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Affermare che il Covid-19 sia una pandemia capitalista potrebbe sembrare assurdo. Dopo tutto, i virus sono corpi naturali che esistono indipendentemente da tutte le strutture sociali e che hanno colpito l’umanità molto prima che fosse dominata dai sistemi capitalistici. Dalle epidemie di “peste” nell’antica Grecia alla peste nera che ha colpito le società eurasiatiche pre-capitalistiche, è ampiamente dimostrato che il capitalismo non ha inventato le pandemie. Pretendere che possa essere responsabile del Covid-19 potrebbe sembrare un’affermazione folle o di tipo “complottista” (per usare l’aggettivo generalmente usato per squalificare qualsiasi pensiero critico che cerchi di risalire la catena delle responsabilità sociali di un fenomeno). Oppure, e bisogna ammetterlo subito, la SARS-CoV-2 (il nome del virus che trasmette la malattia Covid-19) esiste indipendentemente dalle strutture capitalistiche. Di conseguenza, l’anticapitalismo dovrebbe concentrarsi solo sulla gestione capitalistica della pandemia e non avrebbe nulla da dire sulla comparsa dell’epidemia in quanto tale, ridotta a un semplice fenomeno “naturale”. I fatti, tuttavia, ci sono e sono inquietanti: da alcuni anni assistiamo a una moltiplicazione delle malattie infettive (vedi grafico). E tra queste, le malattie legate a un coronavirus sono state protagoniste di un’attualità particolarmente turbolenta. Dalla SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) che ha colpito la Cina nel 2002-2003 al MERS-CoV (coronavirus della sindrome respiratoria del Medio Oriente) che ha colpito la penisola Arabica nel 2012, passando per l’attuale SARS-CoV-2, i virus della famiglia dei coronavirus sembrano essere, insieme alle varie pandemie influenzali, uno dei maggiori rischi per la salute del XXI° secolo.

Come spiegare tutto questo? Perché il capitalismo, che rende le crisi sanitarie un fenomeno strettamente esterno a se stesso, può essere ritenuto responsabile di questa inflazione pandemica? È a queste domande che cercheremo di rispondere per aggirare la trappola dell’eccessiva “naturalizzazione” del fenomeno pandemico e per mostrare, ancora una volta, il capitalismo per quello che è: un’organizzazione sociale mortifera.

