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Complice la sua banalizzazione da parte del presidente Bolsonaro che l’aveva definita “un’influenzuccia”, la pandemia miete vittime a migliaia e sta sfuggendo ad ogni forma di controllo.

Però, è anche la situazione politica che tende a diventare incontrollabile sia per il capitano-presidente che per le classi dirigenti del paese.

Ci sarà voluto meno di una settimana, quella iniziata il 20 aprile con il defenestramento del ministro della salute, cacciato da Bolsonaro, perché la crisi politica latente si rivelasse in piena luce: è il venerdì 24 aprile quando un altro peso massimo del governo, il ministro della Giustizia Sergio Moro ha rassegnato le dimissioni.

È nel corso di una conferenza stampa molto mediatizzata che Sergio Moro, l’ex-giudice che fece imprigionare Lula spianando così la via a Jaïr Bolsonaro, ha annunciato pubblicamente le sue dimissioni motivate dall’ingerenza diretta del presidente nelle inchieste della polizia federale.

Fra queste c’è anche quella sull’implicazione di Flavio, uno dei figli di Bolsonaro, nell’assassinio, due anni fa, di Mariele Franco e del suo autista. Consigliera comunale del Partito socialismo e libertà (PSoL), Mariele era stata estremamente attiva nella denuncia dei paramilitari che, a Rio, terrorizzano, con la connivenza della polizia, gli abitanti delle favelas.

Una dimissione, quella di Sergio Moro, da valutare positivamente? Se è vero che indebolisce fortemente Bolsonaro – i cui sostenitori scendono in piazza per esigere la soppressione della Corte suprema, la chiusura del Parlamento e l’istaurazione, di fatto, della dittatura – la crisi attuale non apre automaticamente verso un’uscita progressista, anzi…

Infatti, se il partito liberale parla di un “inizio della fine” e i militari prendono apertamente le distanze dal presidente, nulla per il momento lascia intravvedere un esito positivo alla crisi aperta.

Da un lato, nessuna frazione delle classi dirigenti si è finora pronunciata per l’ impeachement di Bolsonaro – che continua a disporre di un appoggio di massa da non sottovalutare; dall’altro, la paura congenita delle élites di assistere ad un ritorno del PT – e soprattutto di politiche ridistributive – le spinge alla ricerca di soluzioni autoritarie che potrebbero essere assunte dall’esercito.

E in questo ambito, la resistenza mostrata sino a questi ultimi giorni dal PT di Lula alla costruzione, con i movimenti sociali e le forze politiche della sinistra radicale, un fronte unico “Fuera Bolsonaro!”, lascia ampio spazio a delle riorganizzazioni a destra. La situazione è quindi assai complicata.

Ne offre una descrizione, il resoconto di Stalin Perez Borges, già segretario generale della venezuelana Union nacional de los trabajadores  (la UNT) e portavoce della Liga unitaria chavista y socialista, LUCHAS, gruppo simpatizzante della Quarta internazionale.

In viaggio verso Argentina, Stalin (il nome non se l’è scelto lui, così l’han chiamato quando è nato…) è da diverse settimane bloccato in Brasile, prima nel Minas Gerais ed ora a San Paulo. Ne ha approfittato per redigere questo resoconto di quarantena per i suoi compagni venezuelani.

Riteniamo che la sua descrizione della situazione possa interessare ben al di là della sinistra radicale venezuelana… Eccone dunque ampi stralci. (Paolo Gilardi)

Brasile, alcune riflessioni non definitive

Un resoconto di quarantena di St. Perez Borges*

[…] Credo che in Venezuela, come in tanti altri paesi, non si sappia bene quanto sta succedendo in  Brasile. Spero, con il mio racconto, di farvi approfittare di quanto m’hanno raccontato e spiegato alcuni coetanei, amici e compagni brasiliani. Grazie a loro cercherò di trasmettervi elementi che permettano di comprendere il come ed il perché di quanto sta succedendo.[…]

La settimana si chiude oggi[i] in un modo ancora più complicato, sia sul piano sanitario che su quello politico, di quanto già non lo fosse mentre la barca sulla quale naviga Bolsonaro sta imbarcando acqua da tutte le parti. Il livello raggiunto dall’acqua ormai lo possiamo costatare ad occhio nudo.

