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Incredibile, ma vero. Questa è la prima grande crisi del capitalismo esplosa sul terreno della riproduzione della vita sociale, un’attività nella quale sono impegnate in prima fila le donne, sia fuori che dentro le case. Eppure manca finora una seria riflessione sulle dure conseguenze che la gestione capitalistica della crisi sta avendo sulla vita delle lavoratrici e della massa delle donne senza privilegi. Qui un piccolo contributo ad aprire il discorso. E a preparare una risposta di lotta.

La crisi che stiamo attraversando ha un impatto particolarmente pesante sulla vita delle donne. Questa questione dovrebbe essere presente ai movimenti di lotta e a tutti coloro che si rifiutano di pagare il prezzo di questa crisi, come una questione non settoriale, che non riguarda un gruppo o una categoria, ma attraversa tutti i settori del proletariato.

1) Questa crisi, come tutte le precedenti, è generata da cima a fondo dal sistema capitalistico, dalla devastazione della natura, dall’ipersfruttamento delle risorse animali, dalla smisurata concentrazione delle persone nelle aree urbane, dalla inarrestabile sete di profitti, che è l’anima del sistema sociale in cui viviamo.

Essa, però, a differenza di tutte le grandi crisi precedenti, è esplosa, in prima battuta, con il collasso del sistema sanitario, sul terreno del sistema della riproduzione sociale, ovvero su quella parte di esso che non è delegata, come avviene in ogni parte del pianeta, al lavoro individuale e non riconosciuto delle donne, ma è gestito dagli stati e dalle organizzazioni internazionali a ciò preposte.

2) L’esplosione di questa crisi della riproduzione sociale ha trascinato con sé, con effetto immediato, tutti i settori della produzione e della vita economica dei paesi coinvolti. Ha sconvolto la vita sociale degli individui e dei lavoratori. Ha avuto il merito, se così si può dire, di confermare la posizione centrale che la riproduzione della vita ha nel funzionamento del sistema capitalistico. L’economia si ferma, i profitti crollano se la riproduzione degli esseri umani non avviene incessantemente secondo le necessità del capitale.

3) L’incapacità di fronteggiare la crisi della sanità e delle strutture preposte alla cura della parte non produttiva della popolazione: i bambini, gli anziani, i disabili, per i quali lo stato ha dato forfeit, rimandandoli a casa senza troppe storie, è frutto di una politica mondiale di riduzione sistematica delle spese statali in questi settori. Nonostante le perdite pesantissime di vite umane (per lo più giudicate inutili al fine del profitto) e lo sconvolgimento sociale in atto, questa crisi non avrà come esito il rovesciamento delle politiche socio-sanitarie mettendo al primo posto la prevenzione delle malattie, dove reperire il denaro necessario a farlo e su come attrezzarsi di fronte all’inevitabile ripetersi di simili circostanze. “Nulla sarà come prima” significherà, c’è da scommetterci, che tutto sarà peggio di prima, perchè la reazione che dobbiamo aspettarci dai poteri costituiti è la ripresa, ancora più affannosa, della corsa al recupero dei profitti perduti. Il governo Conte, i governi degli altri paesi, stanno già dimostrando di avere tutte le intenzioni di finanziare fin dove possibile le imprese, indebitandoci fino al collo a questo scopo. Il governo degli Stati Uniti, non pago delle note scandalose carenze del sistema sanitario ultraclassista, ha pensato bene, in piena emergenza sanitaria, di licenziare oltre 40.000 lavoratori della sanità e chiudere non pochi ospedali.

Più che mai il sistema capitalistico sarà riluttante a farsi carico dei costi della riproduzione sociale e del sostegno ai lavoratori e alle lavoratrici che vi operano. Tanto per fare un esempio: al di là delle lodi sperticate quotidianamente ripetute sui media, le infermiere e gli infermieri angeli ed eroi del nostro tempo si sono visti recapitare in busta paga poche decine di euro… una beffa, per dei lavoratori che hanno rischiato quotidianamente la pelle per l’incapacità di azione e di previsione degli stati.

4) In ogni settore che riguarda la cura delle persone anziane, malate, disabili, con sofferenza psichica, l’istruzione e l’educazione dei bambini e dei giovani, le donne sono la maggioranza della forza lavoro e si sono trovate in prima linea in questi mesi cruciali. Sono loro che svolgono i lavori essenziali sopportando carichi di lavoro disumani, che si sono assommati alle carenze spaventose sul piano della sicurezza e della tutela della loro stessa salute. Su di loro si sono scaricati i costi umani e lavorativi dell’emergenza. La riorganizzazione della sanità va fatta a partire dai bisogni che esse esprimono, rispetto alle loro condizioni di lavoro e alla salvaguardia della loro salute e a quella delle persone che curano, da cui non possono e non vogliono estraniarsi. Questa riorganizzazione non avverrà spontaneamente né ora né con la fase due, tre o quattro. Anzi, il clima ricattatorio e repressivo che già è realtà in tanti luoghi di lavoro, e la restrizione delle libertà sindacali saranno estesi anche a loro, nel clima imperante dell’unità nazionale che si tenta di fomentare giorno per giorno. Non si intravvede alcuna intenzione di migliorare le condizioni di lavoro di tutti questi comparti, questi sì, veramente essenziali: lo dovranno fare le lavoratrici e i lavoratori stessi, con le loro lotte per gli obiettivi che possono emergere a partire dai bisogni e dalle esperienze dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici della sanità, che hanno una visione della cura integrata dal lavoro di cura che svolgono tra le mura domestiche!