La doppia estraneità o la proclamata innocenza del capitalismo

Immaginiamo un pipistrello portatore di un virus di qualche tipo che si aggira, di notte, in una giungla che possiamo immaginare stia subendo una deforestazione accelerata. In bocca ha una bacca per nutrirsi, ma, di fronte al rapido avanzare di macchinari, vola via per rifugiarsi in un allevamento. Fa cadere il cibo gelosamente custodito fino a quel momento sul pavimento di questo edificio, un maiale ne approfitta e lo ingoia. Il maiale, a sua volta contaminato, viene ucciso e mangiato in un ristorante di Macao. Possiamo quindi ipotizzare che il virus abbia operato quello che viene chiamato un “salto di specie”, passando, attraverso il maiale, dai pipistrelli agli esseri umani. Inizia una pandemia globale particolarmente virulenta. Questa scena di finzione è la sequenza conclusiva del film Contagion (uscito nel 2011), che nelle scene finali ritorna alle origini della malattia della quale aveva raccontato la diffusione.
Se la scena di questo film ci sembra familiare, è perché riecheggia direttamente la situazione attuale. Sostituite la carne di maiale con il pangolino e il ristorante di Macao con il mercato di Wuhan e avrete l’ipotesi più probabile del circuito di trasmissione del Covid-19 – dal pipistrello all’uomo. Se Steven Soderbergh, il regista di Contagion, ha immaginato questa scena già nel 2011, non è affatto perché è un visionario. Ha ripreso, in realtà, un modello virologico già noto all’epoca. Nel 2003, l’epidemia di SARS aveva una genealogia relativamente simile: il pipistrello, ancora una volta, ha trasmesso il coronavirus, questa volta attraverso lo zibetto (mammifero carnivoro della famiglia dei viverridi NdT). Ancora più recentemente, si pensa che l’epidemia legata al virus Ebola (che tra il 2013 e il 2016 ha causato più di 11.000 morti, con un tasso di letalità tra il e57 e il 59% dei malati) abbia pure avuto origine da pipistrelli provenienti dall’Africa centrale che hanno trasmesso il virus all’uomo direttamente o attraverso le scimmie [1]. La storia di queste malattie zoonotiche (cioè che circolano, in un processo chiamato “zoonosi”, dagli animali all’uomo) mobilita così una lista impressionante di animali che a prima vista descriveremmo spontaneamente come “selvatici”. Il pipistrello, il pangolino, la scimmia o lo zibetto ci immergono immediatamente in un paesaggio che non ci è familiare e che istintivamente immaginiamo essere quello di una lontana foresta vergine rimasta impermeabile alle attività umane[2]. Immaginiamo quindi facilmente i virus sconosciuti che potrebbero, tranquillamente, diffondersi in quel luogo. E anche quando gli umani vi si avventurassero, tutto ci appare, ancora una volta, strano: che tipo di società sono quelle nelle quali si mangia il pangolino?
Si è confrontati a questo punto con una doppia e radicale stranezza. Stranezza biologica, prima di tutto: pensando ad esse come a delle catastrofi naturali, si afferma che queste pandemie avrebbero avuto come punto d’origine una natura selvaggia incontrollabile le cui sentenze, se non addirittura le vendette, lascerebbero impotenti le società umane, condannate al fatalismo. In secondo luogo, assistiamo ad una stranezza culturale: queste epidemie si manifesterebbero in culture “esotiche” o addirittura “arretrate” che, sfuggendo alla razionalità capitalistica occidentale, produrrebbero stili di vita (in particolare alimentari) che favorirebbero le zoonosi. Si costruisce così una doppia opposizione (mondo selvaggio contro lo spazio controllato e tradizioni arretrate contro razionalità occidentale) attraverso la quale i capitalisti decretano la propria innocenza: queste pandemie sono un flagello ineluttabile e perfettamente estraneo ai nostri modi di produzione.
Questa messa a distanza del virus dal modo di produzione capitalistico può essere ottenuto anche attraverso una retorica razzista che permette di sottolineare, ancora una volta, il carattere “straniero” dell’epidemia. In questo modo, Donald Trump può parlare della SARS-CoV-2 come di un “virus cinese” e le popolazioni cinesi in Europa (e soprattutto in Francia) sono state dicostrette a subire parecchie aggressioni fin all’inizio dell’epidemia. Si costruisce in questo modo un’equivalenza tra gli animali ritenuti “responsabili” dell’epidemia e coloro che li mangiano: entrambi possono essere descritti come “selvaggi” [3].
Ovviamente, la prima risposta possibile a questa retorica è affermare che “i virus non hanno passaporto” (che, in questo caso, non è tanto un principio politico quanto una verità epidemiologica). Può essere utile a contrastare la retorica xenofoba di coloro che affermano che una chiusura delle frontiere potrebbe rappresentare una politica efficace contro la pandemia. Tuttavia, questa risposta, pur essendo indispensabile, è ancora insufficiente. Per sventare la trappola di attribuire una nazionalità a un virus, la risposta più efficace è ancora quella di concentrarsi sulle cause della sua produzione. È qui che l’assurdità del carattere nazionale di tale o tal altro virus appare in tutta la sua evidenza, dato che esso è innegabilmente legato alle dinamiche del capitalismo globale.

“Le grandi aziende agricole producono le grandi influenze [4]”: l’esempio dell’Ebola

