Pubblichiamo un’intervista a sociologo Razmig Keuchyan realizzata da Fabien Escalona* . Secondo l’intervistato la crisi sanitaria rimetterebbe all’ordine del giorno la necessità della pianificazione e dunque di un adeguamento delle scelte di produzione. Questo implicherebbe una mobilitazione articolata di produttori e consumatori con l’obiettivo di riorientare l’apparato produttivo secondo i bisogni effettivi. Questi vanno discussi democraticamente nel rispetto delle esigenze di tutte le parti in causa.
La ministra francese Muriel Pénicaud si è rallegrata per aver raggiunto un accordo per riattivare il lavoro nel settore del BTP (costruzione e lavori pubblici NdT) che s’interrogava sullo scopo della continuazione delle sue attività. Dal punto di vista governativo non esiste un concetto chiaro sulla nozione di attività „essenziale per la Nazione“…
In effetti esiste una volontà di mantenere un’attività economica ordinaria che non corrisponde né alle esigenze della lotta sanitaria né alla soddisfazione dei bisogni essenziali della popolazione.
La posso interpretare come una resistenza intellettuale tipica del „vecchio mondo“ (neo liberale) delle classi dirigenti. Il paradosso è che nell’attuale periodo sono le stesse élite a prendere misure d’eccezione che lasciano intravedere un ordine sociale diverso.
In che cosa consiste questa “logica diversa” che sembra emergere in occasione della crisi sanitaria?
Apprezzo poco il lessico guerresco usato dai nostri governanti. Sono però consapevole che viviamo in una congiuntura eccezionale che richiede misure eccezionali. L’egemonia dell’economia di mercato continua ad esistere, ma si intravede quello che potrebbe essere un sistema diverso, vale a dire un sistema pianificato.
In un sistema di questo tipo si partirebbe dai bisogni da soddisfare, mettendo in moto l’apparato produttivo a tal scopo. Per schematizzare, si può affermare che, all’opposto, il capitalismo prima produce e suscita artificialmente dei bisogni fittizi per smaltire le merci già prodotte.
I tempi di guerra sono propizi ad un allontanamento dalla logica capitalista e all’adozione di una logica di pianificazione. Ad esempio, viene introdotto il controllo dei prezzi sulle derrate di prima necessità, vengono requisite alcune aziende, mettendo in secondo piano il prezzo da pagare.
Un esempio: durante la prima guerra mondiale (1914-18) si rifletteva su quanti chili di carbone fosse necessario produrre per riscaldare a Parigi un appartamento di media grandezza (tre locali) nella prospettiva di operare una distribuzione equa…
Anche se la dimensione capitalistica continua a prevalere durante la crisi sanitaria che stiamo vivendo, faccio notare che si discute piuttosto sulla quantità del materiale di protezione sanitario che sul prezzo, separando in parte i redditi dei cittadini e la loro attività produttiva reale. Tali misure mettono in evidenza la priorità data alla soddisfazione dei bisogni essenziali a scapito della solvibilità delle persone. Tutto questo mi sembra assai interessante in un prospettiva futura, in particolare di fronte al cambiamento climatico. In effetti la sfida è di riuscire a ripartire in modo egalitario un consumo delle risorse che deve essere sostenibile.
Ma il rischio non è quello di una definizione paternalista dei bisogni legittimi con il pretesto dell’alienazione delle masse? Come distinguere tali bisogni legittimi da quelli che saranno considerati come non sostenibili?
All’infuori di un esiguo numero di bisogni assolutamente indispensabili (dormire, mangiare, proteggersi dal freddo) le necessità evolvono storicamente e sono oggetto di discussioni politiche. Non è possibile alcun altro tipo di scelta realizzabile se non quella di affidarsi a scelte democratiche collettive.
Per capire che cosa ciò possa significare, bisogna partire da situazioni concrete. Prendiamo il caso del viaggio, a cui si riferisce la politologa Mathilde Szuba. Viaggiare è un’attività profondamente inegualitaria (più si dispone di buoni redditi, più si viaggia), che tra l’altro contribuisce in modo importante a determinare il carattere insostenibile del nostro modello di sviluppo. Immaginiamo che diventi un diritto politico al pari del diritto di voto con un numero di chilometri autorizzati, per anno o per decennio, senza nessun legame con i redditi di ognuno. Questo permette di determinare democraticamente costrizioni e limiti in funzione degli imperativi ecologici, senza però farli pesare sulle classi subalterne della popolazione.
In fondo, è la stessa logica del razionamento e l’opposto del meccanismo del tipo “mercato delle emissioni di CO2”, dove si potrebbero scambiare dei diritti al viaggio, rafforzando così inegualitarie.
