Pubblichiamo l’intervista raccolta da Sara Zanisi a Vittorio Agnoletto, medico del lavoro, docente di “Globalizzazione e Politiche della Salute” presso l’Università degli studi di Milano, tra i fondatori della Lila Lega italiana per la lotta contro l’Aids. La conversazione è stata registrata in audio lo scorso 17 marzo a Milano attraverso una video call, perché erano già in vigore le restrizioni di movimento e incontro imposte dall’emergenza Covid-19. È su questo argomento che la redazione di Officina Primo Maggio (OPM) ha voluto ascoltare la testimonianza di un medico impegnato non solo sul fronte del contenimento dell’epidemia, ma anche su quello dell’informazione e della divulgazione scientifica: Vittorio Agnoletto infatti è stato da subito attivo sul piano della comunicazione alla cittadinanza, sia attraverso Radio Popolare – emittente milanese in cui dal 2015 conduce la trasmissione “37 e 2” sui temi dell’handicap e dell’invalidità civile –, sia attraverso il blog su Il Fatto Quotidiano, il blog personale e la pagina Facebook – da cui trasmette quotidianamente dal 18 marzo 2020 un video-aggiornamento quotidiano sul Coronavirus.[1]
A noi interessa mettere a fuoco gli aspetti dal punto di vista del lavoro, oggi – com’è organizzato il lavoro e cosa resterà sul lavoro in futuro. La prima questione: cos’è successo quando l’emergenza Covid-19 è arrivata e come ha impattato sul modello regionale che abbiamo in Lombardia?
Io proporrei come percorso di analizzare i problemi che si sono verificati di fronte alla vicenda Covid in Regione Lombardia e in Italia. Poi comincerei a vedere il perché, cosa è successo, dando qualche dato di riferimento legislativo a livello nazionale, per capire perché la situazione è andata così. Va bene questo taglio?
Assolutamente sì, poi alcune questioni che abbiamo messo a fuoco per capire meglio se possiamo parlare di una “visione fordista” della sanità pubblica. Perché si è scelto di “efficientare” il servizio sanitario, riducendo il numero dei posti-letto? Se c’è una visione di questo tipo, che conseguenze ha avuto e ha? Cosa sta succedendo a chi lavora nel sistema sanitario, come vengono tutelati oggi i lavoratori e le lavoratrici della sanità?
Vado a schema, vediamo cosa non ha funzionato, poi vedremo le ragioni. Primo punto: avevamo una “finestra di opportunità” – così definita dall’Oms – cioè il periodo da quando il virus è arrivato in Cina a quando è comparso in Occidente, ossia in Italia. Questa finestra di opportunità di circa un mese, considerato che il virus sarebbe comunque arrivato – in un mondo globalizzato era inevitabile – avrebbe dovuto essere utilizzata per preparare tutte le strategie necessarie per cercare di contrastarlo e ridurne al minimo l’impatto. Si è persa questa finestra di opportunità, al di là delle vicende dei voli, non è stato attivato il servizio sanitario soprattutto nell’ambito della prevenzione, della informazione, del coinvolgimento della popolazione. Qualche esempio semplice. Prima cosa, banale, si deve informare la popolazione: bisogna avere un numero di telefono dedicato per poter dare le informazioni, perché nel momento in cui si annuncia l’arrivo di un virus con quelle caratteristiche si sa che una fetta di popolazione andrà in ansia. Tutto questo non è stato fatto, e questo è il primo errore. Sono questioni di sanità pubblica, non è solo questione di buon senso, sono cose che si studiano.
Ci puoi spiegare meglio cos’è la sanità pubblica e cosa non c’è stato in termini di prevenzione, studi epidemiologici, gestione di sanità pubblica?
Non è stato creato un numero di telefono dedicato ma sono state convogliate tutte le domande per avere informazioni sul 112, che invece è un numero per le emergenze (infarti, borseggi, incidenti, eccetera), così hanno bloccato il numero di telefono importantissimo per le emergenze. Questo è stato un errore assolutamente fondamentale. Quando poi hanno dato i numeri dedicati suddivisi a livello regionale hanno messo pochi operatori e non hanno puntato sulla loro formazione, che invece è stata la prima cosa realizzata in Cina. Non c’è stato poi uno staff governativo dedicato a informare il paese e i mass media da un punto di vista scientifico e comunicativo, come invece si deve fare di fronte a un problema di sanità pubblica: cercare di avere una comunicazione che dia l’impressione che il governo non è stato colto alla sprovvista e che ha una serie di informazioni su come affrontare la situazione; comunicare quello che avremmo incontrato, come sarebbe stato gestito, quali sono i rischi veri, quali sono le tematiche, in modo da evitare allarmismi. C’era circa un mese e mezzo di tempo, le autorità cinesi erano disponibili a condividere tutte le informazioni, c’erano i report dell’Oms, ma tutto questo non è stato fatto. Questo avrebbe bloccato l’allarmismo e alcuni meccanismi dei media? Sicuramente no, avrebbe però potuto fortemente ridurne l’impatto emotivo, avrebbe reso autorevole l’intervento delle massime istituzioni sanitarie per segnalare quale media stava fornendo informazioni errate e avrebbe modificato il rapporto con la stampa. È un punto di vista tecnico, non politico, che dovrebbe essere ovvio quando si gestisce una problematica di salute pubblica. Questo non è stato fatto.