Per meglio capire il legame che può esistere tra l’attività virologica e i processi di accumulazione di capitali su scala mondiale, lasciamo per qualche istante il Covid-19 e interessiamoci a un’altra epidemia che abbiamo già brevemente citato, quella legata al virus Ebola (un virus che provoca febbri molto elevate e spesso fatali per gli esseri umani). La trasmissione di questo virus all’uomo è vecchia, ma è stata portata in particolare alla ribalta della scena mediatica al momento dell’epidemia del 2013-2015 che ha colpito soprattutto i Paesi dell’Africa occidentale. L’origine di questa epidemia, il suo presunto “punto zero”, ci immerge in un paesaggio a priori tanto strano quanto quello che abbiamo evocato prima. Siamo nel mezzo della Guinea Forestale, nel sud della Guinea, in una fitta foresta di quasi 50’000 km2 (circa il doppio della Bretagna). Tuttavia, molto rapidamente, l’impressione di avere a che fare con uno spazio naturale incontaminato e privo di qualsiasi attività umana svanisce: ci troviamo in uno dei luoghi fondamentali della speculazione per i capitali mondiali. La Guinea, come molti Paesi del continente africano, è un Paese con abbondanti risorse naturali che attraggono grandi imprese internazionali. Vi si trovano grandi giacimenti d’oro, di diamanti e, soprattutto, un terzo delle riserve mondiali conosciute di bauxite. Nel 2017 la Guinea è diventata il terzo esportatore mondiale di questa materia prima, utilizzata principalmente per la produzione di alluminio[5]. Quanto basta a stuzzicare l’appetito dei capitalisti: “Alliance Minière Responsable”, finanziata da Anne Lauvergeon e Xavier Niel (e consigliata da Arnaud Montebourg), ha recentemente acquisito una miniera di bauxite nel paese [6]. L’agro-business non è da meno: la Guinea meridionale non ha più molto di “forestale” e ha visto aumentare il numero di piantagioni di cacao, di gomma e, soprattutto, di palma da olio. Ancora una volta, questa dinamica è direttamente legata all’afflusso di capitali occidentali che stanno accaparrandosi le terre per importare i metodi intensivi dell’agricoltura capitalista. Ad esempio, la Farm Land of Guinea Limited, con sede nel Nevada, è stata in grado di acquistare, a partire dal 2011, oltre 100’000 ettari di terre guineane [7]. Il paesaggio “esotico” e “selvaggio” di una foresta vergine in realtà non esiste: contemplare la “Guinea Forestale” significa in realtà osservare un paesaggio capitalista che ci è già molto più familiare – quello lavorato dai capitali dell’agro-business. Questa trasformazione del paesaggio rappresenta una dinamica classica del capitalismo che cerca in permanenza, come ha dimostrato il geografo marxista David Harvey, di “creare un paesaggio geografico per facilitare le sue attività in un dato tempo, solo per distruggerlo e costruire un paesaggio totalmente diverso in un momento successivo” [8].
Questo comportamento predatorio del capitalismo ha conseguenze ambientali disastrose: mentre la Guinea aveva 14 milioni di ettari di foresta negli anni ’60, oggi ne ha solo 700’000 [9]. Questa massiccia deforestazione si scontra con l’indifferenza dei capitalisti, che vedono le risorse naturali non sfruttate solo come un’ulteriore opportunità per accumulare capitali: così, l’ONU può affermare, sulla base di uno studio della Banca Mondiale, che le aree savane dell’Africa occidentale hanno il potenziale “di trasformare diversi Paesi africani in protagonisti mondiali nella produzione di materie prime agricole”. Per quanto riguarda i rischi ambientali, l’agenzia internazionale li spazza via con una frase la cui assurdità è evidente: “L’utilizzazione delle terre della savana guineana per l’agricoltura comporterà inevitabilmente dei costi per l’ambiente, ma questa agricoltura può essere essa stessa benefica per l’ambiente” [10]. Questa frase da sola potrebbe riassumere l’inconsistenza criminale del cosiddetto “capitalismo verde”.
Criminale perché gli epidemiologi sono unanimi: c’è un legame diretto tra queste deforestazioni e la produzione di epidemie – e questo a diversi livelli. La distruzione delle foreste è prima di tutto la distruzione dell’habitat naturale di diverse specie animali, a cominciare dai pipistrelli (portatori del virus Ebola). Questa modifica del loro ambiente implica un cambiamento del loro comportamento. Così, nella Guinea Forestale, i biologi hanno potuto osservare uno spostamento dei pipistrelli dalle sempre più piccole foreste alle piantagioni di palma da olio, che stanno diventando sempre più numerose a causa della notevole crescita di questo mercato [11]. Queste piantagioni, il cui insediamento è direttamente legato all’afflusso di capitali, provenienti principalmente dal mondo occidentale, sono così diventate i luoghi preferiti per la produzione di virus perché hanno facilitato il “salto delle specie” avvicinando notevolmente le specie animali patogene agli insediamenti urbani [12].
