1.Introduzione
Il presente contributo prende spunto dal Rapporto del Consiglio di Stato sulla mozione 6 novembre 2017 intitolata “Creare una sezione del lavoro all’interno della Magistratura e della Polizia” e dal Rapporto di maggioranza della Commissione giustizia e diritti sulla stessa mozione (mozione discussa dal Parlamento nella sua seduta del 22 giugno 2020). Il suo obiettivo, però, è quello di proporre, anche se sommariamente, un’analisi e un bilancio sulla politica generale effettivamente adottata dalle autorità politiche e giudiziarie del nostro Cantone nella lotta contro i reati penali che investono il mondo del lavoro ticinese.
Infatti, analizzando i due documenti citati, emerge chiaramente, nonostante i tentativi di alzare l’ennesima cortina fumogena, la sostanziale e generalizzata mancanza di volontà nel combattere questo genere di reati penali. Di riflesso, è evidente la volontà di garantire la sacralità delle proprietà privata e, più in particolare, l’assoluta libertà d’azione da parte delle imprese e dei loro proprietari. Libertà d’azione che, questa è la filosofia soggiacente, deve essere sempre e comunque garantita, evitando in particolare il ricorso a inchieste penali in materia di diritto del lavoro. Ne deriva, da parte del mondo politico in senso lato e dalle autorità giudiziarie che si occupano dell’applicazione del diritto penale, l’adozione di una politica “gattopardesca” dove piccoli interventi, presentati con grande enfasi mediatica, devono contribuire a mantenere invariata la situazione all’interno del mondo del lavoro ticinese, ossia garantendo il massimo tasso di sfruttamento con il minimo rischio, soprattutto di natura penale.
La prova che la situazione non sia affatto mutata, in particolare con l’elezione del nuovo Procuratore generale (PG) Andrea Pagani, traspare anche dalle reazioni di insoddisfazione che provengono dal mondo sindacale, ad oggi le strutture più informate sui processi che conducono alla configurazione di reati penali nel mondo del lavoro. La loro esperienza diretta, frutto di un contatto giornaliero con i lavoratori e le imprese, sembrerebbe cozzare profondamente con il quadro idilliaco tracciato dal Consiglio di Stato, tipico di chi non vuol vedere il degrado dei rapporti sociali di produzione in atto nel nostro Cantone, condizione fondamentale per permettere agli imprenditori di continuare indisturbati a macinare profitti.
2. L’inesistente azione del Ministero pubblico nel combattere i reati penali legati al lavoro
Contrariamente a quanto affermato nei due rapporti citati in entrata e alle varie prese di posizione mediatiche, il bilancio dell’azione del Ministero pubblico nel combattere i reati penali legati al mondo del lavoro è fallimentare. L’MPS non si è mai fatto la benché minima illusione su un’eventuale azione proattiva da parte della magistratura e delle forze di polizia nell’affrontare questi fenomeni criminali. Sperare il contrario significherebbe credere che lo Stato e i suoi apparati siano al servizio della collettività e non della classe dominante. E non ci illudevamo neppure che davanti a delle segnalazioni inoltrate dalla nostra organizzazione, dai sindacati o dai lavoratori individualmente, queste istituzioni si lanciassero in azione decisa d’inchiesta e di repressione. Ma quanto succede va ben al di là di qualsiasi pessimistica previsione: perché vengono meno addirittura quei meccanismi che dovrebbero permettere un funzionamento “decente”, anche dal punto di vista liberal-borghese, della magistratura.