Era iniziata, la settimana, con il licenziamento del ministro della sanità Luiz Henrique Mandetta, reo di aver invitato al rispetto delle norme di confinamento emanate dall’OMS per evitare la diffusione del COVID-19, proprio il contrario di quanto preconizzato dal presidente. È poi continuata con il licenziamento da parte della presidenza di Mauricio Valeixo, direttore generale della polizia federale. Sebbene il suo direttore sia designato dal Presidente della Repubblica, la Polizia federale è un’istituzione autonoma ed indipendente che coordina la sua azione con il solo Ministero della giustizia.

La destituzione di Valeixo è strettamente legata ad un’inchiesta in corso contro un gruppo di mafiosi specializzati nelle estorsioni ed accusati di assassinii, fra i quali figurano alcuni pubblici funzionari legati alla famiglia Bolsonaro ed il cui boss non è altri che Flavio Bolsonaro, il figlio di papà Jaïr.

E per finire, venerdì, è Sergio Moro, il Ministro della giustizia che annuncia le sue dimissioni davanti alla stampa, confermando che la ragione è da cercare nelle interferenze presidenziali nelle inchieste della Polizia federale che  toccano la sua famiglia; in più, Moro conferma che l’inchiesta contro Flavio Bolsonaro è la ragione della destituzione di Valeixo.

Sono fatti, questi, che formano una serie che si allunga di giorno in giorno,  e che sopraggiungono in un momento in cui i contagi della pandemia di coronavirus si moltiplicano in modo stupefacente in diverse regioni del paese. Già è noto sul piano mondiale il fatto che Bolsonaro ha preferito dissimularne la portata e favorire gli interessi degli imprenditori sin dall’apparizione del COVID-19 come pandemia, molto più di quanto avesse già fatto, senza prendersi cura della salute della popolazione brasiliana.

Così, al momento stesso in cui veniva dichiarata la pandemia, ha avuto più volte modo di esprimersi, infuriato, dicendo che “le misure di confinamento chiudono i commerci e bloccano le altre attività al solo scopo di soddisfare la campagna isterica della stampa e dell’OMS”. L’ex-capitano Bolsonaro, espulso dall’esercito per “indisciplina” si è poi permesso di burlarsi dei governi che, disciplinatamente, applicavano le direttive sanitarie per evitare il contagio nei loro paesi, spiegando che il COVID-19 non sarebbe altro “che un’influenzuccia, niente di  più”.

[…] Sia la stampa che i governatori degli Stati che hanno adottato misure di urgenza e di confinamento sono entrati in rotta di collisione con il Presidente della Repubblica. Governatori quali Joao Doria, dello Stato di San Paulo che, per prendere il treno Bolsonaro e per farsi eleggere aveva ripreso a suo conto il soprannome di Bolsodoria, così come Wilson Witzel, governatore dello Stato di Rio de Janeiro e molto legato al presidente, sono oramai in conflitto aperto con lui a causa delle sue dichiarazioni contro la quarantena e la sua negazione dei pericoli del coronavirus.

Alcune settimane fa si è raccontato che il generale Braga avesse preso le redini del governo. Tuttavia, Bolsonaro non s’è fatto da parte, anzi, è sempre lì. E malgrado il fatto che la maggioranza degli Stati sia in quarantena, l’assenza di strumenti per misurare le contaminazioni e la mancanza di équipe mediche all’altezza costringe il Brasile a vivere secondo il precetto del presidente secondo il quale “moriranno quelli che devono morire”. Si tratta di fatto di un allineamento alla dinamica della pandemia e in favore della morte purché non si alteri o freni il processo di produzione capitalista.

Molte sono le aziende, anche se non produttrici di beni essenziali, che continuano a lavorare; i lavoratori sono obbligati non solo a lavorare, ma anche ad utilizzare i trasporti pubblici. È noto che buona parte della popolazione del Brasile si concentra nelle favelas, dividendosi spazi esigui con tutta la famiglia, in casupole arroccate l’una all’altra oppure separate da vicoli insalubri che favoriscono la propagazione della pandemia. È qui che si trova la radice dell’opposizione tra Bolsonaro e la sua cricca da un lato ed i governatori degli Stati dall’altro per i quali il confinamento dovrebbe permettere di evitare una forte mortalità. Questi ultimi sanno benissimo che se i morti dovessero cominciare ad accumularsi per le strade le loro carriere saranno minacciate: è per questo che si oppongono a lui, e non tanto perché abbiano una comprensione della posta economica in gioco meno grossolana di quella del presidente fascista e genocidario. La maggior parte di questi governatori rappresentano la destra tradizionale, alcuni di loro non sono fascisti e ci sono pure alcuni stati governati dal PT come Bahia, Cearà y Piauì e dal PCdB nello stato di Marahão, nel Nord del paese.