E non è stata fatta una terza cosa, fondamentale nella sanità pubblica, cioè la corresponsabilizzazione della popolazione attraverso le informazioni e la spiegazione di come queste debbano essere utilizzate. Per rifarsi a un riferimento culturale, in Nemesi Medica. L’espropriazione della salute (1976), Ivan Illich poneva il problema di non delegare la cura della propria salute, che deve essere il risultato di una collaborazione tra l’apparato sanitario e la popolazione che diventa corresponsabile e consapevole della propria condizione.
D’altra parte noi avevamo un’esperienza fortissima in Italia, quella di decenni di lotta contro l’aids, in cui si è dimostrato come l’azione della società civile e delle associazioni aveva svolto un ruolo enorme, perché queste realtà sapevano comunicare, trovare le parole giuste e soprattutto sapevano che la comunicazione si fa per target mirati. Nella nostra situazione, la comunicazione ad ampio spettro – cioè quella televisiva, per capirci – può avere un’importanza abbastanza limitata, si deve comunicare utilizzando vari linguaggi comprensibili. Questi sono studi, pratiche, scuole di sanità pubblica, che andavano fatti, ma tutto questo non è stato realizzato, punto a capo.
Seconda problematica. Noi abbiamo una rete di operatori sanitari che sono gli Mmg, i medici di medicina generale con un contratto di convenzione a livello nazionale. È la rete più diffusa: tutto il mondo ci invidia questa rete, grazie alla quale tutti coloro che risiedono in Italia – cittadini italiani, immigrati regolari e perfino i minori irregolari – sono iscritti presso un medico, il pediatra di libera scelta o il medico di medicina generale; certo gli Mmg sono stati ridotti di numero, ma tutti i cittadini sono iscritti. Questa era la prima linea che avevamo, che andava rafforzata e messa in condizioni di sapere cosa doveva fare e di agire in sicurezza. Rispetto a questi operatori non è stato fatto nulla, sono come la prima linea di una truppa che è stata lasciata completamente allo sbando sotto il fuoco avversario senza avere nessuno strumento per difendersi. La prima mail che è arrivata loro, dicendo che potevano andare a ritirare le mascherine a Milano, è arrivata il 4 marzo, quindi oltre dieci giorni dopo la comparsa del caso di Codogno. Prima che comparisse questo caso – e c’era già stata l’avvisaglia di due cinesi a Roma – bisognava dare le istruzioni ai medici di base, procurare guanti, camici monouso e mascherine; bisognava prepararsi a dirigere il flusso; avvisare la popolazione che non doveva – se sospettava il Coronavirus – dirigersi verso i pronto soccorso, perché questi luoghi sarebbero diventati un ambito dove vi era il forte rischio di diffusione del virus; né doveva andare nelle sale di attesa dei medici di medicina generale, perché sono in genere affollate e vi sarebbe stata una significativa possibilità di infettarsi o di infettare altre persone. Quindi anche qui altri errori enormi: i cittadini avrebbero dovuto avere a disposizione un numero verde, da una parte, e dall’altra ricevere l’indicazione di contattare telefonicamente il proprio medico curante, il quale avrebbe dovuto ricevere l’indicazione di fissare gli appuntamenti per i sospetti di Coronavirus in orari distanziati l’uno dall’altro, sarebbe cioè stato necessario pianificare l’azione dei medici di medicina generale.
Tutto questo col senno di poi? No, tutte le informazioni c’erano, perché la cosa importante in questo caso è sapere qual è la via di trasmissione del virus. Se si conosceva la via di trasmissione del virus, si sapeva anche come si poteva trasmettere l’infezione dall’uno all’altro, si era assolutamente in grado di prendere tutte queste precauzioni. Queste cose non sono state fatte. Non solo, non sono stati neanche protetti gli operatori dei pronto soccorso e degli ospedali.
Perché? Questo è il risultato del costante smantellamento della medicina preventiva e della medicina del lavoro?