Tuttavia, il legame tra deforestazione e pandemia non si ferma qui. Essa è anche accusata da molti epidemiologi di accentuare la virulenza dei virus in circolazione [13]. Si tratta di un punto importante. Il legame tra l’intensificazione della circolazione dei capitali in Guinea negli ultimi 20 anni e l’epidemia di Ebola potrebbe essere negato con forza, sostenendo che questo virus è molto più vecchio: il primo caso di febbre Ebola individuato risale infatti al 1976. A questo proposito, val la pena aggiungere due rapide riflessioni. La prima ce la fornisce il biologo Rob Wallace che osserva come “ogni epidemia di Ebola sembra essere legata a cambiamenti nell’uso delle terre dovuti al capitale”. Per esempio, il primo focolaio nel 1976 aveva come punto zero una città sudanese (oggi parte del Sud Sudan), Nzara. Questo avveniva nello stesso periodo in cui si stava sviluppando l’industria del cotone sudanese, portando ad una significativa deforestazione della foresta tropicale. A Nzara si trovava una fabbrica di filatura del cotone finanziata dal Regno Unito. Anche andando indietro nel tempo, il legame tra lo sfruttamento capitalistico e la produzione del virus non sembra svanire.
Tuttavia, il problema principale è un altro. Anche se l’Ebola è un virus vecchio, esso non aveva mai prodotto un rischio pandemico così grande come nel 2013-2015. Questo perché, in generale, il virus è molto virulento: il tasso di mortalità è, in media, del 40% (nel 1976, il virus ha colpito 318 persone e ne ha uccise 280). Questa virulenza è un freno alla sua diffusione: uccidendo il suo ospite molto rapidamente, il virus ha meno possibilità di circolare (l’ospite muore prima di poter infettare altre persone). Tuttavia, la logica spaziale del capitale produce ambienti che favoriscono la moltiplicazione dei vettori di trasmissione, favorendo così anche il rischio pandemico legato a virus estremamente virulenti. La concentrazione di capitali stranieri di cui abbiamo detto prima ha portato a una concentrazione urbana molto elevata: la città di Guéckédou, vicina al punto zero guineano dell’epidemia del 2013-2015, è passata da 2’800 a quasi 350’000 abitanti tra il 1983 e il 2012. La spiegazione di questo fenomeno non può essere addebitata unicamente alla creazione di posti di lavoro che ha seguito l’apertura di piantagioni e/o miniere. Deve essere anche collegata al processo di “accumulazione primitiva” teorizzato da Marx nella Capitale [14]: e cioè una mercificazione e una privatizzazione delle terre che ha portato all’espulsione delle comunità contadine, costrette a trasferirsi alle periferie delle città [15]. Mentre le analisi del virus a volte alimentano la retorica maltusiana sulla sovrappopolazione, quello che sembra essere il problema non è tanto la crescita della popolazione in sé, quanto piuttosto la dinamica della concentrazione urbana legata all’afflusso di capitali stranieri. Le dinamiche sono particolarmente feroci: l’espansione urbana aggrava la deforestazione e quindi moltiplica il rischio di zoonosi, mentre il virus, una volta avvenuto il “salto di specie”, beneficia di vettori di trasmissione molto più numerosi. Così, durante l’epidemia del 2013-2015, il numero di casi è letteralmente esploso: almeno 28’000 casi con oltre 11’000 morti. In sintesi, il capitale favorisce la produzione di virus sfruttando le risorse naturali in una ricerca di profitto che mina l’equilibrio geo-ecologico dei territori e, inoltre, accelera la diffusione delle pandemie favorendo le concentrazioni urbane che sono il doppio prodotto dello sfruttamento economico e dell’espropriazione. È questo duplice ruolo del capitale nell’epidemia di Ebola che ha permesso al biologo Rob Wallace di attribuire una definizione proveniente dall’economia politica a un organismo microbiologico: l’epidemia di Ebola, sostiene, è un’epidemia “neoliberale”[16].
Questa definizione è anche un altro modo per dire che i virus non hanno passaporto. E se non hanno passaporto, non è solo perché la loro circolazione implica l’attraversamento dei confini nazionali, ma anche, e forse soprattutto, perché la logica che presiede alla loro produzione, o almeno all’accelerazione della loro produzione, attiene alla dimensione globale dei circuiti capitalistici e a coloro che hanno finanziato (e beneficiato) della deforestazione. Da qui l’affermazione, apparentemente paradossale, di Rob Wallace: “Luoghi come New York, Londra e Hong Kong, luoghi decisivi dei capitali, [devono] essere considerati come i principali focolai della malattia”