Nel suo libro I bisogni artificiali (La Découverte, 2019), lei propone una strategia politica per raggiungere l’obiettivo di deliberare in modo egualitario sui bisogni comuni da soddisfare rispettando i limiti ecologici. Lei presume che la mobilitazione deve avvenire simultaneamente sia nell’ambito della produzione che in quello del consumo.
Lancio un’ipotesi, per la verità ancora vaga a questo stadio, che consisterebbe nel costituire associazioni di produttori-consumatori. Studiano le associazioni dei consumatori ad inizio del XX° secolo, mi sono reso conto che erano molto vicine ai sindacati del mondo del lavoro, contrariamente a quella distanza che sembra prevalere oggi. Ad esempio, scioperi e boicottaggi potevano essere lanciati congiuntamente. Queste associazioni pensavano che i consumatori avevano una responsabilità politica nei confronti dei produttori.
Sono convinto che bisogna ricongiungere nuovamente quello che il ventunesimo secolo ha distaccato. Si potrebbero creare, sui luoghi di lavoro e nei quartieri, associazioni di questo tipo. Si tornerebbe così alla tradizione “consigliare” nei suoi aspetti più vivi, rappresentando anche un processo di radicalizzazione dell’attuale democrazia rappresentativa, senza per questo sopprimerla.
La questione della scala per ripensare i bisogni resta cruciale. Bisogna agire in modo rapido e massiccio, ma le associazioni da lei menzionate dovranno essere forzatamente radicate a livello locale. D’altro canto è risaputo quanto una centralizzazione eccessiva possa avere conseguenze disastrose.
Non è necessario scegliere ad ogni costo fra due opzioni caricaturali: da un lato un potere municipale poco interessato all’azione pubblica a livello globale, dall’altro uno Stato che agisce in modo verticale e autoritario. Sono consapevole che la pianificazione nel XX° secolo ha assunto detestabili forme burocratiche. È proprio per questo che tali nuove forme devono mettere in costante tensione il livello locale con quello globale. Si tratta di una difficoltà pratica, ma non di un’impossibilità logica.
Inserisco queste riflessioni in una tradizione intellettuale, incarnata da teorici come Antonio Gramsci o Nicolas Poulantzas, che pensano che lo Stato non è sia un blocco monolitico, ma un campo di battaglia strategico, utile per azioni cruciali quali, ad esempio, la limitazione delle emissioni di gas ad effetto serra. Gramsci sosteneva che “le crisi indeboliscono i determinismi”: esse aprono delle possibilità di riorientare istituzioni che oggi ci sembrano coercitive e incancrenite dalla logica produttivistica e consumistica.
Prima di scoprire la buona architettura istituzionale per ripensare democraticamente i bisogni, bisogna superare un ostacolo non indifferente: la forza di seduzione dell’universo delle merci. L’attuale crisi sanitaria le sembra propizia alla sua rimessa in discussione?
La crisi sanitaria fornisce l’occasione d’insistere sulla rilocalizzazione di numerose attività. Ma questo problema non è il solo a dover essere affrontato: bisogna anche battersi per produrre altro, in modo diverso. Mi riferisco qui, ad esempio, all’ampliamento obbligatorio della garanzia sui prodotti, che spingerà a fabbricare prodotti più robusti, a riparabili piuttosto che acquistarne uno nuovo. In generale, penso che non bisogna altresì cadere nella trappola di una colpevolizzazione individuale. La sobrietà può essere organizzata solo in modo collettivo. La limitazione della pubblicità è una modalità che evita di far pesare su ognuno di noi la responsabilità del nostro modo di vivere. Consiste in un dispositivo collettivo che abbia come obiettivo di diminuire lo spazio occupato in noi dall’immaginario mercantile, allontanandoci in questo modo dalla civiltà usa e getta e dalla rotazione rapida dei prodotti.
Pensa che gli attori politici possano appropriarsi efficacemente a breve termine di questi temi?
Bisogna ricostruire un programma comune della sinistra attorno al tema del riorientamento del nostro apparato produttivo. Le condizioni intellettuali sono ormai date e la crisi sanitaria potrebbe costituire un collante rendendone evidente la necessità. Questa base di discussione può riunire vari movimenti che vanno dalla sinistra emersa dal movimento operaio all’ecologia politica. Bisogna in seguito garantire la connessione con i movimenti sociali, che non è per nulla automatica.
Assistiamo a movimenti che vanno nella direzione di una nuova logica, come, ad esempio, la proposta di un “Green New Deal“ avanzata dalla sinistra nordamericana, oggi in una fase di grande rinnovamento. Si può contestarne l’aspetto “tecno-ottimista“, ma la direzione mi sembra quella giusta, cioè, ossia quella di una giustizia climatica che implicherà velocemente (tra l’altro) un controllo democratico della finanza.
*testo apparso il 28 marzo sulla rivista online Mediapart. La traduzione dal francese è stata curata dall’amica Zoe Markus-Salati che ringraziamo