Perché da noi la medicina del lavoro in ambito ospedaliero e in ambito sanitario è una parola, non è un fatto. I servizi di medicina preventiva sono ridotti al lumicino, i medici del lavoro sono liberi professionisti, che lavorano per datori di lavoro che possono licenziarli quando vogliono – io stesso sono stato licenziato. Alla Asl è rimasto solo il ruolo ispettivo. Anche dentro gli ospedali tutte le misure universali di precauzione definite dall’Oms sono giusto un testo che si studia solo se uno fa l’esame di “Medicina Preventiva” prima di laurearsi. Questa è un’altra questione grave, non sta nella “normalità” di un’epidemia che si arrivi ad avere circa il 12% degli infettati tra il personale sanitario, è una cosa assolutamente gravissima, perché in questa situazione si ammalano coloro che devono curare la popolazione!
Cosa sta succedendo, che tipo di osservatorio hai? Gli operatori sanitari come si stanno organizzando, autodifendendo? Perché poi c’è tutto il tema delle inadeguatezze negli approvvigionamenti dei dispositivi di protezione individuale, a cui stiamo assistendo soprattutto negli ultimi giorni: hai qualche segnale da parte degli operatori sanitari?
Sono sommerso da segnali degli operatori sanitari 24 ore al giorno, da tutti gli ospedali. Ovunque la situazione è drammatica, realmente drammatica. Le mascherine Ffp3 o Ffp2 sono in numero scarsissimo. Nelle linee del Ministero hanno previsto che all’interno degli ospedali i dispositivi di protezione individuali siano obbligatori unicamente per coloro che trattano i pazienti Coronavirus-positivi, tutti coloro che fanno altre pratiche o altri triage non hanno l’obbligo di questi dispositivi, hanno solo l’obbligo della distanza. Una follia, perché questo vuol dire che si ammalano moltissimi operatori sanitari. Quattro giorni fa [il 13 marzo, n.d.r.] avevamo 1.674 operatori sanitari infetti, oggi possiamo pensare che di aver superato abbondantemente le 2.000 unità di personale medico o sanitario infetto. Quindi ci sono pochissimi strumenti di protezione individuale anche proprio dentro gli ospedali, per non parlare dei medici di medicina generale. È un problema gravissimo.
Sono usciti due comunicati – uno dell’Ordine nazionale e uno dell’Ordine dei medici della Lombardia – drammatici. Questi comunicati non sono fake news, sono reali, sono comunicati durissimi perché gli Ordini dicono al governo che quello che è avvenuto – la mancanza di strumenti di protezione – sta trasformando coloro che devono curare in coloro che diffondono il virus. È una situazione veramente pesantissima. Come ha reagito il governo a queste vicende, come ha reagito la Regione? La Regione Lombardia ha fatto un disastro, non ha fatto nulla di quello che abbiamo detto sopra, ha voluto poi dimostrare che erano in grado di agire direttamente senza passare attraverso il governo e hanno ordinato delle mascherine che non sono mai arrivate. Poi c’è la polemica: non sono mai arrivate perché loro hanno sbagliato gli indirizzi di ordinazione, perché hanno preso una lista di aziende chiuse? Oppure non sono arrivate perché le aziende avevano detto che le avrebbero mandate e poi non le hanno mandate? Questo non lo sappiamo. Sta di fatto che le ordinazioni fatte dalla Regione non sono andate a buon fine, non è arrivato nulla, per questo motivo la Regione ha perso parecchi giorni prima di passare la palla alla Protezione Civile. A quel punto la Protezione Civile agiva anch’essa in ritardo: ha dovuto andare a recuperare le mascherine sul mercato internazionale, con tutta la concorrenza e le problematiche che ci sono in questi giorni. Questo è quanto successo dal punto di vista prevenzione.
