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Quando nel 2013, al XVIII Congresso del P.C.C., Xi Jinping assurse alla carica di leader incontrastato della Cina postdenghista apparve subito chiaro che i precedenti schemi di sviluppo non potevano più essere ribaditi, anche se quegli schemi – basati sull’importazione di capitali, sull’uso di una manodopera sterminata a basso costo e sull’esportazione di manufatti a prezzi estremamente competitivi sui mercati internazionali – avevano sinora garantito uno sviluppo senza precedenti. A questo punto la crisi del 2008 aveva spazzato via una volta per tutte queste procedure che, almeno nelle grandi linee, erano in vigore sin dal momento dell’ascesa al potere di Deng Xiaoping nel 1978. Né si poteva continuare a fare impunemente ricorso agli arrangiamenti empirici proposti dalla direzione precedentemente in carica, se è vero che Hu Jintao e i suoi avevano ritenuto di poter fronteggiare le difficoltà economiche determinate dalla crisi del 2008 e il conseguente tendenziale “declino” con procedure basate sugli “stimoli”.  Cioè, in pratica, ricorrendo al generosissimo foraggiamento delle autorità finanziarie statali – ammontante complessivamente a un valore pari a circa 680 miliardi di dollari – per impiantare nel territorio nazionale infrastrutture di dubbia utilità che, se avevano mantenuto lo sviluppo su livelli relativamente sostenuti, avevano al tempo stesso contribuito ad alimentare uno spaventoso incremento del debito pubblico, passato in men che non si dica dal 140 al 260% del P.I.L.. Per Xi Jinping era chiaro che bisognava cambiare rotta; certo per un breve periodo gli “stimoli” vennero proseguiti, ma la determinazione a cambiare indirizzo si fece rapidamente strada, anche se fu subito chiaro che il supposto cambiamento di strategia economica doveva comunque dare luogo ad una crescita abbastanza sostenuta, non fosse altro per garantire la continuazione di quel “patto non scritto” tra società civile ed establishment – di cui ha parlato più di un osservatore occidentale -, in virtù del quale la prima avrebbe continuato ad accettare di essere privata dell’esercizio dei propri diritti politici, sempre che il secondo fosse stato in grado di garantire un costante miglioramento delle condizioni di vita. In pratica a Xi e ai suoi appariva evidente come un eventuale “declino” avrebbe reso sempre più difficoltoso mantenere la situazione sociale sotto controllo, dando magari la stura a mutazioni e tensioni politiche dagli sbocchi imprevedibili. 

   Sulla base di queste considerazioni si è proceduto in primo luogo ad avviare una lotta abbastanza risoluta alla corruzione che, generata dagli stessi elementi costitutivi della “riforma”, aveva già da tempo investito in lungo e largo gli organi effettivi del potere costituito, organismi statali o di partito che fossero; poi si è avviata un’azione limitativa dei poteri dei responsabili periferici per recuperare funzioni e competenze degli organi centrali – in antitesi alle ampie deleghe conferite al momento de varo della “riforma” – per cercare di contenere procedure dissennate che magari sfociavano in indebitamenti disinvolti presso organismi non proprio ortodossi, come le “banche ombra”; infine si è dato luogo ad un’ampia riorganizzazione produttiva in modo da conferire ai manufatti cinesi  – previo una profonda ristrutturazione tecnologica – un coefficiente di competitività effettivo sui mercati internazionali. Tuttavia, al fianco di questi riordini operati sul fronte interno intesi a contrastare gli sprechi e a incrementare la produttività, nella riflessione di Xi e del nuovo gruppo dirigente prendeva corpo l’intenzione di cumulare al tentativo di incrementare l’afflusso dei capitali stranieri in Cina l’opportunità di una proiezione vigorosa e innovativa delle imprese cinesi – soprattutto pubbliche – sui mercati mondiali, traendo magari spunto dall’acquisizione del riconoscimento dello yuan come moneta di riserva negli scambi e nelle transazioni internazionali, dove sinora gli americani l’avevano fatta da padroni, grazie anche ad una serie di procedure di comodo che, varate a suo tempo con procedure unilaterali ed arbitrarie, imponevano a tutti il ricorso al dollaro nel commercio internazionale.