Il COVID-19 non è un “virus cinese”

Il motivo per cui abbiamo fatto questa lunga deviazione attraverso l’Ebola è che è più vecchia e quindi meglio documentata della SARS-CoV-2 e della sua malattia correlata (Covid-19). Tuttavia, se raggruppiamo le poche informazioni che sono state pubblicate sulla produzione di questa pandemia, si può osservare la stessa logica e ci permette addirittura di apportare alcuni elementi nuovi sul modo in cui la sfera economica interagisce con la sfera biologica. Questo innegabile legame tra il modo di produzione capitalista e l’emergere di una malattia zoonotica permette di allontanare le spiegazioni culturaliste (per non dire razziste) che indicano il modo di vita cinese o le analisi mistiche che vedono nella Covid-19 una “vendetta della Terra”[17].

Il pangolino: animale selvatico o merce capitalista?

Per capire meglio come le interazioni tra il modo di produzione capitalistico e l’ambiente in cui è impiantato avrebbero potuto produrre il covid-19, torniamo al presunto punto zero della malattia: il mercato di Wuhan. Anche in questo caso, la tentazione dell’esotismo è forte: è un mercato umido, cioè un mercato dove gli animali selvatici, vivi o morti, sono venduti per il consumo umano. L’elenco degli animali venduti rende questo mercato piuttosto esotico: serpenti, carne di coccodrillo, asini, volpi o pangolini. Torniamo quindi alla nostra domanda iniziale: come spiegare il consumo di tali specie che, oltre ad apparire inadatte al consumo, sono potenzialmente formidabili agenti patogeni?
La spiegazione culturalista riporterebbe inevitabilmente queste abitudini alimentari a una tradizione cinese secolare e probabilmente non mancherebbe, alla fine, di insistere sulla necessità di porre fine a queste pratiche per arginare i rischi di pandemia. Tuttavia, se è vero che le pratiche tradizionali possono spiegare il consumo di questi animali in Asia (le scaglie di pangolino, ad esempio, sono utilizzate nella medicina cinese), questo fatto maschera un dettaglio molto più inquietante: la nuova esplosione del mercato dei cosiddetti animali selvatici.
Non c’è nulla di immutabile in questo consumo di animali selvatici: ha una storia e questa storia è recente. Possiamo dividerla in due parti. La prima risale agli anni Settanta [18], allorché il regime cinese dovette gestire una carestia che causò più di 30 milioni di vittime e non riuscì a produrre cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione (che allora era di 900 milioni). Decise allora di riformare un sistema agricolo che fino ad allora era stato completamente nazionalizzato, autorizzando lo sviluppo di allevamenti privati. Piccole fattorie contadine, duramente colpite dalla carestia, si cominciano ad occuparsi di animali selvatici, come le tartarughe, per cercare di sopravvivere. Tuttavia, tutto ciò rimane un fenomeno assai marginale; è la seconda fase di questa storia ad essere, verosimilmente, assai più decisiva. Nel 1988 il governo cinese decise di definire le specie selvatiche come “risorse naturali”, aprendo così la strada al loro sfruttamento da parte delle grandi aziende agricole capitaliste a scopo di lucro: è da questa data che il consumo di animali selvatici comincia ad esplodere. Ed è anche a partire da questo momento (e non prima) che si sviluppano discorsi che mettono in evidenza i benefici medici che il consumatore può aspettarsi dal consumo di questi animali pienamente sviluppati. Lontano da un discorso derivato dalla medicina tradizionale, siamo piuttosto in presenza di banale strategia commerciale prodotta dalle grandi aziende agricole che sfruttano queste specie per aumentare i profitti derivanti dallo sfruttamento di questa nuova “risorsa naturale”. Di conseguenza, c’è stata un’espansione della domanda, soprattutto da parte dei ceti medi benestanti che vivono nelle città. [19] Così, il pangolino e altre specie cosiddette “selvatiche” sono state mercificate e integrate nelle catene di valore agroalimentari. [20]
Da questo punto di vista, il pangolino ci sembra molto meno strano di quanto non fosse all’inizio: alla fine, è solo una merce banale come tutte le altre (tranne, naturalmente, che la merce in questione è sospettata di essere la causa di una pandemia particolarmente pericolosa).
Questo processo di mercificazione ha ovviamente un impatto diretto sul processo zoonotico che produce nuove pandemie. In primo luogo, perché per catturare gli animali da vendere, diventa necessario spostarsi in zone non facilmente accessibili, aumentando i rischi di esposizione degli allevatori a specie portatrici di virus diversi, come i pipistrelli. In secondo luogo, perché comporta l’immissione sul mercato di specie portatrici di virus contro le quali il sistema immunitario dei consumatori non può avere una risposta efficace, poiché non è mai stato affrontato. Si vede quindi che l’opposizione binaria tra spazi urbanizzati e spazi “selvaggi” non regge: il capitalismo subordina completamente questi ultimi ai primi per integrare le varie “risorse naturali” che vi si trovano, precedentemente trasformate in merci, nella sua catena del valore.

Wuhan non è solo un mercato: speculazione immobiliare e agro-business

Questa espansione spaziale del capitalismo – dai centri urbani verso presunti spazi selvaggi – è ulteriormente aggravata dalla speculazione immobiliare (che tende a erodere, secondo una logica già evocata in relazione al virus Ebola, gli ecosistemi in cui si evolvono specie animali come il pipistrello) e dall’agro-business capitalista.
Così, la città di Wuhan, prima di essere nota per il suo mercato umido (mercati in cui si vendono animali vivi che vengono macellati sul posto NdT), è prima di tutto, in Cina, “la capitale dell’edilizia”[21]. Questa città è stata infatti al centro della brutale accelerazione dell’urbanizzazione cinese, soprattutto dopo la crisi del 2008 e il massiccio arrivo di capitali stranieri che speculavano sul patrimonio edilizio cinese. Secondo le stime del blog Chuang, nel 2018-2019, la superficie totale della città consacrata ai cantieri era equivalente alla dimensione dell’isola di Hong Kong nel suo complesso[22]!
La conseguenza di tutto questo è stata quella di spingere le infrastrutture legate all’agro-business verso la periferia e, di conseguenza, l’espropriazione delle piccole fattorie contadine che allora si trovavano su queste terre. Questi contadini non avevano quindi altra scelta se non quella di spostarsi alla periferia urbana o di andare più in profondità nelle aree forestali, esponendosi così ancora di più alle specie animali contaminate. Soprattutto, in relazione al consumo delle specie selvatiche sopra menzionate, questi agricoltori, espropriati dei loro siti di produzione, non avevano altra scelta per la sopravvivenza se non quella di cacciare la selvaggina per venderla sui mercati mondiali o per il proprio consumo. Il che spiega come mai il pangolino sia entrato nei consumi sia delle classi medie urbane benestanti che dei contadini più poveri [23]. Così, questa dieta, presentata qua e là come tipicamente cinese, è in realtà solo il risultato della mercificazione da un lato e dell’espropriazione dall’altro: in poche parole, dello sfruttamento capitalistico.

