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Pubblichiamo questo interessante testo che affronta alcune delle questioni di fondo che la scuola si è trovata ad affrontare con lo scoppio della pandemia. L’autore fa riferimento alla situazione italiana: ma le considerazioni che sviluppa sono, a nostro modo di vedere, totalmente valide anche per la scuola ticinese. (Red)

Il rapido diffondersi del Coronavirus in Italia ha fatto precipitare il paese in una situazione di emergenza che ha travolto ogni aspetto della realtà: dalla politica all’economia, dalla cultura alla società, tutti gli analisti e i commentatori sono concordi nell’affermare che nulla sarà più come prima. La pandemia, che dalla Cina ha attraversato i cinque continenti, ha messo a nudo molte delle fragilità e delle paure che assediano le nostre società liquide teorizzate, con lungimiranza e lucidità, dal sociologo Zygmud Bauman, nel passaggio dal XX al XXI secolo.

In particolar modo il Covid 19 si è abbattuto come un uragano sulla scuola, la quale si trova ad affrontare una situazione di crisi senza precedenti nella storia repubblicana. In questi giorni di chiusura forzata delle scuole di ogni ordine e grado è però opportuno non farsi travolgere dagli allarmismi e dal panico e provare a elaborare alcune riflessioni sulla situazione che sta vivendo il sistema scolastico e su quali rischi, cambiamenti e opportunità ne potrebbero derivare.

Innanzitutto, dobbiamo partire dalla considerazione che un clima di emergenza porta sempre con sé il rischio concreto di un restringimento degli spazi di democrazia. Gli stati di eccezionalità diventano dei fertili laboratori politici in cui ogni potere cerca di ristrutturarsi, sperimentando nuove forme di controllo e di coercizione. A scuola ciò significa, ad esempio, ridurre ancor di più le prerogative degli organi collegiali, in primis del collegio docenti, a favore del potere esecutivo dei dirigenti scolastici e dei suoi più stretti collaboratori. In una situazione complessa le decisioni devono certamente essere prese in modo efficace e rapido, ma sempre nel rispetto delle procedure democratiche e con il coinvolgimento di tutti gli attori. Invece, la logica esasperata dell’emergenza evoca l’approvazione di misure eccezionali, leggi e decreti speciali, che portano con sé mutamenti autoritari del quadro giuridico e spesso permangono anche quando la fine dell’eccezionalità dovrebbe lasciare il posto al ritorno a una normalità, che però non è quasi mai quella di prima. In queste giornate concitate, la scuola dovrebbe avere la forza di non farsi sedurre dalla perniciosa idea di diventare un gabinetto di guerra che deve concentrare la sovranità in poche persone al fine di mostrarsi forte agli occhi del mondo: abdicare ancora una volta al proprio ruolo di laboratorio di democrazia e inclusione (ruolo già ampiamente minato da decenni di controriforme, dai continui tagli agli investimenti e dalla passività di molti docenti) farebbe compiere alla scuola un altro passo verso l’aziendalizzazione e mercificazione del sapere.         

In secondo luogo, la repentina introduzione delle didattiche a distanza, salutata quasi all’unanimità come provvidenziale e salvifica, non deve essere vista come la panacea di tutti i problemi o come la rivoluzione tecnologica che finalmente renderà smart, cool, moderna ed efficiente la scuola del presente e del futuro. I sacerdoti della tecnologia, infatti, stanno approfittando della crisi innescata dal Coronavirus per dire a gran voce che questa situazione extraordinaria rappresenta una grande opportunità per innovare la didattica in Italia. Sicuramente la conoscenza e l’adozione di nuovi strumenti di insegnamento rappresentano un utile arricchimento per ogni studente e per ogni docente, il cui formarsi in modo permanente dovrebbe essere una irrinunciabile prerogativa professionale, sebbene poco valorizzata e non retribuita. Ma il clima in cui si stanno proponendo tali modalità di innovazione didattica rischia di trasformare quello che è un mezzo in un fine. Ciò è molto insidioso e pericoloso. Il Novecento, infatti, ci ha insegnato in modo chiaro e conclamato che può esistere una modernità non moderna, ovvero una modernità rovesciata e strumentale, in cui i mezzi tecnologici si sono imposti come fine dell’agire e del vivere, divorando con violenza libertà, uguaglianza, dignità, pace e ambiente. La didattica on line a distanza ha senza ombra di dubbio grandi potenzialità di arricchimento per gli studenti di ogni età e di ogni fascia sociale; può aiutare a ridurre le disuguaglianze (come può ampliarle), può diffondere in modo più capillare conoscenze e competenze, può essere di supporto per gli studenti lavoratori o per chi deve recuperare argomenti e spiegazioni, ma deve sempre rimanere un saldo strumento nelle mani di una scuola che continua a essere una viva comunità educante, che mette al centro l’emancipazione degli studenti. Per questo è importante che il sistema scolastico ribadisca sempre con vigore e intelligenza la propria dimensione politica, democratica, autonoma e indipendente dagli interessi economici privati. In questa emergenza si corre, invece, il serio rischio che i grandi colossi informatici entrino ancor di più all’interno dei processi di formazione e d’istruzione, mutando la scuola in un mercato in cui allocare i propri prodotti. Stanziare 32 milioni di euro per la didattica on line quando molte scuole non rispettano le norme di sicurezza è una follia che rientra nella logica dell’emergenza che impoverisce i più e arricchisce i pochi. Non possiamo essere così ingenui da pensare che le grandi corporations regalino alla scuola strumenti didattici, senza voler un ritorno economico e culturale. E altresì non possiamo continuare a raccontarci la favoletta della neutralità della tecnica. La tecnica è assolutamente politica, gli strumenti che si adottano in ogni campo del sapere e dell’agire sono politici e per questo vanno politicamente messi in discussione e governati.

