Circolano molto in rete in queste settimane numerosi video che mostrano gruppi di animali selvatici mentre si aggirano nelle strade delle città lasciate deserte dalla quarantena. Un puma nelle strade di Santiago del Cile, un alligatore nel parcheggio di un centro commerciale americano, dei mufloni nelle spiagge di Israele, i delfini nei porti del Tirreno… E quei video rallegrano gli umani confinati in casa e costretti a rinunciare a qualunque rapporto con la natura.
Certo, il crollo della circolazione automobilistica ed aerea di queste settimane ha molto favorito alcune specie animali. Ad esempio, l’inizio di primavera è la stagione degli amori per molte specie avicole. E il silenzio, o perlomeno l’abbassamento del volume dell’inquinamento acustico, ha favorito il canto che molte specie di uccelli usano per agevolare gli accoppiamenti e marcare il territorio. Le anatre, le rane, i ricci, gli scoiattoli, ma anche i cerbiatti avranno avuto più occasione di muoversi senza rischiare ad ogni attraversamento dell’asfalto di rimanere schiacciati da un’automobile di passaggio. L’esperienza dell’epidemia di Wuhan ha indotto il governo cinese ad adottare misure di fortissima limitazione della vendita e del consumo di carne di animali selvatici, un mercato che nel gigante asiatico movimenta 600 miliardi di yuan (pari a 77 miliardi di euro).
In generale, con meno gente in giro, tutto sembra essere stato più positivo per gli animali, che hanno meno bisogno di guardarsi le spalle, di vigilare ed hanno perciò più tempo e più facilità per cercare il cibo e per riprodursi. Ma non è tutto oro quel che luccica…
Che cosa accadrà quando gli umani arriveranno di nuovo, desiderosi di riprendere il controllo anche sugli ambienti naturali?
Già oggi resta libero in Cina il commercio di animali selvatici per produrre pellicce, farmaci della medicina tradizionale, e per la rivendita agli zoo. In Thailandia le scimmie, che spesso vivono delle cibarie loro offerte dai turisti in cambio di posare con loro per foto e video ricordo, rischiano di morire di fame a causa dell’assenza totale di visitatori. E, sempre in Thailandia, gli elefanti che lavorano anch’essi con il turismo sono allo stremo e i loro guardiani a stento riescono loro a sopravvivere.
Evitiamo di cullarci nell’illusione di una natura che riprende il sopravvento. In realtà nelle prossime settimane, con un ritmo che sarà tutto da verificare, i magri effetti benefici sul piano ambientale rischieranno di essere totalmente annullati dai piani di rilancio ultrainquinanti e dalla richiesta che le industrie faranno di derogare alle già pallide normative di tutela, in nome della necessità di recuperare il terreno perduto nelle settimane del lockdown. E si dirà che l’economia, già fin troppo ferita dalla pandemia, non potrà avere tra i piedi troppi lacci normativi di difesa dell’ambiente.
Peraltro, la storia ce l’insegna. Sempre, dopo le crisi c’è stato un effetto rimbalzo nell’inquinamento e nelle emissioni di gas ad effetto serra. I piani di rilancio economico hanno normalmente la tendenza a far ripartire a tutto motore la macchina della produzione, una macchina che continua ad essere essenzialmente basata sull’uso di energie fossili.
Non a caso, la LIPU (la Lega Italiana Protezione Uccelli), assieme ad altre 100 analoghe associazioni di tutto il mondo, raccolte nella BirdLife International Partnership, ha avviato una mobilitazione per inserire nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dalle Nazioni Unite nel 1948, un nuovo articolo che solennemente sostenga il diritto universale a un ambiente naturale sano, tutelato dalle politiche pubbliche e governato sulla base di principi di sostenibilità, conoscenza scientifica e conoscenza tradizionale dei popoli indigeni.
D’altra parte, tutti i grandi appuntamenti per la concertazione internazionale sull’ambiente sono stati sospesi o rinviati a causa della pandemia: la COP26 prevista a Glasgow, la COP15 dell’ONU sulla biodiversità, il vertice sugli oceani.
In Europa, certi governi propongono di posticipare l’avvio del Green new deal, il patto “verde” per l’investimento di 1.000 miliardi di euro in 10 anni per la “transizione ecologica”. Vedremo se le restrizioni alle mobilitazioni permetteranno comunque la ripresa di quel grande moto di massa che aveva portato l’emergenza ambientale in testa alle preoccupazioni dell’opinione pubblica e che aveva costretto tanti governi a prendere misure seppure limitatissime di tutela dell’ambiente.
* articolo apparso sul sito di Sinistra Anticapitalista