La pandemia è una questione ecologica

In definitiva, proprio perché legato alla massiccia deforestazione e allo sfruttamento capitalistico dei suoli, il rischio pandemico deve essere strettamente connesso alla questione ecologica[24]: è una delle lezioni importanti di “un’epoca in cui la distruzione causata dall’accumulo infinito si è diffusa sia verso l’alto, all’interno del sistema climatico globale, sia verso il basso, all’interno dei substrati microbiologici della vita sulla Terra”[25]. Senza cadere in una facile retorica apocalittica, è importante capire che il rischio è immenso. In un momento in cui i metodi di coltivazione intensiva si stanno diffondendo, le pandemie potrebbero moltiplicarsi. Questo perché, a parte le interazioni discusse in questo articolo tra il mondo presumibilmente “selvaggio” e gli esseri umani, la produzione di virus è anche fortemente legata allo stesso sistema agro-industriale. La monocoltura intensiva di animali rimuove le difese immunitarie che permettono di rallentarne la trasmissione [26]. Questa modalità di produzione animale è direttamente responsabile delle varie epidemie di influenza suina e aviaria che sono circolate negli ultimi vent’anni. Per esempio, il biologo Rob Wallace ha osservato, nel caso dell’influenza aviaria (ceppo H5N1 dell’influenza), che non è stato trovato alcun ceppo endemico altamente patogeno nelle popolazioni di uccelli selvatici: è nelle popolazioni domestiche raccolte in allevamenti industriali che questa pandemia sembra essersi sviluppata [27]. È abbastanza facile capire che quando un virus ha molti ospiti della stessa specie che vivono in una grande promiscuità, la sua velocità di trasmissione è probabilmente molto più alta. I sistemi di allevamento industriale dimostrano così che i capitalisti, alla ricerca di profitti sempre maggiori, non tengono mai conto dei rischi epidemiologici che la loro pratica comporta. Nel peggiore dei casi – e l’epidemia in corso ce lo dimostra – i costi di un’epidemia saranno esternalizzati (gli Stati li pagheranno senza chiedere conto ai capitalisti: la politica attuata in Francia ne è un esempio lampante). Le crisi sanitarie seguono la stessa logica delle crisi economiche: privatizzazione dei profitti, mutualizzazione delle perdite. Ci troviamo quindi in una situazione che si sarebbe tentati di definire assurda se non fosse drammatica: quella di un sistema capitalista che è indirettamente responsabile di una pandemia che non è in grado di gestire a causa dei contrattempi sociali che la borghesia ci ha imposto (tagli ai bilanci degli ospedali, diminuzione dei finanziamenti ai programmi di ricerca, etc.)
Certo, i capitalisti, sempre pronti a sbolognare le catastrofi delle quali sono responsabili, sostenendo che le malattie zoonotiche sono sempre esistite – il che è vero [28]. Tuttavia, le dinamiche in atto relative a questo tipo di malattia sono spaventose. Se nell’introduzione di questo articolo abbiamo evocato il significativo aumento delle malattie infettive, va notato che tra queste malattie, quelle di origine animale sono sempre più numerose [29]. Certo, si può sempre evocare la dimensione “naturale” di questi virus, che agirebbero sugli umani senza che questi possano farci nulla. Ma ragionare in questo modo, significa dimenticare, affermava Engels un secolo e mezzo fa, che “sostenendo che è esclusivamente la natura che agisce sull’uomo […], la concezione naturalistica della storia […] è unilaterale e dimentica che anche l’uomo reagisce alla natura, la trasforma, crea nuove condizioni di esistenza per se stesso”[30].
È contro questa “concezione naturalista” dei virus che dobbiamo combattere: le pandemie sono direttamente legate al processo di accumulazione del capitale che sconvolge gli equilibri eco-sistemici dei territori per accumulare sempre più ricchezza. Questo perché le pandemie, come l’impoverimento del suolo o il riscaldamento climatico, sono solo un’altra espressione dell’antagonismo tra capitalismo e ambiente. Essi devono essere collegati a quella che Marx chiamava la “rottura metabolica”[31]: un modo di produzione insostenibile che implica una contraddizione tra crescita e riproduzione e mette in pericolo la perpetuazione delle esistenze.

