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Il conflitti sociali, piccoli e grandi essi siano, hanno sempre una loro logica, legata allo scontro capitale-lavoro, sia esso un capitale pubblico o privato. E, alla fine, tale logica si dispiega sempre e gli interessi contraddittori degli uni e degli altri (magari per tanto tempo confusi o apparentemente sovrapposti), emergono con grande chiarezza.

La vicenda dell’aeroporto di Lugano-Agno e dei destini del personale è un esempio significativo di quanto abbiamo detto qui sopra.

Per lungo tempo, una volta emersa in tutta la sua crudezza la situazione fallimentare dello scalo (situazione tale ormai da un decennio), si sono presentate due ipotesi di soluzione.

Da un lato quella di coloro che, come noi, hanno detto basta alla continuazione di questo assurdo esercizio (proponendo la dismissione dello scalo) e facendo precise proposte per il ricollocamento del personale (considerato l’aspetto fondamentale di tutta l’operazione). Questa proposta (la prima di una serie poi seguite anche a livello comunale e cantonale) data ormai di un anno fa: ci sarebbe stato tutto il tempo per avviarla seriamente e, a quest’ora, sarebbe già stata conclusa. In termini finanziari non sarebbe costata moltissimo, dato che essa puntava sul ricollocamento del personale.

Dall’altro la posizioni di chi ha difeso a spada tratta l’idea della continuazione dell’attuale esperienza dello scalo, sbattendoci in faccia il nostro disinteresse per la sorte dei lavoratori e delle lavoratrici, ergendosi a difensori dell’occupazione; i nomi li conosciamo: Borradori, Zali, Vitta, etc.; solo a nominarli qualsiasi persona di buon senso capiva subito quanto strumentale e insincera fosse quella difesa.

Purtroppo a credere a tutto questo vi erano le organizzazioni sindacali (OCST e UNIA) che, in nome della difesa dei posti di lavoro, hanno sostenuto (ahinoi quanto irresponsabilmente nei confronti dei lavoratori) l’ipotesi di rilancio di un’azienda ormai bollita.

Poi, ancora prima dello scoppia della pandemia che ha messo una pietra tombale su qualsiasi progetto di “rilancio”, gli orientamenti di Municipio e Governo cantonale si erano già del tutto modificati: la nuova ipotesi era quella di privatizzare lo scalo, affidandolo alla gestione privata. Progetto che dovrà ancora concretizzarsi (se ci riuscirà: faremo di tutto per impedirlo), ma che ha già dato i primi risultati: 50 licenziamenti e un organico ormai ridotto a 21 persone, pari a 16,9 unità a tempo pieno.

Naturalmente in tutta questa giravolta le preoccupazioni per i lavoratori e le lavoratrici, per la difesa dei posti di lavoro, etc. etc. sono andate a farsi benedire: per rispondere alla logica e alle esigenze dei privati (questa richiesta di “sgrassare” gli effettivi come precondizione per una ripresa da parte dei privati era già stata formulata quasi un anno fa in colloqui preliminari e confidenziali) Città e Cantone non guardano in facci a nessuno e l’accoppiata leghista-sindacalista Borradori-Zali ha tirato dritto.

In tutto questo ad andarci di mezzo sono stati e sono le lavoratrici e i lavoratori che si sono affidati ad una strategia sindacale assurda. Una strategia che dapprima ha stretto un’alleanza con il padronato non solo a difesa di un progetto irrealista; ma anche quando questo padronato dava segni evidenti di essere pronto a cambiare strategia (la privatizzazione con conseguente soppressione di due terzi dei posti di lavoro) non vi è stata alcuna reazione decisa da parte sindacale, nel tentativo di creare un rapporto di forza che obbligasse città e Cantone ad avviare immediatamente una politica di ricollocamento.

Tutto ciò, in questi mesi, non ha fatto altro che indebolire il fronte dei salariati; significativo, ad esempio, che non sia stato fatto nemmeno un minuto di sciopero quando, per mesi, sarebbe stato possibile farlo con l’obiettivo di una pressione pubblica; le uniche forme di “mobilitazione” (un paio di presenze poco più che simboliche) sono state a sostegno dei progetti assurdi di rilancio del padronato.

Il risultato lo vediamo oggi nella debolezza con la quale le organizzazioni sindacali sono costrette a negoziare con la Città per il cosiddetto piano sociale. Chiedono (comprensibilmente) quasi tre volte quanto la città è disposta a dare. Per il momento i negoziati sono rimandati, con la città ferma sulle sue posizioni. Cosa accadrà? È possibile che, attraverso negoziati dietro le quinte, qualcosa in più arrivi. Ma non certo per le capacità di trattiva o di mobilitazione sindacale; ma, semplicemente, perché a condurre le trattative vi sono i soliti maneggioni borghesi travestiti da sindacalisti (come è il caso dell’OCST Jelmini) che tireranno le giacchette giuste nel loro partito, concorderanno scambi su altre cose, “cucineranno” la cosa “alla pipidina”. Tutto questo, evidentemente, non scagiona Unia e il suo segretario Gargantini che non si è discostato nemmeno per un momento dalla fallimentare linea che abbiamo qui evocato.

Alla fine potranno presentare un risultato leggermente migliore che ascriveranno alla determinazione con la quale hanno trattato, nell’ambito di trattative “dure” e “difficili”. E faranno digerire tale accordo ai lavoratori e alle lavoratrici. Un accordo e una fine che testimoniano, qualora ce ne fosse ancora bisogno, della terminazione padronale (sia pur esso un padronato pubblico) e della miseria del sindacalismo di questi tempi.