È invece evidente, come detto, che tutto questo riflette la volontà politica di non intralciare la libertà d’impresa. E si tratta di un giudizio misurabile
Sembrerebbe infatti che le organizzazioni sindacali siano in attesa che la stragrande maggioranza dei casi da loro presentati alla magistratura, con dovizia di particolari e di documentazione relativa, restino ben chiusi nei cassetti di Via Pretorio. Pur essendo casi presentati da almeno due-tre anni, di essi si è praticamente persa traccia. Addirittura, siamo venuto a conoscenza di un caso relativo alla falsificazione di contratti per ottenere permessi di lavoro presentata nel lontano 2014, la quale, dopo un tentativo di non luogo a procedere sventato con un ricorso al Tribunale cantonale dei ricorsi, è stata lasciata languire fino alla decorrenza dei termini.
Nonostante tali denunce siano documentate, le stesse sono lasciate a fermentare nel grande tino del Ministero pubblico, le sollecitazioni da parte di coloro che le hanno inoltrate (singoli lavoratori, organizzazioni sindacali, etc.) restano inascoltate e il tempo passa, permettendo agli imprenditori che commettono reati penali (usura, soprattutto, ma anche reati penali legati alle assicurazioni sociali e ai fallimenti) di sparire o di far sparire prove importanti che potrebbero allargare l’inchiesta, mostrando la natura sistemica di questi processi criminosi. Addirittura si giunge, in certi casi, al paradosso rappresentato dal magistrato che desiste dal proseguire l’inchiesta o che decide di limitarla, perché ormai “è passato troppo tempo”, dimenticando che la denuncia riposa sul suo tavolo da anni… Anche quando le poche inchieste arrivano a conclusione, i tempi per arrivare al processo si dilatano in maniera inspiegabile.
Anche le denunce presentate dall’MPS sono spesso state bellamente e volontariamente dimenticate dalla Magistratura pubblica, quando non classate con il famoso “non luogo a procedere”, diventato vero e proprio marchio di fabbrica della Procura.
Quanto descritto ci porta a concludere che il Ministero Pubblico sia ormai uno strumento compiuto per disinnescare i tentativi di combattere sul fronte penale le derive di un mondo del lavoro ticinese sempre più caratterizzato da forme gravi di sfruttamento. Detto altrimenti, la magistratura considera in maniera palese i reati penali legati al lavoro come dei reati marginali, probabilmente gli ultimi a dover essere affrontati. Questa tendenza è così tangibile che persino le organizzazioni sindacali stanno considerando l’eventualità di abbandonare questo via per combattere questi crimini. E ciò perché appunto la collaborazione con il Ministero pubblico risulterebbe sempre più evanescente, improduttiva, desolante e anche controproducente, in quanto le segnalazioni al Ministero pubblico bloccano la possibilità di portare a conoscenza dell’opinione pubblica questi gravi reati e quindi di creare, tramite la denuncia, la costruzione di una percezione collettiva dei problemi che attanagliano il nostro mercato del lavoro, riducendo la possibilità sviluppare una visione critica dei processi di produzione attuali e la possibilità d’innescare delle reazioni che possano sfociare in lenti, ma concreti, cambiamenti nelle condizioni di lavoro e nei diritti delle salariate e dei salariati attivi nel nostro Cantone.
L’arrivo alla testa del Ministero pubblico, nel luglio del 2018, del procuratore generale Andrea Pagani non ha modificato di uno iota la traiettoria descritta nei precedenti paragrafi. Con la sua intronizzazione, il PG si è limitato ad indicare due procuratori pubblici quali referenti per i reati penali specifici al mondo del lavoro. Punto e a capo. Più in generale, è flagrante la mancanza di volontà della nuova direzione della Magistratura pubblica di affrontare inchieste scomode, con ramificazioni dirette o indirette nella sfera della politica e della pubblica amministrazione. L’ultimo caso registrato rinvia alla alle stragi avvenute in alcune case per anziani; a smuovere il Ministero pubblico non è bastata finora la segnalazione inoltrata dall’MPS, per altro precisa e motivata. Sono state necessarie le reazioni di parenti delle anziane vittime, gli articoli di giornale e le inchieste televisive per smuovere infine – ma non si sa con quale “determinazione” – il Ministero pubblico. Vedremo con quali risultati, nella speranza che ci sia risparmiato il classico quanto inaccettabile “non luogo a procedere”.