Socialismo o barbarie: tiriamo il freno d’emergenza!

La lotta ecologica e la lotta contro le pandemie sono quindi indissolubilmente legate e implicano entrambe una lotta contro il capitalismo. L’inversione di questa modalità di produzione consentirebbe una migliore gestione delle risorse grazie ad una delocalizzazione della produzione resa possibile dal controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori. Questo permetterebbe agli animali destinati all’alimentazione di riprodursi sul posto e quindi di trasmettere ai consumatori le immunità sviluppate. Ciò metterebbe fine alle monocolture industriali e ai pericoli che esse comportano dal punto di vista epidemiologico. Infine, si eliminerebbe l’opposizione tra città e campagna grazie a una migliore distribuzione della popolazione (la cui mobilità non sarebbe più determinata dai flussi di capitale) e a una migliore considerazione dei limiti biologici del nostro ambiente (ritorno dei nutrimenti consumati ai suoli che li hanno prodotti, conservazione delle barriere virologiche costituite dalle aree forestali, etc.) Come ha scritto Marx “La soppressione dell’opposizione tra città e campagna non è più utopico di quanto non lo sia la soppressione dell’antagonismo tra capitalisti e salariati”.
Questi cambiamenti non possono aspettare e la pandemia che ora sta causando così tanta preoccupazione deve essere considerato un avvertimento. Più che mai, il rovesciamento del capitalismo diventa l’unica alternativa credibile alla barbarie, sia che essa assuma i contorni di una cosiddetta catastrofe “naturale” o quelli di una dinamica politica fascisteggiante. Affinché il confinamento non diventi il nostro nuovo modo di vivere, affinché le pandemie non diventino il nostro quotidiano, è tempo di imporre una nuova organizzazione sociale che, attraverso l’autogestione delle risorse, sia in grado di ristabilire gli equilibri che l’accumulazione infinita del capitale sta pericolosamente minacciando. Mentre le minacce si accumulano, mentre i pericoli si moltiplicano, ci tornano alla mente queste parole di Walter Benjamin: “Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”.

*il pangolino è una sorta di formichiere squamoso

**articolo apparso il 2 aprile 2020 sulla rivista francese Contretemps. Traduzione a cura del segretariato MPS. Le citazioni, quando è stato possibile, sono state riprese da versioni italiane. Tuttavia si è preferito lasciare il riferimento ai testi originali citati.