Tutti i governatori eletti nella formazione pro-fascista di Bolsonaro e che stanno con lui sin dall’inizio sono strettamente legati al settore dell’agro-businness che li sostiene. È in favore di questo settore che Bolsonaro sta realizzando le promesse fatte. Si tratta di facilitare l’accesso alle zone protette dell’Amazzonia e ridurre l’estensione dei territori delle popolazioni originarie, le cosiddette “riserve indigene”, al solo scopo di garantire all’agro-businness più vaste superfici da destinare all’allevamento e alla produzione di soja. Questo settore è per la maggior parte rappresentato da fabbricanti di armi e dalle grandi catene di supermercati. Furono loro – tutti fascisti dichiarati- a finanziare la campagna elettorale illegale articolata attorno alla diffusione massiccia di fake news via What’App e Twitter.

Venezuela: se il tuo vicino ha le sopracciglia che stanno bruciando, metti subito i baffi a mollo

Ma Bolsonaro è un vero rappresentante e militante delle chiese neo-pentecostali quali l’Universale del regno di Dio (URD) di Edir Macedo[ii], l’Assemblea di Dio e tante altre dello stesso tipo. Queste dispongono di reti televisive e radiofoniche e beneficiano di immensi finanziamenti pubblici di cui disponevano già ai tempi dei governi del PT, che le sostennero e permisero loro di svilupparsi nell’editoria, nell’industria discografica e in vari mezzi di comunicazione che sono oggi le armi di propaganda, di divertimento e di alienazione per diffondere fanatismo religioso, xenofobia e razzismo, machismo e ogni tipo di odio medievale. È grazie a queste reti che Bolsonaro ed i partiti a lui alleati si sono conquistati una base sociale che resta importante grazie ad una diffusione massiccia e capillare in direzione dei fedeli delle chiese evangeliste, ma anche verso le periferie delle grandi città, verso i quartieri poveri e le favelas che, nel 2018, gli assicurarono i voti necessari. È grazie al loro fanatismo militante che furono allora eletti tantissimi deputati, senatori, governatori e sindaci.

È proprio per questo che il governo del Venezuela, che finanzia in modo importante le chiese evangeliste, dovrebbe preoccuparsi di quanto sta succedendo in casa del vicino: se il tuo vicino ha le sopracciglia che stanno bruciando, metti subito i baffi a mollo

Oltre a questi appoggi, Bolsonaro può beneficiare del sostegno del grande capitale finanziario che ha promosso a capo del ministero dell’economia Paulo Guedes, un finanziere senza scrupoli contro il quale sono pendenti alcune denunce penali per aver frodato alcuni dei suoi propri clienti. Il suo credo è semplice: privatizzare le grandi e lucrative imprese pubbliche e liquidare qualsiasi forma si sovranità e autonomia produttiva e scientifica.

Ci sono invece settori legati all’agro-businness che stanno prendendo le distanze da Bolsonaro a causa della sua politica estera fondamentalista e delle frizioni che questa ha suscitato con la Cina, principale cliente delle esportazioni alimentari brasiliane. Ed in questo hanno un certo peso le dichiarazioni dei figli di Bolsonaro – che già sono il suo tallone d’Achille da quando son diventati sempre più evidenti sia i loro legami con le milizie, bande armate nate nella polizia di Rio de Janeiro, che la corruzione -, dichiarazioni che sono delle vere e proprie provocazioni contro la Cina e tutto quanto potrebbe essere in odor di “comunismo”.

Quanto ai militari, è preoccupante costatare che fra quanti occupano funzioni governative – e sono tanti vista anche l’ossessione di Bolsonaro per le armi […]- la stragrande maggioranza fa parte di quella che in Brasile chiamano “poroes da dictadura”, cioè “il terriccio fertile della dittatura”. Ciò malgrado, non poche sono state le divergenze recenti fra i militari di rango elevato e Bolsonaro, in particolar modo su di un eventuale ricorso alla forza contro il Venezuela.

Quel che ancora però non è chiaro è la portata della dimissione, il 24 aprile, di Sergio Moro. Le sue accuse son pesanti perché non ha denunciato solo le ingerenze presidenziali nelle indagini della Polizia federale; ma ha anche pubblicamente accusato Bolsonaro di intrighi e macchinazioni, di fabbricazione di false prove e bilanci positivi per impedire che settori della borghesia – appoggiati o no dall’esercito – intraprendano una procedura di impeachement, di destituzione.