Rispetto a questo contesto di perfetto e totale immobilismo, ci sembrano assolutamente menzognere certe affermazioni fatte dal Consiglio di Stato nel suo rapporto, come quella secondo la quale «è quindi necessario promuovere continue sinergie e attività di coordinazione tra i diversi partner (autorità, parti sociali, sindacati, servizi cantonali e comunali, privati cittadini, ecc.) affinché si possano raccogliere e coordinare tutte le informazioni indispensabili all’apertura di procedimenti penali o amministrativi»[1]. Queste “continue sinergie e attività di coordinazione tra i diversi partner” sono puramente il frutto della fantasia manipolatrice del nostro governo cantonale, almeno per quanto concerne i sindacati e le organizzazioni politiche che si battono, fra le altre cose, contro i crimini nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori. Sfidiamo il Governo ticinese a citare non dieci casi concreti, ma uno solo che dimostri l’avvenuta sinergia per combattere questi fenomeni criminali.
Peggio ancora sono però le affermazioni del relatore del Rapporto di maggioranza, l’ex ufficiale della polizia cantonale Giorgio Galusero, le quali non sono altro che pure invenzioni. Vediamone alcune. Galusero e cofirmatari scrivono che «l’11 novembre 2019 la Commissione giustizia e diritti ha sentito il Procuratore Generale Avv. Andrea Pagani. Il titolare del Ministero Pubblico ha, da quando ha assunto la presidenza, spostato tutti i casi di usura e estorsione che toccano il mondo del lavoro (problemi in sostanza di natura salariale [sic!]), sotto la competenza della sezione finanziaria. Questa nuova impostazione si sta rivelando positiva nell’istruzione dei reati e non si riscontrano più gravi ritardi»[2]. Il deputato Galusero deve fornire dati precisi in merito alla positività di questa nuova “impostazione”: quanti reati sono stati istruiti in relazione a reati penali direttamente collegati allo sfruttamento illegale (usura in primis) della forza lavoro? Quanti processi, sempre in questo ambito, sono stati iniziati e portati a termine? Quanti datori di lavoro sono stati processati? Attendiamo chiare risposte basate su riscontri oggettivi. L’affermazione secondo la quale non si riscontrano “più gravi ritardi” è totalmente falsa, frutto di quell’atteggiamento che mira a mistificare la realtà. Orbene, chiediamo all’on. Galusero di fornirci i riscontri concreti, oggettivi di questo decadimento dei gravi ritardi… Ha parlato con i sindacati? Ha chiesto loro la lista delle denunce penali pendenti? Ha parlato con i procuratori pubblici per sapere in quanto tempo sono state condotte le inchieste, istruiti i processi?
Aspettare delle prove concrete sarà tempo perso, perché l’obiettivo di queste affermazioni è quello appunto di coprire con affermazioni roboanti la totale mancanza di volontà di perseguire realmente, in profondità e sistematicamente, i reati di natura penale che gravano il mondo del lavoro ticinese. Vendere aria fritta per nascondere l’inazione politica e giuridica. Ecco quanto offrono oggi le nostre autorità politiche e giudiziarie.
3. Un’incomprensione profonda dei processi sistemici di sfruttamento illegale della forza-lavoro. Ignoranza o scelta di comodo?
Nei documenti citati c’è un denominatore comune che rinvia all’insufficiente, e preoccupante, conoscenza reale dei meccanismi di fondo che regolano lo sfruttamento illegale della forza-lavoro nel nostro cantone. Questa ignoranza profonda è riscontrabile anche a livello della magistratura, fra la maggior parte dei procuratori pubblici.
