“Abbiamo inoltre convenuto di lavorare per la creazione di un Fondo per la ripresa, che è necessario e urgente. Il Fondo dovrà essere di entità adeguata, mirato ai settori e alle aree geografiche dell’Europa maggiormente colpiti e destinato a far fronte a questa crisi senza precedenti.”. Queste parole, nelle Conclusioni del Presidente del Consiglio europeo del 23 aprile, sono bastate al Capo del Governo Conte per rivendicare una straordinaria vittoria. In particolare, quei riferimenti alla tempistica, tanto cara per ottenere aiuti immediati, hanno acceso toni persino trionfalistici. A nostro avviso, è veramente difficile rammentare una simile sproporzione tra la triste realtà dei fatti e una narrazione così tanto falsa e mistificatoria.
Del resto l’inadeguatezza del governo Conte era davvero imbarazzante, già nel modo in cui si presentava di fronte a un Consiglio europeo, così tanto importante, senza nemmeno uno straccio di proposta italiana. Non solo, dopo aver inutilmente insistito sulla richiesta dei c.d. eurobond, si era successivamente accodato a una proposta francese altrettanto inadeguata, per poi finalmente scoprire la maggiore sensatezza di una proposta spagnola basata sul finanziamento monetario di bond perpetui senza scadenza. Insomma, un disastro politico senza attenuanti, solo mascherato da una presunta conquista finale. Ma, per capire meglio, occorre riassumere tutta la vicenda daccapo.
Il Consiglio europeo ha approvato l’accordo, a seguito della riunione dell’Eurogruppo, sulle tre reti di sicurezza “per i lavoratori (Fondo SURE proposto dalla Commissione europea per finanziare la Cassa Integrazione dei paesi membri, ndr), per le imprese (finanziamenti della BEI, Banca Europea degli Investimenti, ndr) e per gli enti sovrani (prestiti del MES, ovvero del c.d. Fondo salvastati, ndr)”. Rimandiamo all’articolo pubblicato sul sito di Sinistra Anticapitalista per un’analisi più dettagliata di questi tre strumenti (https://anticapitalista.org/2020/04/09/gli-anticorpi-dei-padroni-garantiti-con-il-sangue-della-classe-lavoratrice/).
Qui ci limitiamo a ribadire che questi c.d. tre pilastri non rappresentano affatto una soluzione al problema dell’accrescimento del debito pubblico. Infatti, di fronte alla crisi economica innescata dallo shock del nuovo corona virus, l’Italia vedrà crescere il proprio debito pubblico rispetto al PIL almeno sino al 155%, con una emissione straordinaria e aggiuntiva di titoli di debito per oltre 150 miliardi di euro. Il problema principale è, pertanto, quello della sostenibilità del debito pubblico e, soprattutto, quello di evitare di scaricare i costi futuri sulla classe lavoratrice, per mezzo di ulteriori politiche di austerità, ancora più micidiali e devastanti sul piano sociale.
In particolare, risulta estremamente preoccupante l’adesione convinta della classe dirigente italiana alla nuova linea di credito del MES, pari a circa il 2% del PIL dell’Unione, circa 36 miliardi di euro per l’Italia. Il punto di forza dovrebbe essere che questa nuova linea di credito non prevede, in deroga rispetto sia al Trattato istitutivo del MES sia al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, quelle “condizionalità rigorose” caratterizzate dall’approvazione di un programma di aggiustamento macroeconomico, ovvero l’imposizione di tutta quella serie di politiche impopolari e di tagli alla spesa pubblica sociale che hanno falcidiato in modo drammatico la Grecia in cambio dei presunti “aiuti” economici. Al contrario, l’unico requisito dovrebbe essere quello dell’utilizzazione delle risorse esclusivamente per le spese sanitarie.
Tuttavia, ciò non corrisponde affatto al vero per una duplice ragione. Innanzitutto, i prestiti del MES contribuiranno, in ogni caso, ad aumentare il debito pubblico dello stato membro che ne fa richiesta. Come recita lo stesso accordo in sede di Eurogruppo, “successivamente, gli stati membri dell’area euro rimarrebbero impegnati a rafforzare i fondamentali economici e finanziari, coerentemente con il coordinamento e la sorveglianza economica e fiscale dell’UE, compresa l’eventuale flessibilità applicata dalle competenti istituzioni dell’UE.” Insomma, una volta scaduta la sospensione del Patto di stabilità, l’Italia sarebbe chiamata a un percorso di convergenza agli obiettivi di finanza pubblica, ovviamente ancora più duro. Si obietterà che si tratta sempre e comunque soltanto di una trentina di miliardi.