Di fronte a questa situazione il governo cosa fa? Fa linee guida dove dice: tutti i cittadini che sono venuti in contatto con una persona positiva al Coronavirus devono stare in quarantena protettiva – di prevenzione, definiamola – per 14 giorni, tranne il personale che ha il contratto sanitario; costoro, se sono venuti a contatto con un collega che è positivo, vanno avanti a lavorare e solo qualora dovessero mostrare la febbre e sintomi respiratori, a quel punto verranno sottoposti a tampone. Questa è una roba da pazzi. Perché l’hanno fatto? Perché si sono resi conto di quanti sono gli operatori che si sono infettati: se si dovesse andare a verificare gli operatori infettati, molti di loro dovrebbero restare a casa e dovrebbero essere chiusi molti reparti. Ma se li lasciano lavorare pur essendo positivi, questi rischiano di infettare altre persone, altri colleghi e altri pazienti che sono ricoverati, con il risultato che se l’epidemia non si risolve in pochissimi giorni una parte del personale sanitario che si è infettato a un certo punto evolverà verso la fase più grave, mostrerà sintomi conseguenti all’infezione e vi sarà un numero enorme di operatori sanitari che staranno a casa. Se per ogni medico che diventa positivo non si possono lasciare a casa tutti i colleghi che sono venuti in rapporto con lui, altrimenti si rimarrebbe senza medici, allora bisogna garantire una sorveglianza sanitaria continua. Per esempio a costoro si deve fare il tampone ogni tre giorni, in modo tale che si trovi il virus immediatamente, appena si presenta. A quel punto si lasciano a casa, non si può rischiare che questi continuino a lavorare essendo positivi infettando altre persone, perché a un certo punto una parte di costoro evolverà, e si registrerà una curva in ascesa di operatori sanitari a casa. Questo è quello che sta avvenendo in questo momento. Gli esempi di guerra sono tremendi… dopo aver sacrificato la prima linea si finisce per sacrificare – purtroppo è così – anche la seconda linea di operatori scelti, e bisogna rimpiazzarli col reclutamento. In guerra era così, i ragazzi tra i 16 e 18 anni, nella Prima guerra mondiale andò così…
E i “ragazzi del ’99” sono i neolaureati?
Bravissima, questo è il quadro! C’è una follia nella gestione, anche perché oggi non c’è bisogno di medici generici, c’è bisogno di medici di pronto soccorso, del dipartimento emergenze, di malattie infettive; ed è chiaro che non c’è bisogno di neolaureati né di ultrasettantenni, che sono le persone più suscettibili all’infezione. C’era un patrimonio sanitario non indifferente e questo patrimonio bisognava tutelarlo. Quando il virus supera la prima linea, mette in crisi la seconda linea e impatta sui reparti ad alta specializzazione, cioè impatta sulle emergenze.
Il più grave rischio sanitario attuale sembra sia il limite del numero dei letti ospedalieri, in particolare quelli delle terapie intensive: ma perché siamo a questo punto? Perché in Italia abbiamo 5.000 posti di terapia intensiva contro i 28.000 in Germania e i 20.000 in Francia?
Qui si apre un altro problema: noi abbiamo un numero limitato di posti di emergenza e soprattutto di macchinari, per cui se c’è il letto ma non ad esempio la cpap (Continuous Positive Airway Pressure), cioè quello strumento che serve per fare una respirazione forzata attraverso una pressione positiva di ossigeno, paradossalmente il letto è inutile. Quindi alla carenza di materiale protettivo si aggiunge quella di strumenti tecnologici di cura: anche su questo non si è previsto assolutamente nulla – eppure dalla Cina le informazioni erano precise – e poi bisogna andare sul mercato a cercarle, ma a questo punto sul mercato ci sono Francia, Germania, Austria, Svizzera, Spagna e via dicendo, anche questo è stato un altro punto problematico.
Questo è il quadro che abbiamo di fronte adesso. Cerchiamo di capire le ragioni, in modo schematico. Sono molto semplici, consistono nella privatizzazione del servizio sanitario e nell’assunzione della logica della privatizzazione anche dentro le strutture pubbliche. Quindi c’è un dato materiale: la forte presenza del privato nella sanità. Che a sua volta amplifica un’ideologia aziendale che ha pervaso tutto il servizio sanitario: in Lombardia il privato sanitario convenzionato raccoglie il 40% della spesa sanitaria corrente della Regione.
Questo è un dato che mi interessa approfondire. Si destina il 40% del budget disponibile a un numero di strutture e soprattutto di posti letto molto più basso. Stando ai dati pubblicati qualche giorno fa, notavo che in Lombardia ci sono 68 strutture di privato convenzionato con circa 7.500 posti letto – di cui 380 in terapia intensiva – che sono più o meno il 20% dei posti letto lombardi, ma a fronte di un budget che è il doppio. Il privato convenzionato gestisce una percentuale molto maggiore del totale della spesa sanitaria: quasi 7 miliardi, sui 17,5 miliardi annui spesi in Lombardia, vanno a soggetti privati convenzionati. Ora è evidente questo dato, che forse non era così esplicito ed evidente prima, se non per gli addetti ai lavori.
Il privato costa molto di più del pubblico, lo confermano tutte le statistiche internazionali.
Prova a spiegare perché
Perché le forme di rimborso del pubblico verso il privato sono maggiori dei costi che sosterrebbe il pubblico per il medesimo intervento; perché una volta che sono stati istituiti i drg – ossia un sistema che permette di classificare tutti i pazienti attraverso la diagnosi di dimissione, dalla quale dipende l’entità dei rimborsi – il privato è molto bravo a cercare di utilizzare questi meccanismi per avere i maggiori profitti possibili: il privato è in grado di giocare con le varie diagnosi per le diverse patologie, con lo scopo di massimizzare i rimborsi attraverso le diagnosi maggiormente remunerative.