Nei rapporti di riferimento si fa continuamente riferimento al caporalato e al lavoro in nero. Ebbene il problema del caporalato è assolutamente marginale, quasi inesistente, nelle segnalazioni effettuate al Ministero pubblico. Il primo e l’ultimo caso (segnalato all’epoca dal sindacato Unia di caporalato) rinvia al 2012, con il famoso caso del LAC a Lugano. Il termine “caporalato” è spesso utilizzato per definire qualsiasi reato penale concernente il mondo del lavoro. In realtà questa forma di sfruttamento criminoso è estremamente circostanziata e non è così diffusa sul nostro territorio. Il caporalato consiste nel reclutamento e nella gestione di forza-lavoro impiegata illegalmente (in nero, a condizioni salariali pesantemente inferiori ai minimi contrattuali, con orari di lavoro che oltrepassano il quadro legale, ecc.) da parte di intermediari che li collocano presso aziende, per periodi più o meno lunghi, prelevando dalla forza-lavoro così impiegata una parte consistente del salario pattuito tra l’intermediario, il “caporale”, e le imprese acquisitrici di questi lavoratori ultra-sfruttati (non è tema di questo documento, ma facciamo notare come la definizione che abbiamo appena dato potrebbe benissimo essere quasi del tutto utilizzata per indicare il lavoro svolto dalle agenzie di lavoro interinale).
Spesse volte, polizia e magistrati confondono con questa forma particolare di sfruttamento illegale atti criminosi come il fatto che alcuni lavoratori siano obbligati a corrispondere ai capi-squadra e a datori di lavoro una quota del proprio salario mensile. Evidentemente si tratta di azioni da perseguire con determinazione e senza sconti. Il problema risiede, però, nel fatto che gli apparati di polizia e giudiziari davanti alle denunce inoltrate focalizzino la loro azione quasi esclusivamente alla ricerca di questi fenomeni, limitando spesso il campo d’indagine a queste forme di taglieggiamento senza cogliere il fattore fondamentale: esse sono spesso una componente parziale, un anello di una catena, di un fenomeno criminoso più articolato che scatena conseguenze sociali ed economiche più gravi.
Infatti, i reati di natura penale che si stanno verificando con più regolarità sono quelli legati all’usura. Nell’ordinamento penale elvetico (art. 157 CPS), il reato d’usura colpisce «chiunque sfrutta lo stato di bisogno o di dipendenza, l’inesperienza o la carente capacità di discernimento di una persona per farle dare o promettere a sé o ad altri, come corrispettivo di una prestazione, vantaggi pecuniari che sono in manifesta sproporzione economica con la propria prestazione». L’interpretazione letterale di questo reato è un limite importante e, sfortunatamente, riscontrabile in tante, troppe, indagini condotte dal Ministero Pubblico. Lo è perché non permette di ricostruire l’intera articolazione di un fenomeno che è molto più vasto e dirompente, con molti più soggetti coinvolti di chi si rende colpevole del ricorso diretto all’usura. Detto altrimenti, perseguendo unicamente chi commette in maniera diretta il reato d’usura si limita la lotta nei confronti di un fenomeno più vasto e pericoloso, non si supera il primo gradino di una scala molto più lunga e complessa. Cerchiamo di essere più concreti.