  1. La ricostituzione dello scenario pandemico, che dovrebbe portare al “paziente zero”, è sempre ipotetica: possiamo quindi leggere diverse ipotesi possibili (un bambino che avrebbe mangiato un bacca sulla quale un pipistrello avrebbe urinato, uomini contaminati da aver mangiato carne di animali selvatici, etc.) senza poter arrivare ad una conclusione definitiva. (https://www.liberation.fr/terre/2004/01/16/ebola-le-singe-puis-l-homme_465536)
    2.Queste rappresentazioni sono, naturalmente, erronee e uno degli scopi di questo articolo è quello di analizzarli più a fondo, per meglio comprendere come questi paesaggi siano in realtà stati lavorati (e così sfruttati) dal capitale.
  2. Su questo punto si veda il testo pubblicato dal blog Perspectives Printanières. (https://perspectives-printanieres.info/index.php/2020/03/10/lepidemie-na-pas-de-vertus/ : “In poco tempo non sono più solo gli animali cucinati ad essere considerati selvaggi..ma anche le persone che li mangiano”.
  3. Bob Wallace, Big Farms Make Big Flu. Dispatches on Influenza, Agribusiness, and the Nature of
    Science, New York, New York University, 2016
  4. https://www.agenceecofin.com/bauxite/0606-57538-la-guinee-entre-dans-le-top-3-des-plus-grands-producteurs-de-bauxite-au-monde-banque-mondiale
  5. https://www.challenges.fr/entreprise/energie/alliance-miniere-responsable-la-start-up-financee-par-niel-et-lauvergeon-accelere-en-afrique_502686
  6. https://www.farmlandgrab.org/post/view/18263
  7. David Harvey, Le Nouvel Impérialisme, Paris, Les Prairies Ordinaires, 2010.
  8. https://www.guineenews.org/dossier-deforestation-effrenee-en-guinee-ce-massacre-environnementalqui- menace-desormais-notre-existence/
  9. https://news.un.org/fr/story/2009/06/160232-fao-savane-guineenne-leveil-dun-geant-africain
  10. https://www.independentsciencenews.org/health/neoliberal-ebola-the-agroeconomic-origins-of-the-ebola-outbreak/
    12.Legger a questo proposito l’intervista all’antropologo Frédéric Keck, pubblicata su Lundi Matin con il titolo “Pipipistrelli e uomini” (https://lundi.am/Des-chauve-souris-et-des-hommes-politiques-epidemiques-et-coronavirus)
  11. http://chuangcn.org/2020/02/social-contagion
  12. Karl Marx, Le Capital, vol. 1, traduzione a cura J.-P. Lefebvre, 7a sezione, cap. XXIV & XXV, Paris, PUF, 1993
  13. Sulle espropriazioni di cui i Guineani sono stati vittime a beneficio delle imprese capitaliste, vedi https://www.independentsciencenews.org/health/neoliberal-ebola-the-agroeconomic-origins-of-the-ebola-outbreak/
  14. Oltre all’articolo citato nella nota precedente, si veda Rob Wallace (a cura di), Neoliberal Ebola: Modeling Disease Emergence from Finance to Forest and Farm, New York, Springer, 2016.
  15. Collassologi (termine usato per descrivere coloro che prevedono un rapido crollo della nostra “civiltà”) sono in prima linea nel produrre questi discorsi quasi-religiosi tralasciando sia le relazioni di dominazione che i modi di produzione. Per una confutazione di questo tipo di discorsi, si possono leggere due testi pubblicati sul blog di Perspectives Printanières, uno direttamente sul sito e dedicato alla collassologia https://perspectives-printanieres.info/index.php/2019/03/17/la-collapsologie-ou-la-critique-scientistedu- capitalisme/) e l’altro consacrato a coloro che, pensando di essere critici ma che in realtà sono solo cinici, vedono il Covid-19 come un’opportunità https://perspectives-printanieres.info/index.php/2020/03/10/lepidemie-na-pas-de-vertus/
  16. https://www.youtube.com/watch?v=TPpoJGYlW54 (i fatti esposti nel paragrafo successivo sono tutti, salvo indicazione diversa, tratti da questo video).
  17. Jade Lindgaard et Amélie Poinssot, « Le coronavirus, un boomerang qui nous revient dans la
    figure », Médiapart, 22 mars 2020
  18. Su questo processo, vedi l’articolo del biologo Rob Wallace dedicato al coronavirus scritto nella prima fase dell’inizio dell’epidemia. https://agitationautonome.com/2020/03/19/notes-sur-le-nouveau-coronavirus-robert-g-wallace/
  19. http://chuangcn.org/2020/02/social-contagion/ Wuhan è stato dapprima uno dei luoghi fondamentali della produzione siderurgica cinese. In seguito, confrontato a una crisi di sovrapproduzione, la città ha visto molti dei suoi altoforni spegnersi uno dopo l’altro. Il suo apparato produttivo (fabbriche che producevano acciaio, cemento, ecc.) e la manodopera che l’ha accompagnato (ingegneri civili, operai, etc.) ha facilitato la sua riconversione verso il mercato immobiliare.
  20. Ibidem.
  21. https://www.youtube.com/watch?v=TPpoJGYlW54
  22. È quanto afferma l’antropologo Frédéric Keck nell’intervista sopra citata concessa a Lundi Matin
  23. http://chuangcn.org/2020/02/social-contagion/ Ultima prova del legame che esista tra lotta ecologica e la lotta contro le pandemie, è il riscaldamento climatico che rappresenta di per sé stesso un notevole rischio epidemiologico. Si stima che il permafrost potrebbe rilasciare una serie di virus particolarmente virulenti che, finora, sono stati trattenuti dal suolo.
  24. È importante notare che la circolazione di un virus da una specie all’altra non è solo un processo dannoso che genera epidemie. E’ anche un processo che rendere più complesso e quindi di solidificare il nostro sistema immunitario: da qui il problema posto dalla generalizzazione delle monocolture animali che isolano le specie preselezionate e quindi indeboliscono il loro sistema di difesa di fronte ai virus.
  25. http://chuangcn.org/2020/02/social-contagion/
  26. Per finire è una classica strategia retorica quella di rimandare alcuni fenomeni a tempi lontani con l’obiettivo di allontanare le responsabilità da quei modi di produzione che ne sono la causa. È il caso per le pandemie, così come per tutti i rapporti di dominazione (razzismo, sessismo, etc.): si tratta di fenomeni che sarebbero sempre esistiti, legati alla “natura umana” (o, tout court, alla natura stessa) e quindi non potrebbero essere attribuiti al capitalismo.
  27. È, ad esempio, quel che mette in evidenza questo studio commissionato dal Dipartimento dell’agricoltura francese nel 2014: Madeleine Lesage, « Zoonoses émergentes et réémergentes : enjeux et perspectives », Centre d’études et de prospective, n°66, janvier 2014.
  28. Friedrich Engels, Dialectique de la nature, Paris, Éditions sociales, 1977.
  29. Su questo concetto e sul significato che vi attribuisce Marx, cfr John Bellamy Foster, Marx écologiste, Paris, Éditions Amsterdam, 2011 [2009].