   Prendeva così corpo l’idea della “Nuova via della seta” intesa, nelle stesse formulazioni ufficiali, a migliorare i collegamenti economici con i paesi dell’Eurasia – poi estesa a paesi di altri continenti – previo lo sviluppo di veri e propri punti di connessione economica e commerciale propiziati, va da sé, dall’iniziativa finanziaria di Pechino. Peraltro all’intero progetto veniva associata la fondazione una banca – A.I.I.B. Asian Infrastructure Investment Bank – che si proponeva dichiaratamente l’obiettivo di aggregare capitali internazionali al di fuori degli abituali centri di potere finanziario – Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale rigidamente controllati dagli americani – e che si configurava oggettivamente come una sfida al consolidato egemonismo statunitense; e, ad onor del vero, in una prima fase non sono mancati riscontri largamente lusinghieri, se il progetto avviato da Xi Jinping nel 2013 è stato progressivamente controfirmato da ben 138 paesi, mentre all’originario stanziamento di 40 miliardi di dollari ha fatto seguito nel 2017 un secondo di ben 100 miliardi, coinvolgendo ben 68 paesi, cioè circa il 65% della popolazione mondiale.

   Va da sé che l’iniziativa cinese ha dato luogo a risultanze contrastanti. In alcune circostanze si sono effettivamente avviate infrastrutture scarsamente utilizzabili o, a detta di alcuni commentatori, delle vere e proprie “cattedrali nel deserto”; ma più spesso si è proceduto all’istallazione di complessi funzionali alle esigenze di sviluppo dei singoli paesi dove si poneva in essere questa complessa iniziativa innovativa. Ma soprattutto i cinesi puntavano, oltre alla creazione di strutture che agevolassero il commercio con le proprie aziende, a dare riscontro alla nuova fase di sviluppo interno: contrastare la tendenziale sovrapproduzione di alcuni settori di base, accedere alle materie prime per sostenere l’auspicato sviluppo tecnologico, diversificare il reperimento delle fonti energetiche come petrolio e gas. Insomma una proiezione a tutto tondo verso una posizione leaderistica globale.  

    Resta inteso che nella stessa circoscrizione asiatica non sono mancati contrasti e difficoltà di un certo rilievo. Ma la vera opposizione all’iniziativa cinese è venuta dagli Stati Uniti, che già a suo tempo avevano sperato di assimilare la Cina postmaoista all’interno dalle propria consolidata egemonia politica ed economica. Viceversa l’esperienza concreta ha avuto il modo di dimostrare come la dirigenza denghista e postdenghista si sia stata capace di dimostrare di essere in grado di mettere a punto, almeno nelle grandi linee, una strategia di sviluppo di tutto rilievo, fino a configurarsi, almeno in prospettiva, come un’alternativa credibile alla stessa tradizionale egemonia statunitense. Soprattutto con l’assunzione dello yuan come moneta di riserva nelle relazioni internazionali si è delineata la possibilità che gli scambi ruotino in maniera meno esclusiva attorno al ruolo preponderante del dollaro, configurando la prospettiva della cessazione – o quanto meno di una significativa contrazione – di quelle procedure praticamente truffaldine grazie alle quali il colossale debito pubblico americano ammontante a circa 23000 miliardi di dollari viene in buona sostanza scaricato sugli altri. In pratica per Washington fu subito chiaro come la “Nuova via della seta” si configurasse come qualcosa di più di un mero progetto infrastrutturale e commerciale, ma rientrasse in una definizione politica innovativa intesa a mutare nella sostanza gli assetti consolidatisi già tempo a livello planetario, togliendo agli Stati Uniti, almeno in prospettiva, la consolidata prevalenza economica e strategica.  E di fronte a evenienze del genere non sono mancati i segni premonitori dei circoli dirigenti statunitensi che, in vista di un ipotetico declino della loro tradizionale egemonia, hanno dichiaratamente fatto intendere di essere determinati a contrastare il passo all’eventuale ascesa cinese, non escluso il ricorso all’impiego della forza militare, dove la prevalenza americana è fuori discussione.   

    Tuttavia questo quadro di riferimento già di per sé così complesso e contraddittorio ha fatto registrare nell’ultimo periodo ulteriori elementi di variabilità per via del dilagare della pandemia del COVID_19 a livello planetario e delle conseguenti ricadute sul piano economico e politico. In pratica se molti paesi avevano accettato i “prestiti” cinesi per poi commissionare ai cinesi stessi la costruzione di quelle infrastrutture di cui ritenevano avere bisogno, oggi alcuni di questi paesi confessano candidamente di non essere in grado di onorare gli impegni presi e di non potere restituire a Pechino quanto pattuito. Anzi, secondo quanto riferito di recente  dal “Financial Times”, si rivolgono a Xi e ai suoi per chiedere la trattazione di nuovi tassi e la riduzione della somma da dover restituire. A loro volta le autorità cinesi per il momento esitano in quanto vorrebbero recuperare quanto a suo tempo anticipato, anche se non possono ignorare come di recente le banche cinesi avessero elargito prestiti estremamente consistenti a paesi come il Pakistan, la Nigeria o il Venezuela che versavano in pessime condizioni finanziarie. Insomma lo scenario si presenta sempre più complesso e la matassa, per così dire, rischia di ingarbugliarsi a vista d’occhio.