In troppe indagini, il procuratore pubblico ha limitato la sua azione inquisitrice al proprietario della ditta edile – per prendere un esempio – che ha impiegato una quindicina di lavoratori pagando un salario dimezzato (o ancora meno) rispetto a quello previsto dai contratti collettivi di lavoro (CCL), sfruttando il fatto che questi lavoratori venivano da un lungo periodo di inattività (essendo, ad esempio, da molto tempo disoccupati in Italia). Possiamo considerare chiusa l’inchiesta, possiamo pensare che con l’incriminazione dell’impresario si sia risolto il problema? Sfortunatamente no. Se l’inchiesta si ferma a questo livello, non si è toccato neppure la metà del problema. Infatti, l’altro grande soggetto coinvolto nel reato, quello che svolge un ruolo oggettivamente determinante, rimane al riparo da qualsiasi conseguenza, pronto a rilanciare la sua azione. Facciamo riferimento al committente, privato o pubblico, piccolo o grande. Nelle derive del mercato del lavoro, con riverberi penali o meno, il ruolo dei committenti è assolutamente decisivo. Sono questi infatti che scelgono le imprese che offrono i prezzi più bassi dai quali nasce l’usura. Sono i committenti che reclutano, organizzano il sistema d’imprese attive sul cantiere che permette di offrire un prodotto finale del 30-40% inferiore al prezzo di costo. Nelle grandi opere, il committente – anche istituzionale! – riesce a schermare il suo ruolo diretto attraverso il sistema dei subappalti e dei subappalti a catena, sottraendosi da qualsia responsabilità diretta, non da quella effettiva e reale ovviamente. Il committente stabilisce o accetta il prezzo più basso presentato dall’appaltatore. Quest’ultimo si rifà subappaltando, legalmente o illegalmente, le lavorazioni a una seconda impresa, naturalmente scalando ulteriormente il prezzo del lavoro. Il subappaltatore chiamato ad agire in un regime di sottocosto oggettivo, realizza il suo margine di profitto solo ricorrendo all’usura esercitata nei confronti della forza-lavoro. Limitare le inchieste a questi soggetti, l’ultimo anello della catena, significa continuare a coprire un fenomeno più complesso, il quale alla lunga rappresenta un vero e proprio “cancro sociale ed economico”. Infatti il sistema complessivo che alimenta l’usura ha ampie ripercussioni generali. Alla lunga contribuisce a corrodere i contratti collettivi, diminuendo e distruggendo i salari e le condizioni di lavoro. Simultaneamente contribuisce ad una messa in concorrenza al ribasso fra le imprese di determinati rami, dove i soggetti che rispettano il quadro fissato dal CCL sono condannate a scomparire oppure ad adeguarsi al regime dello sfruttamento selvaggio e illegale. Questa dinamica perversa influisce progressivamente sul tessuto sociale ed economico, impoverendo il mondo del lavoro nel suo insieme.
Nessuna delle poche inchieste concluse dal Ministero pubblico ha messo in evidenza questo sistema articolato. Le inchieste si sono fermate ai piedi della scala, al primo grado. Indipendentemente dalla possibilità legale di denunciare gli “architetti” di questo sistema che alimenta l’usura, i committenti, sarebbe fondamentale che dalle inchieste emergesse almeno il ruolo oggettivo, sempre più determinante, dei committenti. Invece l’azione della magistratura si limita alla ricerca del fenomeno del “caporalato”, sotto forma anche della singola azienda che impone l’usura, vedendo solo la pianta ma non l’intricata foresta.
Ora, stabilire se ciò sia da imputare a una mancanza di conoscenza dei processi in atto nel mondo del lavoro – in particolare nell’edilizia ma non esclusivamente – oppure da una volontà di non andare a fondo dei processi per non “disturbare” la libertà d’azione delle aziende, per non mettere in evidenza un sistema economico che per realizzare profitto ha sempre più bisogno di sfociare nello sfruttamento illegale della forza-lavoro, è difficile da affermare con precisione. Sicuramente ignoranza e passività volontaria si fondono in un blocco compatto. Ciò che conta, soprattutto, è il risultato: un’azione della magistratura quasi impalpabile, incapace di arginare efficacemente queste pericolose derive.