Va ricordato, però, che il Trattato istitutivo del MES e il Fiscal Compact “sono complementari nel promuovere la responsabilità e la solidarietà di bilancio all’interno dell’Unione economica e monetaria”. Come noto, sia il riformato Patto di stabilità sia il Fiscal Compact prevedono, tra l’altro, “l’obbligo delle parti contraenti il cui debito pubblico supera il valore di riferimento del 60% di ridurlo a un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento”. Per l’Italia, passare dal 135% al 155%, significherà, come minimo, uno sforzo aggiuntivo dell’1%, circa 18 miliardi all’anno, rispetto alle politiche di austerità già pesantemente implementate finora. Data l’entità ridotta del prestito del MES, il risultato è che, per ottenere un risparmio di poche centinaia di milioni di euro in termini di tassi d’interesse, ci si incatena senza motivo a una sorveglianza rafforzata della troika, rappresentata stavolta dalla Commissione, dalla BCE e dal Fondo salvastati al posto del Fondo monetario internazionale, non in virtù delle condizionalità rafforzate, ma nel rispetto delle presunte condizionalità leggere appena accordate dall’Eurogruppo.
In secondo luogo, oltre al danno, si aggiungerebbe la beffa del c.d. effetto stigma, ovvero della richiesta asimmetrica da parte dell’Italia. Infatti, soltanto i paesi più indebitati e più bisognosi avranno interesse a richiedere il prestito al MES, risparmiando sui tassi di interesse; per i paesi meno indebitati non sussiste questo vantaggio. L’effetto perverso e paradossale sarebbe quello di segnalare ai mercati finanziari l’instabilità della propria finanza pubblica, con ovvie conseguenze sul rialzo del costo del debito. Se a ciò si aggiunge che il credito del MES è privilegiato rispetto a quello dei titoli pubblici, ovvero deve essere rimborsato in modo prioritario, la frittata per l’Italia è perfettamente riuscita. Il costo per la classe lavoratrice sarebbe incalcolabile; chi si ostina a negare questa evidenza mente sapendo di mentire.
Al tempo stesso, abbiamo più volte sottolineato che la richiesta ossessiva del premier Conte per gli eurobond non solo si scontrava con il carattere imperialista dell’Unione europea, quindi con il rifiuto dei paesi meno indebitati di finanziarsi a un costo lievemente più alto per garantire un vantaggio ai paesi meno indebitati, ma era persino inefficace di fronte al problema della crescita del debito. Quando si parla di eurobond s’intende la possibilità di emettere un debito federale europeo, garantito da un bilancio europeo e da un Tesoro europeo. Il vantaggio sarebbe quello di veder accrescere il debito pubblico in seno al bilancio dell’Unione, mentre non aumenterebbe quello dei singoli stati membri. Tuttavia, sarebbe un vantaggio solo formale; difatti, i mercati finanziari lo peserebbero comunque nella valutazione del debito pubblico nazionale; infatti, prima o poi il debito andrebbe rimborsato e dovrebbe essere garantito comunque dagli stati membri, anche nel caso in cui ciò avvenisse congiuntamente nell’ambito di un bilancio federale anziché attraverso una garanzia singola pro quota. In definitiva, gli eurobond restano un debito a tutti gli effetti, che non possiamo proprio permetterci in una fase così acuta come questa.
Al contrario, ciò che veramente servirebbe sarebbe la revisione radicale del ruolo della banca centrale, finalizzandolo alla sostenibilità del debito pubblico rispetto al PIL, piuttosto che a quello, decisamente limitato e subordinato, di mitigatore degli spread legati alla valutazione del rischio paese imposta dai mercati dei titoli di stato. Occorre togliere al mercato finanziario la formazione del prezzo dei titoli pubblici, e restituirlo alla politica economica. Infatti, sarebbe possibile concepire forme di trasferimento a fondo perduto agli stati membri, di tipo straordinario, garantiti attraverso il bilancio della banca centrale, ovvero attraverso la monetizzazione del debito pubblico, anche per mezzo dell’acquisto in asta di titoli pubblici senza scadenza.
Come si era sottolineato in precedenza su questo sito (https://anticapitalista.org/2020/04/21/virtu-e-vizi-nella-tragedia-italiana/), tre condizioni risultano necessarie per evitare di aumentare il costo del debito pubblico: occorre prevedere il finanziamento monetario delle spese pubbliche legate all’emergenza; bisogna rimuovere la norma che vieta alla BCE di acquistare direttamente in asta i titoli sovrani, evitando di subire la valutazione del rischio imposta sul mercato secondario; si deve eliminare la regola di ripartizione degli acquisti di titoli della banca centrale in base alla quota di proprietà del capitale della BCE, sostituendola con una nuova regola basata sui bisogni della spesa pubblica e sulla sostenibilità del debito. Si tratta di condizioni necessarie ma niente affatto sufficienti per una politica economica a sostegno della classe lavoratrice; le condizioni minime per evitare di scaricare sulla classe lavoratrice i costi futuri dell’attuale crisi economica e sociale.