    Del resto anche tra le mura domestiche non si può dire che per Xi e i suoi i problemi e le difficoltà facciano difetto. In effetti se in una prima fase era prevalsa nei resoconti della stessa stampa di regime una valutazione riduttiva delle conseguenze della pandemia sull’andamento della economia nazionale – per cui veniva sostenuto che si sarebbero agevolmente compensate le spinte recessive con un incremento dei consumi interni –, di recente sulla stessa”Beijing Review” hanno preso corpo atteggiamenti più problematici e previsioni più realistiche. Infatti in primo luogo si riconosce che “la Cina ha registrato il suo primo declino dal 1992”; poi, senza ricorrere ad inutili giri di parole, non si fa mistero dal prendere atto che “i principali indicatori economici hanno mostrato diversi livelli di declino”. Ma è sulla “Nuova via della seta” che si registrano le considerazioni più significative perché “guardando l’impatto del COVID_19 da una prospettiva generale, la situazione dovrebbe dare luogo a motivi di preoccupazione”; e questo perché “i progetti in corso sono stati per lo più chiusi o sospesi dal momento che molti paesi hanno emesso ordini di soggiorno a causa della pandemia”; ne consegue che “la domanda globale si è ridotta”, mentre “la raccolta dei finanziamenti è divenuta difficile”. In pratica si prende realisticamente atto della situazione venutasi a determinare, dal momento che “sotto gli effetti del COVID_19  quest’anno la cooperazione Belt and Road affronterà varie sfide e il suo ritmo dovrebbe rallentare”.

   Sulla base di queste valutazioni di fondo circa l’andamento assunto dallo sviluppo degli eventi, sembra che si delinei una prospettiva riduttiva di quell’esperienza che nel 2013 era stata avviata con obiettivi ben più ambiziosi, in quanto, “pur continuando a promuovere la cooperazione su importanti progetti infrastrutturali, altri progetti Belt and Road dovrebbe essere rivolti allo sviluppo di industrie e prodotti destinati ai mercati locali”. Decisamente delle ampie prospettive che nel 2013 avevano caratterizzato il varo della “Via della seta”, quando si progettava l’avvio di gigantesche infrastrutture nei vari paesi per poi giocare un ruolo antitetico alla soffocante egemonia finanziaria ed economica degli Stati Uniti sembra che resti ben poco. 

    Del resto Xi e i suoi non possono ignorare a cuor leggero i riverberi interni delle tendenze che si delineano a livello internazionale, Non fosse altro perché, anche prima che la pandemia avviasse le spinte recessive a livello mondiale, tra le mura domestiche non erano venute a mancare prese di posizioni dubitative circa l’opportunità di impegnare tanti investimenti all’estero mentre a livello nazionale rimanevano e tuttora rimangono problemi irrisolti di tutto rilievo, come la perdurante povertà di ampie fasce sociali e la disoccupazione di settori consistenti di proletariato urbano. Nel contesto dato è probabile che in un prossimo futuro la “Nuova via della seta” riceva, per così dire, un’interpretazione riduttiva, anche se è praticamente impossibile che Xi Jinping rinunci del tutto ad un progetto che lo ha visto assoluto protagonista e propugnatore risoluto, sino a patrocinarne programmaticamente l’attuazione persino in un articolo della nuova Costituzione. In buona sostanza quel che sembra delinearsi, quanto meno nei tempi brevi, è una sorta di nuova fase dove il numero dei progetti si contrae per cedere il passo a iniziative più calibrate e strategicamente più caute, anche se la centralità di Pechino come fonte di investimenti non può, nella fase a venire, essere messa in discussione.

    In definitiva un quadro di riferimento estremamente difforme e variegato che rinvia, per forza di cose, alle eventuali ripercussioni che il tutto avrà a determinare sugli stessi assetti sociali e politici della Cina di Xi Jinping. Se infatti gli effetti devastanti del COVID_19 e la conseguente vistosa contrazione dell’esperienza della “Nuova via della seta” incideranno in negativo sulla “crescita” cinese, resterà tutto da verificare quali conseguenze andranno a prodursi nel corpo sociale al quale la direzione del P.C.C. dovrà necessariamente imporre gli abituali “sacrifici” necessari per risollevare l’economia e rilanciare lo “sviluppo”, magari tenendo in costante stato di allerta quegli apparati di polizia che di recente sono stati opportunamente rafforzati sino a giovarsi di finanziamenti praticamente pari a quelli destinati alle forze armate .

    La Cina di Xi Jinping è piena di variabili e di prospettive difficilmente pronosticabili.

 

*Aldo Bronzo è autore, tra gli altri, di Le ombre del drago. Storia critica del comunismo in Cina, dalle origini ai giorni nostri, edizioni Red Star Press, 2016