Emerge comunque con prepotenza preoccupante la manifesta impreparazione della maggior parte dei magistrati chiamati a indagare sui reati penali in materia di diritto del lavoro. Il problema è grave e decisivo. Se il magistrato non è in grado di unire tutti i pezzi che compongono il mosaico dell’usura, il risultato finale sarà sempre parziale e sfiorerà solo la problematica di fondo. Una delle difficoltà maggiori riscontrate è legata alla dinamica subappalto/sottocosto/usura. In una particolare occasione, un magistrato è fino arrivato al punto di negare che vi sia un rapporto diretto fra i prezzi sottocosto imposti dall’appaltatore al subappaltatore, con quest’ultimo che per realizzare il proprio margine di profitto ha esercitato l’usura nei confronti della forza-lavoro impiegata. In sostanza, la riflessione adottata dal magistrato è stata quella di dire che il sottocosto non genera l’usura. Forse il magistrato in questione pensava ai super-ribassi offerti dai grandi magazzini…
Nell’edilizia, per fare un esempio concreto, non funziona così. Prendiamo il caso della posa del ferro di armatura. Il fornitore di tondino d’acciaio ha interesse a ricevere un appalto per fornire il ferro a prezzo di mercato. Gli appalti per queste lavorazioni comprendono la fornitura e la posa dell’acciaio. Il grande fornitore di acciaio per strappare l’appalto offre la posa a un prezzo oggettivamente sottocosto (dal 30 al 50% in meno), tale da non coprire i salari e gli oneri sociali previsti dal CCL, rendendo impossibile anche qualsiasi forma di guadagno. Vinto l’appalto, il fornitore di ferro parte alla ricerca di una ditta di posa. Le sole che risponderanno al suo appello sono quelle disposte a praticare prezzi assolutamente sottocosto, insostenibili per chiunque voglia rispettare le regole contrattuali e legali. La ditta di posa che assume questo subappalto sottocosto può realizzare un profitto solo ed esclusivamente sottopagando i propri lavoratori per una percentuale superiore al sottocosto accettato nel subappalto[3]. Lo può fare andando a reclutare lavoratori nella vicina Italia, magari fermi da anni e in forti difficoltà finanziarie, disposti a vendersi per un salario di 1’500-2’000 Fr. mensili invece dei 3’500-4’000 netti previsti dal CCL.
Se questa dinamica non è percepita, non è presa in considerazione, diventa impossibile ricostruire il sistema appena descritto in tutta la sua ampiezza, con le responsabilità ai vari livelli. Peggio ancora, per il magistrato i proventi finiti sul conto della ditta subappaltatrice non sarebbero il risultato derivato dall’usura ma semplicemente dal pagamento dei contratti di appalto e di subappalto, perciò considerati leciti, non provenienti da un reato! In sostanza, dunque, seguendo l’assurda valutazione del magistrato decadrebbe il reato di usura e, quindi, l’intera denuncia! Una valutazione totalmente assurda che vanifica qualsiasi tentativo di perseguire sul piano penale gli autori di crimini concernenti il diritto del lavoro. Infatti risulta inconcepibile che un magistrato non capisca che in presenza di un appalto ottenuto con un elevato sottocosto e in presenza di una forza lavoro remunerata con salari del 50/60% inferiori a quanto fissato dal CCL, i soldi ottenuti non possano essere altro che il provento diretto dell’usura e non un guadagno lecito! Se il padrone avesse pagato secondo i dettami del CCL i propri dipendenti, considerato il prezzo stracciato con il quale ha ottenuto l’appalto, non avrebbe realizzato nessun profitto. Semplice, ma la magistratura ticinese nel 2020 non vede nessun rapporto diretto fra questi elementi.
Al di là dell’evidente funzione della magistratura di difendere gli interessi di classe del padronato ticinese, funzione imposta dallo Stato borghese e interiorizzata fino fondo dai suoi servitori, quanto esposto più sopra evidenzia anche un’impressionante mancanza di conoscenza della realtà concreta all’interno della quale evolvono i rapporti sociali di produzione. La maggior parte dei magistrati e anche una parte dei poliziotti non ha nessuna idea dei meccanismi in atto, per esempio, sui cantieri dai quali prendono avvio forme illegali di sfruttamento della forza-lavoro. Non hanno gli strumenti conoscitivi per individuare le strategie attraverso le quali è attuata l’usura. Non riescono neppure a percepire l’importanza di gerarchizzare la responsabilità dei soggetti coinvolti nei processi di sfruttamento illegali della forza-lavoro. E non sembrano neppure preoccupati degli effetti a catena, economici e sociali, provocati da queste derive in crescita.