Senza contare tutto quello che è vera e propria truffa – la Lombardia è piena anche di inchieste sulla corruzione in ambito sanitario –, come ad esempio dichiarare patologie che non ci sono, fare interventi chirurgici che sono ben retribuiti quando magari non sono necessari e si potrebbe continuare a lungo con molti altri esempi. E dato che la Regione ormai da tempo ha rinunciato a una forma seria di controllo dell’agire del privato, è evidente che il privato, una volta stabilite le modalità di rimborso, giocherà al rialzo per avere il massimo di rimborsi possibili.
Questo c’entra anche con il fatto che i posti in terapia intensiva presso le strutture private sono pochi?
Stiamo dicendo che il 40% della spesa sanitaria in Lombardia va al privato, questo privato che finalità ha? Sono cose banali ma ce le dimentichiamo, la sanità privata è frutto di azionisti che sono finanziarie, banche, grandi multinazionali ecc., che investono nella struttura privata perché vogliono avere dei profitti, ovvio, come qualunque altra azienda. Il privato ha profitti quanto più ci sono malattie, è banale ma è così: è evidente che il privato non ha nessun vantaggio a lavorare sulla prevenzione, perché non solo la prevenzione non produce profitti, ma la prevenzione abbassa i profitti. Se anziché avere quattro pazienti oncologici ne hai tre perché si riesce a convincere qualcuno a fumare di meno e quindi non sviluppa il tumore, è evidente che al privato questo non va bene, perché guadagna sul malato oncologico, non guadagna sul cittadino che ha smesso di fumare e non sviluppa il tumore, quindi quanti più malati ci sono tanti più profitti fa il privato. Mentre la logica del pubblico è esattamente il contrario: quanti meno malati ci sono, quanto più il pubblico guadagna perché risparmia nella fiscalità generale e spende meno nella cura; sono due culture totalmente diverse.
In Italia, in particolar modo in Lombardia, non solo è stato appaltato moltissimo al privato, ma abbiamo introiettato nel pubblico la logica del privato quando siamo passati dalle Ussl (unità socio-sanitarie locali) alle Asl (aziende sanitarie locali), abbiamo trasformato il servizio sanitario in aziende che hanno assunto la logica delle aziende private. Quindi noi abbiamo il privato che non ha nessun interesse nella prevenzione e non ha interesse in alcuni settori, quali il pronto soccorso e le emergenze, perché sono settori che hanno un basso margine di guadagno, mentre il privato ha interesse nella chirurgia, nella cura delle patologie croniche, tutti ambiti dove si possono realizzare guadagni enormi. I dati sono vecchi, perché sono riferiti al 2006/2007 ma non credo che siano cambiati molto: circa il 60-70% delle strutture pubbliche ha i pronto soccorso e il dipartimento di emergenza; nel privato questa percentuale non arrivava al 30%.
Come l’integrazione pubblico/privato e la riforma del sistema dei rimborsi ha impattato sull’organizzazione del lavoro nella sanità in Lombardia?
Agnoletto: Il pubblico da parte sua cosa ha fatto in questi anni? Ha praticamente distrutto quelli che in Lombardia erano i servizi numero uno: i servizi addetti alla prevenzione verso la popolazione, la prevenzione nei luoghi di lavoro, le vaccinazioni, le campagne di informazione ecc. Non solo sono stati ridotti in termini di numero, ma è sempre più ridotta l’attività ed è ridotta ai minimi termini tutta l’attività di vigilanza e di controllo. Quindi noi abbiamo una medicina che è privatizzata in gran parte e, secondo, abbiamo una medicina dove il settore privato comanda sul pubblico in termini di ideologia, quindi di comportamenti e di indicatori di valutazione – per esempio per confermare o meno un direttore generale nel pubblico, che è una nomina politica, le Regioni, salvo rare eccezioni, usano gli indicatori propri delle aziende private: i profitti realizzati, e non per esempio la soddisfazione dell’utenza, la capacità di fornire servizi e via dicendo.
Infine si è aggiunto un altro elemento: le politiche degli ultimi trent’anni hanno sempre più tagliato il settore sanitario e il welfare. Prendiamo un dato solo come riferimento: nel 1981 avevamo in Italia 530.000 posti letto, nel 2017 ne abbiamo meno della metà. Quindi questo ci dà immediatamente la misura. Nel 2016 avevamo 3,2 posti letto per 1.000 abitanti in confronto a una media dei paesi Ocse che arrivava a 4,7.