E ancora: le nuove modalità di insegnamento portano con sé il problema della omologazione della didattica e della disumanizzazione del docente. Insegnare è un’arte individuale che viene messa a disposizione della collettività. Ogni docente deve essere libero di scegliere la didattica che più gli è consona e che ritiene più idonea al contesto classe al fine di raggiungere l’obiettivo di far crescere gli studenti, come è saggiamente garantito dall’articolo 33 della Costituzione. Insegnare è avere un contattato personale e fisico con i propri allievi. Insegnare è emozionarsi, ridere e arrabbiarsi con la propria classe. I video, i materiali on line sono dei validi strumenti tra i tanti a disposizione dell’insegnante, come i libri, i musei, il cinema, il teatro, la lavagna, i lavori di gruppo, i laboratori, il dialogo circolare e la lezione frontale. Ma la tecnologia rispetto agli altri mezzi porta con sé una prospettiva così seducente e salvifica, che rischia di imporre un’omologazione che lungi dall’arricchire la didattica, finisce per impoverirla drasticamente.

Inoltre, passata questa emergenza, dobbiamo avere la forza e la volontà di aprire un grande dibattito pubblico per rispondere a queste due vitali domande: a cosa serve oggi la scuola? e cosa significa insegnare? Proviamo, infatti, a chiederci: cosa deve essere il docente del futuro? Un allenatore di competenze? Un burocrate? Un esecutore di direttive? Un abile trasmettitore di conoscenze? Un somministratore di tecnologia? Un dipendente dello Stato, ma che fa anche gli interessi delle multinazionali high tech e delle fondazioni bancarie che, giorno dopo giorno e crisi dopo crisi, stanno occupando la scuola pubblica? Un educatore che costruisce con gli studenti una cassetta degli attrezzi culturali, in grado di comprendere la realtà e poter scegliere di attraversare il mondo da cittadino libero? Oppure deve essere un concentrato di tutte queste cose? O ancora nessuna di queste? La domanda ineludibile è pertanto sempre la stessa: che scuola vogliamo? E per costruire quale società? Senza rispondere in modo consapevole a tale quesito continueremo a navigare a vista, passando da un’emergenza all’altra e subendo le volontà di un potere politico sempre più subalterno ai poteri economici e ormai rinchiuso nelle aride logiche del profitto e della competizione. La subalternità del sistema scolastico italiano ed europeo alle logiche e agli interessi del mercato è un vicolo cieco, che riproduce le ingiustizie sociali del presente e non mette autenticamente al centro del processo educativo la crescita di tutti gli studenti.

Infine, la crisi pandemica che stiamo vivendo potrebbe essere forse l’occasione per ripensare almeno a due aspetti fondamentali del nostro vivere insieme. In primo luogo, sarebbe importante che il mondo della scuola provasse a interrompere il circolo vizioso velocità-quantità, il quale, lungi dal favorire un apprendimento stabile e una crescita umana feconda, è fonte di superficialità e frustrazione. Approfittiamo del Coronavirus per rallentare i ritmi di vita e per provare a immaginare un sistema scolastico al di fuori di un modello esclusivamente valutativo e prestativo. Non è necessario aver studiato la Montessori per capire che leggere, giocare, parlare, vedere un film possono essere dei momenti educativi più formativi di molte lezioni fatte a scuola. In secondo luogo, potremmo partire da questa crisi per dare vita a una campagna di difesa e di rilancio della scuola e della sanità statale, le quali sono il fulcro di ogni progetto politico progressista che, a partire dalla nostra Costituzione, deve darsi l’obiettivo di edificare un welfare state autenticamente democratico, in grado di raccogliere la sfida di sanare le inaccettabili disuguaglianze che sorgono nell’impari scontro tra capitale e lavoro.

Se riuscissimo a fare ciò, sarebbe già un buon punto di partenza.

* articolo apparso su sito https://volerelaluna.it/ il 10 marzo 2020.