L’attuale crisi di governo è per il momento capitalizzata dalla destra tradizionale e non è per caso che il governatore Joao Doria[iii] si è già detto disponibile per le prossime presidenziali, così come altri personaggi dello stesso suo spettro politico-ideologico. E se lo stesso Moro dovesse a sua volta candidarsi, ci sarebbe di che preoccuparsi ulteriormente perché Moro fascista lo è quanto se non più di Bolsonaro.

Devo purtroppo terminare questa mia relazione sulle cose del Brasile con una costatazione raccapricciante: il rapporto di forza tra le classi resta largamente sfavorevole a questa poderosa classe operaia. Malgrado le frizioni all’interno del governo e le tensioni tra settori borghesi, gli attacchi contro i diritti dei lavoratori, contro le protezioni sociali e le conquiste di civiltà non cessano di approfondirsi, giorno dopo giorno. La distruzione dell’Amazzonia e delle popolazioni originarie è brutale; la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro sono in crescita costante e le organizzazioni sindacali conoscono una crisi profonda, finanziaria, causata da questi attacchi. Se poi a questo si aggiunge l’immobilismo dei dirigenti sindacali, in particolar modo di quelli della CUT (la centrale unitaria dei lavoratori), la più grande centrale sindacale del paese …

Quanto al PT, sempre profondamente in crisi, ha conosciuto un certo numero di nuove adesioni di lavoratori che prendono coscienza delle politiche di cui sono vittime. Malgrado questo, però, la sua fiducia nelle istituzioni borghesi e la sua ostinata politica di collaborazione di classe gli impediscono di svolgere un ruolo rilevante nell’attuale situazione. Anzi, sino alla scorsa settimana, il PT, ha addirittura rifiutato di partecipare ad un fronte unico per la difesa dei diritti e per organizzare il rovesciamento di Bolsonaro.

E’ solo al termine di una furiosa battaglia interna che alla fine il PT ha accettato di unirsi al movimento “Fuera Bolsonaro!”. Si tratta di un fatto importante che forse contribuirà alla costruzione di un vero Fronte unico dei lavoratori e della sinistra. Il confinamento limita evidentemente la capacità di azione ed è anche per questa ragione, ma non solo, che, per il momento, la possibilità di rovesciare Bolsonaro resta appannaggio della borghesia e della destra tradizionale.

Il Partido Socialismo y Libertad (PSoL), malgrado un’assise militante importante, ha delle capacità d’azione limitate e pochi parlamentari. Oggi, il principale movimento popolare è il MTST, il movimento dei lavoratori senza tetto, dove s’è formato Guilherme Boulos, il candidato alla presidenza del PsoL nel 2018. Comunque, malgrado una crescita importante ed un’impostazione proletaria, il PsoL continuerà ad essere ancora per un buon periodo, un’organizzazione di avanguardia.

La strada verso alternative rivoluzionarie resta quindi assai lunga anche se la situazione potrebbe conoscere fasi di accelerazione. La storia ci ha più volte sorpresi grazie alla capacità delle organizzazioni di sinistra di proporre programmi immediati adeguati ed alla loro audacia. Un tale programma oggi deve proporre delle scelte per combattere la pandemia e la crisi economica che si è accelerata ed approfondita, deve partire dai bisogni della stragrande maggioranza dei lavoratori per proporre vie d’uscita che rompano con quelle proposte dal capitalismo nelle sue varianti socialdemocratica o fascista e che ci stanno portando sempre più vicini alla catastrofe.

E concretamente, in un primo tempo e nell’attuale congiuntura, la costruzione di un tale programma passa attraverso la creazione di un largo fronte unico per sconfiggere Bolsonaro, il suo fascismo e la sua necropolitica.(San Paulo, 26 aprile 2020)

*Traduzione dallo spagnolo a cura di Paolo Gilardi per la redazione di Rproject


[i] Il testo è stato scritto domenica 26 aprile

[ii] Edir Macedo, nato nel 1945, fondatore del’UDR è anche il proprietario del secondo più grande gruppo del settore audiovisivo in Brasile, RecordGroup, proprietario di Record TV.

[iii] Governatore dello Stato di San Paulo che era stato eletto rivendicandosi del programma di Bolsonaro.