Quindi il virus è arrivato quando il Servizio Sanitario Nazionale era già sotto un fortissimo attacco da parte delle scelte di tutti gli ultimi governi. Poi, senza dilungarci troppo, possiamo tranquillamente dire che in Regione Lombardia siamo andati anche oltre: il tentativo di fare la riforma sui malati cronici che affidava le patologie croniche a gestori per la maggior parte privati era proprio il timbro che l’ente pubblico rinunciava ad assumersi la responsabilità della cura dei cittadini e la delegava ad aziende private, che su quello avrebbero creato il business. Questo avviene al di fuori di qualunque visione clinica, medica, perché si chiede a una persona di affidare la cura delle patologie croniche a un gestore e di rimanere per le patologie acute con il proprio medico di base, medico di famiglia. Un’assurdità, perché noi siamo una persona sola, è necessaria una visione olistica: se si affida il diabete al gestore perché è una patologia cronica e una insufficienza renale acuta al medico di base, cosa succede se uno non ha i dati raccolti dall’altro? Una follia. Ma dentro queste delibere regionali c’era la logica della privatizzazione dei malati cronici, che costituiscono il 70% della spesa sanitaria corrente della Regione Lombardia, quindi una scelta molto precisa. Una scelta che s’è dimostrata anche attraverso la chiusura di molti ospedali e di molti reparti nel pubblico, e poi lì vicino apriva una clinica privata che lavorava sugli stessi settori dove chiudeva l’ospedale pubblico. La Lombardia è disseminata di situazioni di questo tipo. Per questo abbiamo lanciato una campagna dicendo che prima di andare a costruire nuovi ospedali occorre riaprire gli ospedali pubblici che la Regione aveva appena chiuso, adesso ovviamente è necessario vedere in che condizioni li hanno conservati.
Si sta parlando di incremento di posti letto nel privato convenzionato e di accelerazione del sistema di accreditamento: cosa sta succedendo? Quali differenze ci sono tra aprire nuovi accreditamenti nel privato, allestire un ospedale di emergenza al Portello affidandolo a Bertolaso o recuperare reparti e spazi anche dentro ospedali pubblici? Qui mi sembra di vedere che si contrappone questa logica, che hai descritto molto chiaramente, di privatizzazione del pubblico e di interiorizzazione di questo modello: ce lo stiamo ritrovando identico in questo momento di emergenza, mi sembra di capire…
È assolutamente così. Poi, se vogliamo, possiamo vedere come è avvenuto tutto questo.
Perfetto. Possiamo provare a fare una breve storia, dalla nascita del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978 alle riforme degli anni Novanta, fino a oggi, anche solo per pietre miliari, però rileggibili in prospettiva storica.
Tutto parte con la legge 833 del dicembre 1978, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) e che sostituisce le mutue precedentemente esistenti. Questa riforma ha come fondamento il diritto universale alla salute. È una riforma che si richiama all’articolo 32 della Costituzione sul diritto alla salute e in particolare – come pochi sanno – alla seconda parte dell’articolo 3 della Costituzione. Tutti ne conoscono la prima parte, “non è ammessa nessuna discriminazione…” ecc., ma pochi sanno che la seconda parte dice che è responsabilità della Repubblica rimuovere quegli ostacoli che impediscono di usufruire dei diritti sanciti dalla Costituzione. Questo è l’articolo che attraverso la nostra Costituzione affida alla Repubblica un ruolo attivo, e non di puro arbitro della dinamica sociale: la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono ai cittadini di beneficiare dei loro diritti, tra questi c’è il diritto alla salute. La legge del 1978 istituisce questo sistema universale, che è quel che poi ci è stato invidiato da tutto il mondo. Veniva istituito un Piano sanitario nazionale (Psn) che stabiliva obiettivi, durata, importo del fondo sanitario nazionale e che quindi prevedeva una capacità amministrativa nazionale che permetteva di individuare degli obiettivi: non si va più solo a gestire l’esistente ma si stabiliscono degli obiettivi, e questo è importante. Non solo, veniva affidato il ruolo ai Comuni e ai sindaci di svolgere il controllo sull’operato delle Ussl, le unità socio-sanitarie locali: attraverso i Comuni si dà un ruolo attivo alla cittadinanza. Di fronte a questa riforma scattarono da parte del settore privato attacchi pesanti, perché la sanità rappresentava già allora un forte business: nel 1978 abbiamo in Italia l’apice delle riforme in difesa della sanità pubblica, poi da lì la storia comincia a girare nel senso opposto. L’altro elemento arrivò nel 1992 con la legge 502, che inserì dentro la riforma del 1978 elementi tipici del settore privato, quali l’aziendalizzazione e l’orientamento al mercato. Poi aumentarono le competenze e la responsabilità delle Regioni, quindi si lasciò alle Regioni per esempio la determinazione dei principi sull’organizzazione dei servizi e sull’attività destinata alla tutela della salute e sui criteri di finanziamento delle unità socio-sanitarie locali e delle aziende ospedaliere (Ao), e quindi cominciò a entrare dentro al Ssn anche la logica dell’azienda. Le Ussl vennero trasformate in Asl (aziende sanitarie locali) e in Ao (aziende ospedaliere), separando l’attività territoriale da quella ospedaliera. Questo è un altro passaggio, una medicina orientata al business punta solo unicamente sulla cura, come abbiamo visto, e trasforma l’ospedale nel centro di tutto, prosciugando il territorio. La 502 cominciò a separare, da quel momento si ebbero le Asl, strutture più povere, e le Ao che invece drenavano la maggior parte delle risorse. Tra l’altro, da quel momento il direttore generale cominciò ad avere un contratto di diritto privato con una durata dai tre ai cinque anni: questo accadde nella seconda fase.