Il buon Galusero può continuare all’infinito a girare i cantieri ticinesi in compagnia dei sui ex-colleghi poliziotti convinto che il problema sia da ricercare nei lavoratori in nero, senza permesso di lavoro, i quali sono estremamente rari ma, soprattutto, costituiscono una frazione marginale della deriva del mercato ticinese del lavoro.
Più preoccupante delle passeggiate del parlamentare in pensione, sono invece le affermazione del Consiglio di Stato a firma del suo rappresentante Claudio Zali, quando scrive che «creare un’apposita area specializzata come richiesto dai mozionanti, volta a contrastare i reati nell’ambito della “mala edilizia”, con un occhio di riguardo per i reati nell’ambito del lavoro, implicherebbe una settorializzazione accresciuta dell’attività all’interno del Ministero pubblico, ciò che non è auspicato a livello organizzativo per questioni di efficienza operativa [sic!]»[4]. Asserzioni di questo genere nascondono male la mancanza di volontà politica di arginare questi gravi processi criminosi. La specializzazione in seno alla magistratura dovrebbe essere invece il punto di partenza di uno Stato che intendesse seriamente combattere questi fenomeni! È solo specializzando delle figure, magistrati e poliziotti, in un determinato campo che si possono creare le competenze fondamentali per combattere queste derive. E questo vale per qualsiasi ambito che rientri nel raggio d’azione di una magistratura. A parte la cretineria di considerare la “settorializzazione” come un problema che influirebbe sull’efficienza operativa, l’affermazione del Consiglio di Stato dimostra ampiamente come il problema principale risieda nell’assoluta mancanza di interesse politico nel combattere le attività criminose che caratterizzano la sfera del lavoro, atteggiamento manifesto anche per quanto concerne la lotta contro i fallimenti “a scopo di lucro”.
In conclusione, non si può che sostenere la mozione presentata il 6 novembre 2017. Ma la sua eventuale adozione non permetterebbe di cambiare la traiettoria di fondo. Implementata in un contesto contraddistinto dal rifiuto politico, da una passività colpevole nel reprime questi fenomeni, l’ipotetica “Sezione del lavoro all’interno della Magistratura e della Polizia” si trasformerebbe solo ed esclusivamente nell’ennesima occasione per collocare qualche raccomandato politico. In sostanza non crediamo che il problema sia a livello delle risorse disponibili ma, come troppo spesso succede in questo cantone, nella volontà di difendere sempre e comunque le imprese e i loro proprietari. Una decisa rottura con questa politica mortifera non potrà intervenire senza una pressione sociale tale da imporre dei cambiamenti importanti nei rapporti di forza che caratterizzano la nostra regione.
[1] Rapporto del Consiglio di Stato sulla mozione 6 novembre 2017 presentata da Giorgio Fonio e Lorenzo Jelmini “Creare una sezione del lavoro all’interno della Magistratura e della Polizia”, 12 settembre 2018, p. 3.
[2] Rapporto di maggioranza della Commissione giustizia e diritti sulla mozione 6 novembre 2017 presentata da Giorgio Fonio e Lorenzo Jelmini “Creare una sezione del lavoro all’interno della Magistratura e della Polizia, 8 giugno 2020, p. 2.
[3] Semplificando: se il sottocosto è del 30%, il subappaltatore per realizzare un profitto interessante deve sottopagare i propri operai di almeno il 40%…
[4] Rapporto del Consiglio di Stato sulla mozione 6 novembre 2017 presentata da Giorgio Fonio e Lorenzo Jelmini “Creare una sezione del lavoro all’interno della Magistratura e della Polizia”, 12 settembre 2018, p. 1.