La salute va garantita con la prevenzione e con la lotta contro un sistema sociale malato che ci avvelena l’esistenza quotidiana!

5) Restate a casa! E’ qui che quello che dovrebbe essere definito distanziamento fisico, è diventato veramente distanziamento sociale. Mentre per buona parte della forza lavoro nelle fabbriche e nei magazzini l’imperativo è stato “tornate a lavorare” a vostro rischio e pericolo, per le donne questo assillante appello ha voluto dire: tornate a casa, e restateci, fin quando il valore della vostra forza lavoro sarà ridotto al minimo storico. Già si sentono le strombazzature ideologiche su come è bello stare a casa, dove la donna è regina, dove c’è sempre qualcosa da fare, ecc. Per dare più forza a questo “invito”, si rispolvereranno le idee sulla famiglia “naturale” care alle destre, e non solo, ci sarà un revival sulla naturale propensione delle donne al ruolo materno e di cura accompagnato alla stigmatizzazione delle persone che non condividono tale progetto di vita. Dietro questo pressante invito a stare a casa, come forma di prevenzione, da seguire, non sia mai, finché il distanziamento sarà veramente necessario, si affaccia il ritorno indietro non solo dalle lotte di liberazione, ma anche da quel tanto di emancipazione che le donne con le loro lotte si sono nei decenni conquistate. Le attività produttive e commerciali che hanno subito forti perdite a causa della chiusura forzata lasceranno a casa parte dei propri dipendenti. Alcune non riapriranno proprio. Nella previsione di un aumento della disoccupazione mai visto, e di un taglio drastico nei servizi, è facile prevedere, in famiglia, chi dei due resterà definitivamente a casa: chi guadagna(va) di meno, e cioè, statistiche alla mano, la donna. Molte donne hanno già perso il lavoro, che è spesso marginale, intermittente, precario. Inoltre la chiusura delle scuole e l’orribile spettacolo dei centri per anziani ha avuto come effetto immediato (e forse non solo immediato) di moltiplicare il lavoro femminile all’interno delle mura domestiche. Ciò che era in qualche modo delegato allo stato è caduto pesantemente sulle loro spalle, poiché in questa fase nessuna delle componenti del lavoro domestico e di cura può essere appaltata ad altri.

6) Prendiamo ad esempio ciò che è successo nella scuola. Tanto per cominciare, dove sono finiti gli asili nido per tutti promessi dal governo? Si è pensato a qualcosa rispetto alla riorganizzazione di quelli esistenti? Gli asili nido sono il presupposto essenziale per consentire alle donne di cercare un lavoro. Essi devono essere generalizzati e gratuiti. Quanto alle scuole primarie, l’insegnamento a distanza ha mostrato chiari connotati discriminatori nei confronti di chi non può permettersi né la tecnologia né gli spazi adatti a seguirlo. Tutto è stato lasciato alla buona volontà delle maestre e degli insegnanti (per lo più donne), gettate allo sbaraglio in questa nuova e mai sperimentata forma di didattica. Il carattere di classe della scuola ha fatto un salto di qualità. Si vocifera che questa modalità di insegnamento sarà riproposta anche per il prossimo anno scolastico, magari nella demenziale forma dei giorni o settimane alterni. Opporci ad esso deve essere un obiettivo primario, non solo perché porrebbe problemi insolubili alle donne che lavorano, costringendole a lasciare il lavoro o, se disoccupate, a non cercarlo, ma perché accentuerebbe le diseguaglianze tra bambini e ragazzi che, in classe, almeno formalmente, sono tutti uguali. La scuola “pubblica” si è dimostrata essere di classe quanto lo è l’assistenza “privata” agli anziani, tagliando fuori il 30% dei bambini che ne hanno diritto, per primi i figli degli immigrati. Un’organizzazione diversa degli spazi scolastici che garantisca la sicurezza di bambini ed insegnanti è possibile (gli studenti diminuiscono da decenni, per il calo demografico, dunque gli spazi ci sono), e vanno assunti decine di migliaia di insegnanti, il che non è certo un problema dal momento che ce n’è una quantità disoccupati. E a partire da questo, cominciamo ad interrogarci collettivamente sui valori che nelle scuole vengono trasmessi.

La parola d’ordine, quindi, non può essere solo quella di investire nel pubblico, ma di prendere posizione su come, in base a quali criteri, vengono gestiti questi servizi “essenziali”. E questo deve essere esteso alla produzione di tutti i beni di cui le donne, nel loro lavoro di riproduzione della vita e degli esseri umani, hanno diretta conoscenza perché lo esercitano quotidianamente.