Occorre evidenziare che la proposta spagnola al Consiglio europeo cercava di andare parzialmente in questa direzione. Essa prevedeva l’istituzione di un Fondo finanziato attraverso un debito perpetuo, ovvero senza rimborso a scadenza, nei confronti del quale la BCE avrebbe dovuto giocare il ruolo chiave di assicurarne la stabilità finanziaria per mezzo della creazione di liquidità e altre misure di sostegno; inoltre, le risorse raccolte sarebbero state distribuite sulla base di criteri chiari, come la percentuale della popolazione colpita dal Covid-19, la caduta del PIL, l’aumento nei livelli della disoccupazione. Persino il governo italiano, dopo la confusione totale, si è accodato ad apprezzare questa iniziativa. Ebbene, il Consiglio ha semplicemente ignorato questa proposta che non è stata nemmeno discussa, escludendo quindi qualsivoglia forma di monetizzazione del debito. Ciò dovrebbe essere sufficiente per far capire la gravità della situazione, che non potrà che complicarsi e degenerare senza una svolta radicale.
La triste realtà è che non solo in Europa non si riesce a imporre una solidarietà di trasferimenti, come avverrebbe in un minimamente decente stato federale, ma nemmeno si accetta una misura di sostegno generalizzato senza costi immediati per nessuno, visto che l’inflazione è davvero l’ultimo dei problemi. Tuttavia, per la borghesia non esiste solo la perdita derivante dal costo economico, ma anche quella derivante dal lucro cessante o dal mancato guadagno. Perché allora trasferire risorse senza guadagnare nulla, quando si potrebbe imporre il prestito con rendimenti interessanti, come la corsa ai titoli italiani ha dimostrato nelle aste del Tesoro di questa settimana? Non c’è davvero limite alla forsennata voglia di speculazione finanziaria e monetaria.
Chiunque si aspetterebbe una reazione stizzita e irritata. Invece no, esattamente il contrario. La presunta vittoria del governo Conte sarebbe la previsione del Recovery Fund (RF), o Fondo per la ripresa. Secondo il governo italiano si tratta della definitiva conquista del presunto debito europeo condiviso, qualcosa che assomiglia agli ormai celeberrimi eurobond. La cancelliera tedesca è uscita dalla riunione esclamando esattamente il contrario, ovvero che non si tratta per niente di condivisione di un debito comune.
La prima verità è che il RF è come un cerino. Tutti vogliono che resti acceso, ma nessuno lo vuole tenere veramente in mano. Così, quel cerino dall’Eurogruppo è passato al Consiglio europeo che a sua volta, il 23 aprile, lo ha girato alla Commissione europea. Quest’ultima dovrà presentare una proposta entro il mese di maggio. Insomma, il conflitto imperialista degli stati membri non sembra intenzionato a prendere decisioni tempestive su questo punto. Tuttavia, qualcosa sembra delinearsi; ma purtroppo si tratta ancora una volta di notizie non buone per la classe lavoratrice.
Sulla base di una bozza preliminare della proposta della Commissione, è possibile comprendere alcuni tratti essenziali di questo nuovo strumento, sebbene ancora fumosi e provvisori. La proposta della Commissione prevede l’istituzione del RF, in grado di generare, per effetto leva, sino a 2 mila miliardi di euro di spese e investimenti. Innanzitutto, si propone di istituire un fondo per la ricostruzione europea pari a 300 miliardi, temporaneo e mirato, integrato nell’ambito del quadro finanziario pluriennale, ovvero del bilancio settennale dell’Unione; in secondo luogo, si prevede, sempre nell’ambito del bilancio dell’UE, una Recovery and Resilience Facility, ovvero una ulteriore capacità finanziaria di altri 200 miliardi di euro, finalizzata al sostegno dei piani di ricostruzione nazionali; in terzo luogo, verranno reindirizzati, e irrobustiti sino a circa 150 miliardi, i fondi strutturali della politica di coesione dell’Unione.
