituita dalla produzione di carburante per veicoli, nonostante il fatto che più di 800 milioni di persone soffrano di malnutrizione cronica. La sovranità alimentare dei popoli indigeni è particolarmente minacciata. Con l’espansione della frontiera delle monocolture a questo scopo, si accelerano i processi di deforestazione e la perdita di biodiversità forestale, contribuendo così all’accelerazione delle trasformazioni climatiche che si presume di star cercando di limitare (Global Forest Coalition, 2007). Dopo anni in cui l’Unione Europea ha promosso i biocarburanti come più ecologici per il pianeta rispetto ai combustibili fossili, recenti ricerche hanno concluso che i carburanti basati sull’olio di palma sono tre volte più dannosi per l’ambiente dei combustibili fossili. Alle emissioni di gas serra sono da aggiungere l’impatto della deforestazione, la distruzione delle torbiere, l’impatto sulla biodiversità e la deportazione delle popolazioni (Malins, 2017). Sulla base di questi risultati, il parlamento norvegese ha deciso di vietare l’importazione di olio di palma a partire dal 2020 (Chow, 2018).
Uno degli esempi più noti del blocco delle alternative che si produce come conseguenza delle diagnosi riduzioniste, come quella della metrica del carbonio, è il modo in cui le auto elettriche vengono inserite nel dibattito e nelle politiche sul cambiamento climatico. Sono molteplici gli impatti economici, sociali e culturali che l’uso generalizzato dell’automobile individuale ha avuto su tutto il pianeta. Ha provocato una straordinaria pressione sui territori, soprattutto nel Sud del mondo, generata dall’estrazione su larga scala dei metalli necessari per la sua produzione; ha contribuito a un’espansione insostenibile delle città (urban sprawl – proliferazione urbana); produce milioni di morti all’anno per incidenti stradali; sottrae la città ai pedoni e altera gli spazi di socializzazione condivisa; contribuisce all’aumento delle malattie cardiovascolari perché si cammina meno; contribuisce alla celebrazione delle disuguaglianze sociali in quanto le automobili diventano simboli di prestigio e di ostentazione; contribuisce a bloccare l’istituzione di sistemi di trasporto pubblico efficienti e, a causa della congestione, aumenta notevolmente il tempo che gli abitanti delle città devono dedicare alla mobilità quotidiana. Quando funzionano con motori a combustione interna, le auto contribuiscono all’inquinamento urbano e al riscaldamento globale, emettendo gas a effetto serra. Se il “problema” dell’auto si riduce esclusivamente a quest’ultimo, cioè all’emissione di gas serra, è possibile una soluzione tecnica: l’introduzione delle auto elettriche. Tutte le altre dimensioni della cultura dell’automobile individuale sono escluse dal dibattito. Presentando le auto elettriche come “verdi”, i governi e le aziende automobilistiche tornano a legittimare l’auto individuale come il mezzo di trasporto normale della società moderna. Mediante i sussidi e altri incentivi pubblici, il passaggio dalle auto a combustione interna alle auto elettriche è stato indotto per aumentare la domanda e dare impulso alla crescita economica (Brie e Candeia, 2012). Secondo le proiezioni pubblicate dal Forum Economico Mondiale di Davos, si stima che entro il 2040 il numero di auto sarà raddoppiato rispetto a quello attuale (World Economic Forum, 2016). Nonostante tutti i panegirici sulle virtù dell’auto elettrica, la ExxonMobil stima che entro il 2040 circa l’80% delle automobili continuerà ad operare con combustibili fossili (ExxonMobil, 2017).
* Edgardo Lander è un sociologo venezuelano. Insegna Studi Latino Americani presso la Scuola di Sociologia dell’Università Centrale del Venezuela ed è ricercatore associato del Transnational Institute. La versione originale di questo articolo (“La crisis terminal del patrón civilizatorio de la modernidad colonial”, in Lander, Crisis civilizatoria, 2019) è stata tradotta dal sito camminardomandando
[1] I rapporti sono stati pubblicati negli anni 1990, 1996, 2001, 2007 e 2014.
[2] Queste tendenze vengono analizzate ampiamente in un documento preparato dall’Unesco in occasione della COP24 di Katowice, in Polonia, nel dicembre 2018 (Unesco 2018).
[3] Sono co-autori di questo rapporto le seguenti organizzazioni e individui: Climate Policy Initiative, Conservation International, International Renewable Energy Agency, The New Climate Economy, Partnership on Sustainable Low Carbon Transport, Raíd Detxhon (UN Foundation), We Mean Business y World Resources Institute.
[4] A partire da questo riduzionismo e dalle soluzioni che vengono proposte a partire da esso, non viene fornita una informazione adeguata sulle diverse fonti di gas a effetto serra al di là del consumo di combustibili fossili. Includere nelle negoziazioni la necessità di ridurre drasticamente le emissioni di metano dovute all’allevamento bovino implicherebbe affrontare forti interessi delle multinazionali e mettere in discussione i modelli alimentari carnivori che si sono diffusi rapidamente nelle decadi della globalizzazione neoliberista.