7) Restare a casa, per molte donne, significa perdere il lavoro e la possibilità di trovarne, chi sa per quanto tempo, un altro. Perdere quindi quel barlume di indipendenza conquistata a prezzo di lavori subordinati e dequalificati, ben al di sotto del proprio livello di istruzione e delle proprie legittime aspirazioni e necessità. Questo è ancora più vero per le donne immigrate addette al lavoro di cura, che molto spesso non hanno casa e non hanno un lavoro regolare, e non possono neanche rientrare nel loro paese. Per loro, e per le migliaia di donne immigrate che lavorano nelle serre, come per tutti gli immigrati che cinicamente si vorrebbe continuare a far lavorare in condizioni schiavistiche, la situazione è drammatica. Chiediamo la regolarizzazione immediata e incondizionata e condizioni dignitose e sicure di vita per tutte e per tutti, contro i ricatti e le violenze che i lavoratori immigrati, e le donne in particolare, subiscono quotidianamente!

8) Dato che sarà inevitabile, nella carenza di servizi e nella disoccupazione che dilagherà, che a “restare a casa” siano, nella coppia, le donne, per non poche di esse la prospettiva sarà quella di passare dalla sussistenza alla povertà – già ora, in Italia, la maggioranza delle famiglie che vivono sotto il livello di povertà sono quelle formate da madri sole con figli. La condizione di povertà esce dal terreno della marginalità e minaccia di estendersi a macchia d’olio, mettendo in luce che i “marginali” non sono una categoria a parte ma sono persone che ad un certo momento della vita hanno perso qualcosa: il lavoro, la casa, il sostegno degli affetti e delle strutture familiari.

Noi rifiutiamo di essere sospinte verso la marginalità, non siamo povere da assistere, dipendenti dal sussidio statale, siamo disoccupate, cassintegrate, precarie che devono tornare a lavorare, e se non ce l’hanno, pretendere un lavoro con tutti i diritti, che saranno conquistati o riconquistati con la lotta! Dobbiamo fare quadrato attorno ad ogni singolo posto di lavoro delle donne, e lottare per un lavoro garantito, contro i lavoretti, i part time, i lavori da casa, e se chiediamo il salario garantito, non è per istituzionalizzare l’elemosina, ma per sopravvivere in attesa di inserirci nel tessuto sociale di tutta la classe lavoratrice!

Molte lavoratrici hanno sperimentato a sufficienza, in questo periodo, l’uso del cosiddetto smart working, che è sembrato la chiave di volta risolutrice del problema. A parte la necessità contingente di realizzare il famoso distanziamento sociale, è emerso con abbastanza evidenza come questa forma di lavoro possa essere l’eccezione e non la regola. Qualche manager, calcolatrice in mano, ha già sicuramente calcolato l’indubbio beneficio di non dover gestire, assieme al lavoro, anche i lavoratori che lavorano “in presenza”. I nostri calcoli, però, sono diversi.

Rifiutiamo ogni tentativo di istituzionalizzare il lavoro a domicilio, perché vogliamo tenere distinto il tempo di lavoro dal tempo di vita, non vogliamo sconfinamenti che si tradurrebbero in una disponibilità illimitata, vogliamo tenere distinti gli spazi e non essere recluse in casa h24! Vogliamo un luogo di lavoro che ci consenta la socialità con gli altri lavoratori e la possibilità concreta di lottare assieme per i nostri diritti, per la nostra completa emancipazione, per la nostra liberazione!

9) L’aumento della violenza domestica è già stato denunciato in questi mesi. I centri anti-violenza registrano un aumento del 75% delle richieste di aiuto, e questo in un contesto in cui molte donne sono nell’impossibilità di telefonare perché sotto il continuo controllo del partner. L’aumento della violenza è inevitabile e deriva dalle convivenze forzate, in cui l’incertezza e le fosche prospettive per il futuro si mescolano alle contraddizioni di coppia e familiari non risolte. Le donne sono il terminale di queste contraddizioni e pagano di persona questa situazione. Dobbiamo denunciare con forza la crescente impossibilità di intervento e di azione dei centri anti-violenza legati al movimento delle donne, il taglio dei fondi che li mette nell’impossibilità di agire e la loro istituzionalizzazione che non favorisce l’autonomia delle donne e il loro percorso di recupero. Dobbiamo imporre la riorganizzazione e il potenziamento dei consultori, come presidio della salute riproduttiva delle donne e del loro diritto all’autodeterminazione.

Per approfondire:

  1. Le solite ignote. Le donne nella crisi, di Sibilla, 21 Aprile 2020.
  2. Contro il congresso delle famiglie (Verona 30 marzo), 28 Marzo 2019.
  3. La spina nel fianco. Generi e capitalismo: una contraddizione non risolvibile (dal capitale), 9 Luglio 2018.

articolo apparso sul sito https://pungolorosso.wordpress.com/ il 12 maggio 2020