Si propongono, inoltre, altri due fondi, in grado di innescare circa 200 miliardi di euro ciascuno: uno per la ricapitalizzazione delle imprese e un altro per costruire un’autonomia strategica alle catene del valore europee, rendendo indipendenti le produzioni strategiche europee rispetto ai fornitori globali cinesi o statunitensi; infine, il precedente Piano Juncker sugli investimenti, già ribattezzato InvestEU, si trasformerà in RecoverEU, con una capacità di leva, per mezzo della BEI, praticamente raddoppiata. Ma come si finanzierà questo magnifico capolavoro? La stessa bozza ci offre delle risposte abbastanza vaghe, ma davvero insidiose e preoccupanti.
Tralasciando l’enorme leva finanziaria e la preoccupante mole di cartolarizzazione finanziaria, che rappresenta comunque la componente principale della proposta, si riporta che il Recovery Plan si finanzierà sia per mezzo di una temporanea (la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha indicato circa due o tre anni) emissione di debito, attraverso il c.d. Recovery Instrument (RI), sia per mezzo delle risorse proprie del bilancio dell’UE. Il bilancio pluriennale 2021-2027 dell’Unione dovrebbe quasi raddoppiare, dall’1,2% del PIL dell’Unione al 2%, praticamente circa 150 o 200 miliardi di euro aggiuntivi da reperire da parte degli stati membri.
Il RI sarà un’emissione di debito limitata e mirata per un ammontare di circa 320 miliardi di euro. Tale finanziamento avverrà sulla base dell’Articolo 122.1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il quale, a differenza dell’Articolo 136.3 a fondamento del Trattato istitutivo del MES e della rigorosa condizionalità, prevede che “qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato”. Dunque, stavolta le condizioni non sono rigorose, ma le buone notizie finiscono qui.
Infatti, la redistribuzione delle risorse consisterà “approssimativamente per metà di prestiti agli stati membri; il resto rimarrà nel bilancio dell’UE per essere rimborsato dagli stati membri dopo il 2027 su un orizzonte di lungo periodo ovvero ripagato attraverso future risorse proprie addizionali”. Di fronte a ciò si è sviluppato il dibattito politico tra prestiti o sussidi, il dilemma tra loans or grants. Addirittura, alcuni opinionisti di sinistra hanno enfatizzato la presenza per la prima volta nella storia dell’Unione di trasferimenti a fondo perduto al fianco dei tradizionali prestiti. In realtà, le parole che abbiamo virgolettato significano tutt’altro e sono in linea con quanto illustrato dalla cancelliera tedesca, nonché l’opposto di quanto sbandierato dal governo Conte.
In pratica, stando alla lettera, il meccanismo funzionerà molto probabilmente come segue. Il bilancio pluriennale dell’Unione dovrà raddoppiare, in parte attraverso un impegno in termini di garanzie, in altra parte attraverso un impegno aggiuntivo di pagamenti effettivi da parte degli stati membri. Tale aumento offrirà in parte la garanzia affinché la Commissione europea possa emettere titoli obbligazionari, come già avviene oggi in misura limitata per specifici scopi; in parte per pagare gli interessi sui titoli obbligazionari emessi dalla Commissione.
Le risorse, invece, verranno in parte prestate agli stati membri, i quali vedranno aumentare il proprio debito, che dovranno successivamente rimborsare. Al tempo stesso, un’altra parte verrà redistribuita, come già avviene, lo ricordiamo per i nostri opinionisti di sinistra, con i fondi della politica di coesione, agli stati membri, che non pagheranno nulla sino al 2027, quando gli interessi sui titoli obbligazionari saranno pagati per mezzo delle risorse aggiuntive del bilancio europeo. La stessa bozza evidenzia che, essendo il tasso d’interesse piuttosto basso, si stima che il costo per l’Unione sarà pari a circa 500 milioni all’anno. Tuttavia, dopo il 2027 occorrerà non solo rimborsare i prestiti, ma agli stati membri destinatari dei presunti “aiuti a fondo perduto” spetterà anche di dover restituire le somme ricevute o attraverso rate su un orizzonte lungo, ovvero attraverso contributi straordinari aggiuntivi al bilancio dell’Unione. Insomma non solo i titoli obbligazionari del c.d. Recovery Instrument, già ribattezzati come Ursula Bond, dal nome della presidente della Commissione, non sono affatto assimilabili alla condivisione del debito, ma persino i presunti aiuti a fondo perduto, almeno per ora, non lo sono affatto.