Arriviamo a un altro passaggio: il “decreto Bindi”, D.L. 229 del 1999, che introdusse il concetto di accreditamento. Venne data alle strutture private la possibilità di competere ufficialmente con quelle pubbliche, entrambe però devono essere accreditate in modo da essere riconosciute regionalmente. Qui cominciò la competizione – in realtà una competizione truccata – tra il pubblico e il privato, che trasformerà lentamente il pubblico in una struttura che supporta il privato e lavora per il privato. Con la riforma Bindi i medici, che erano dipendenti pubblici, poterono scegliere tra rapporto di lavoro esclusivo a tempo pieno e il rapporto non esclusivo. I medici che scelsero di lavorare solo per il pubblico – scegliendo cioè il rapporto esclusivo – ebbero però l’autorizzazione a esercitare la cosiddetta intra moenia, cioè la libera professione all’interno dell’ospedale: prestazioni di un medico dipendente dell’ospedale che visita a pagamento un cittadino in un ambulatorio interno dell’ospedale, o talvolta anche esterno ma concordato con la direzione ospedaliera. Invece il rapporto non esclusivo con il Servizio Sanitario Nazionale consentì al medico di svolgere attività di libera professione indipendentemente dall’ospedale, quindi fuori della stessa struttura ospedaliera, nei propri studi privati, case di cura private, nei vari centri privati… Poi arrivò un contratto collettivo nazionale di lavoro successivo, che stabilì che i primari non avevano l’obbligo di orario bensì quello di perseguire gli obiettivi che gli venivano assegnati: questo nei fatti fece sì che qualche primario rimase in corsia per questione di coscienza, mentre qualche altro cominciò a farsi vedere meno delegando ad altri la gestione del reparto, garantendo però che venissero raggiunti gli obiettivi.
Col Piano sanitario nazionale che negli ultimi anni ha istituito i Livelli essenziali di assistenza (Lea) è stata introdotta la partecipazione alla spesa sanitaria, cioè i ticket. I ticket sono stati motivati dall’intento di disincentivare una richiesta di esami che finiva fuori controllo: come dire, lo stato già ti cura gratuitamente, tu però devi contribuire alla spesa. Questo obiettivo non è stato raggiunto, il ticket è un controsenso. Se diciamo che la fiscalità generale è quella che supporta il Servizio Sanitario Nazionale, semmai bisogna fare l’opposto di quello che hanno fatto i governi, cioè intervenire sulla fiscalità generale aumentando le aliquote. Nel dopoguerra c’erano dieci aliquote, adesso stiamo andando verso l’appiattimento. Tra l’altro il ticket è un’arma a doppio taglio. Se si introducono ticket uguali per tutti, è evidentemente un’ingiustizia sociale. Se invece vengono stabiliti ticket differenti in relazione al reddito, imponendo ticket troppo alti alle classi più agiate, queste si rivolgeranno direttamente al privato uscendo dal Servizio Sanitario Nazionale.
Questa è anche la questione contro la quale è andato a sbattere il ministro Speranza: non si agisce da sinistra se si aumenta il ticket, perché tutti i dati dimostrano che la classe sociale media viene spinta a rivolgersi al privato. Anche i ticket hanno contribuito a distruggere il Servizio Sanitario Nazionale. L’accesso ai servizi sanitari dovrebbe essere gratuito, il finanziamento dovrebbe arrivare da una fiscalità generale rimodulata; e, se si ritiene, quando vi sia un eccesso di prescrizioni inutili – seriamente documentato – si dovrebbero avviare percorsi di informazione e linee guida rivolte ai medici.