La speranza è comunque quella di un ravvedimento e di una svolta in zona cesarini, nella direzione di un intervento illimitato della BCE per finanziare trasferimenti effettivamente a fondo perduto. Tuttavia, come già ricordavamo, tutto questo miscuglio di incompetenza e cinismo riguarda solo una condizione minima necessaria, ma assolutamente non sufficiente per sradicare le conseguenze della crisi. La vera questione, infatti, è un’altra ancora: cosa ci facciamo con le somme di denaro messe a disposizione? Qui, purtroppo, veniamo al vero punto dolente. Soltanto una quota sembra destinata a mitigare l’impatto sociale ed economico della classe lavoratrice e dei ceti popolari, incluse le piccole forme di lavoro autonomo e parasubordinato; una quota maggioritaria viene destinata a sanare i bilanci delle imprese in difficoltà, comprese quelle contraddistinte già prima della crisi da notevoli inadempienze e sofferenze, in una forma rinnovata e mastodontica di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti.
Tutto è nato quando l’ex presidente della BCE Draghi, sulle colonne del Financial Times del 27 marzo scorso, esclamava che è “chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico” poiché la “perdita di reddito sostenuta dal settore privato… deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato… Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi.” Detto, fatto. Da quel momento si è scatenato l’inferno. Gli stati membri hanno cominciato a indebitarsi per consentire alle imprese di indebitarsi a loro volta, sulla base delle garanzie poste attraverso l’indebitamento degli stati. Un circolo vizioso infernale che implicherà una crescita ulteriore del debito pubblico, che si sobbarcherà tutta la serie di fallimenti e mancati rimborsi delle imprese che inevitabilmente si registreranno da qui in poi.
Persino la Commissione europea è stata immediatamente ricettiva. Come noto, il Trattato europeo prevede, in preda a una eccitazione orgiastica della tutela della concorrenza e del mercato, una rigida disciplina sugli aiuti di stato alle imprese, nonché una allergia totale verso le imprese pubbliche anche di interesse generale. Ciò nonostante, di fronte a ogni crisi di profittabilità e valorizzazione del capitale, si assiste alla deroga temporanea di questa disciplina per consentire il salvataggio da parte degli stati. Così, non solo è stata approvata una nuova finestra temporanea in deroga al divieto degli aiuti di stato, ma è stata persino proposta una revisione in materia di nazionalizzazioni e ricapitalizzazioni pubbliche delle imprese. Ovviamente, tale proposta prevede esplicitamente un limite temporale di deroga e una scadenza (fine 2024) entro la quale la proprietà statale dovrà uscire e lasciare definitivamente il capitale ai privati. Sia chiaro Alitalia non vi rientra, in quanto precedente alla apertura della finestra di deroga.
In definitiva, l’espansione monetaria e fiscale viene focalizzata a ripristinare le condizioni di produzione e accumulazione delle imprese, dimenticando completamente lo stato dell’economia prima dello shock del Covid-19. Per esempio, l’Italia era già a rischio di recessione tecnica, con una contrazione del PIL dello 0,3 per cento nell’ultimo trimestre del 2019; il livello di crescita annuale per il 2019 risultava poco più che stagnante (con una crescita di appena lo 0,3%) e caratterizzata da una nuova crescita della disoccupazione e della precarietà. Nonostante le politiche economiche espansive, tutte le previsioni sono univoche nel mostrare che il rimbalzo della crescita nel 2021 non compenserà il crollo del 2020, con evidenti conseguenze in termini di licenziamenti e riduzioni salariali. Per questo, i padroni cercano di torcere le politiche economiche espansive a loro favore.
La follia suona più o meno così. La crisi deriva da una crisi di profittabilità delle imprese e da un eccesso di capacità produttiva inutilizzata. A quel punto la soluzione, per lorsignori, sarebbe di costringere gli stati a indebitarsi al loro posto per consentire alle imprese di ripartire praticamente dal punto di partenza. La chiamano ritorno alla normalità. Così, oltre al danno delle ristrutturazioni seguiranno i costi di una politica fiscale scellerata e senza una strategia all’altezza per il futuro.
Viceversa, occorre una vera e propria rivoluzione dal lato dell’offerta. Occorre una proprietà pubblica, definitiva e non temporanea, delle imprese strategiche, in grado di riconvertire l’economia nella direzione della sostenibilità ambientale, della prevenzione sanitaria e farmaceutica, della ricerca scientifica pubblica e cooperativa. Occorre, in definitiva, che le politiche espansive dal lato della domanda siano sostenute senza più il vincolo della profittabilità e dell’accumulazione capitalistica delle imprese, ma quello più sostenibile della produzione di beni comuni, della piena occupazione, della riduzione del tempo di lavoro, del recupero dei salari rispetto alla produttività e della riduzione drastica delle disuguaglianze.
* articolo apparso il 27 aprile 2020 sul sito di Sinistra Anticapitalista