Faccio due ultimi accenni, in questo quadro nazionale, alla Lombardia, che ha amplificato tutta la questione della privatizzazione: la riforma Formigoni con la legge 31 dell’11 luglio del 1997 ha inserito il principio di sussidiarietà solidale. La sussidiarietà non è stata prevista solo tra le persone e le famiglie, ma anche tra servizi pubblici e servizi privati accreditati, e questo meccanismo è quello che ha favorito ancora di più la privatizzazione. A questo poi sono seguiti vari aggiustamenti, le varie leggi regionali approvate successivamente che seguono questa indicazione, fino ad arrivare alla riforma sanitaria di Maroni del 5 agosto del 2015, che determina le Asst (Aziende socio-sanitarie territoriali), rimarcando ancora una volta la divisione tra ospedale e territorio. Poi recentemente hanno istituito la divisione tra Asst (Azienda socio-sanitarie territoriale) e Ats (Azienda di tutela della salute), creando un’altra serie di complicazioni nella programmazione e arrivando poi alle famose delibere – neanche sono legge, sono delibere – sui malati cronici. Questo è il quadro caratteristico della Lombardia, che parte con la riforma Formigoni e la logica della sussidiarietà, che poi vuol dire che il privato sta sulle spalle del pubblico.
Hai fatto una sintesi chiarissima, efficacissima, che ci fa capire meglio come funziona il sistema. Con questo ultimo aspetto degli accreditamenti vorrei ritornare alla questione emergenza. Abbiamo visto in queste settimane come siano stati accelerati alcuni nuovi posti letto accreditati presso strutture private. Di questo, cosa è stato, come ha funzionato, cosa resterà dopo l’emergenza Covid-19?
Quello che sta succedendo adesso è che inizialmente è stato coinvolto solamente il pubblico, poi c’è stata una grande forma di pressione – anche con la trasmissione “37 e 2” di Radio Popolare, dalla radio riusciamo effettivamente a esercitare una forma di pressione sulla Regione – e hanno cominciato a coinvolgere il privato accreditato. Cosa significa? Significa che la Regione in un pomeriggio fa quello che normalmente fa in sei mesi, cioè accredita nuovi letti, nuovi reparti, nuove strutture al privato: se c’è un ospedale, senza far nomi, che ha trenta letti di malattia infettiva accreditati col pubblico, di colpo ne accreditano altri quattordici e quindi lavoreranno accreditati col pubblico, e su questi letti il pubblico farà i rimborsi che ovviamente sono fonte di guadagno per il privato. Arriveremo alla fine della vicenda Coronavirus con un privato paradossalmente ancora più potente, perché avrà avuto gli accreditamenti a tempo di record. Si sta spostando ulteriormente l’asse verso le strutture private.
Secondo aspetto: con la delibera regionale n. 2906 dell’8 marzo 2020 la Regione Lombardia ha autorizzato le strutture pubbliche e le strutture private convenzionate, tranne quelle che lavorano solo come ambulatori distaccati dagli ospedali, a cancellare tutte le visite e gli esami che non rientrano nelle due categorie con codice “U” o “B”, cioè le urgenze entro tre giorni o quelle con attesa “breve” da eseguire entro dieci giorni. Le centinaia di migliaia di persone che si sono viste cancellare queste visite si sono rivolte al privato, chi aveva i soldi, perché sanno che altrimenti dovranno aspettare mesi per ri-prenotare. In un dibattito televisivo abbiamo chiesto direttamente all’assessore di far sì che il privato-privato (non convenzionato) che ha ereditato queste visite, le svolga facendo pagare al cittadino solo il ticket – o nulla, se esente; e che in seguito la Regione rimborsi le visite effettuate al medesimo costo che sarebbe stato sopportato dal servizio pubblico. Ma ovviamente nulla di tutto questo è stato fatto, quindi oggi abbiamo migliaia di cittadini lombardi che vanno a fare le visite nelle strutture private pagando cifre molto alte. Quindi alla fine della vicenda Coronavirus avremo un ulteriore spostamento di spesa sanitaria pubblica verso il privato, sia attraverso l’accreditamento, sia per un aumento della spesa out-of-pocket – cioè della spesa dei cittadini e delle famiglie – verso il privato, visto che il pubblico è stato bloccato in questa situazione e che il pubblico non ha ritenuto di dover intervenire con le modalità da noi proposte sulle strutture private.
Rimarremo anche noi attenti alle evoluzioni future. L’intenzione è quella di proseguire, con altre interviste e altri articoli, e rivedere a distanza di tempo cosa è successo, cosa è rimasto, cosa è cambiato. Grazie tantissimo.
[1] Si veda: Radio Popolare “37 e 2” ; Blog su Il fatto quotidiano; Sito e pagina Facebook di Vittorio Agnoletto.
* intervista apparsa sul sito della rivista Officina primo maggio www.officinaprimomaggio.eu