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Sono passati solo pochi giorni dal 25 maggio, giorno in cui George Floyd, afroamericano di Minneapolis, è stato brutalizzato dall’agente della polizia cittadina, Derek Chauvin (nomen omen!), il quale, per ben otto minuti e quarantasei secondi gli ha tenuto premuto il ginocchio sinistro sul lato destro della gola, provocandone la morte.

Floyd era stato fermato in seguito alla presunta contraffazione di una banconota da 20 dollari in un negozio di gastronomia. Lasciando solo per un momento da parte il fatto che, in tutta evidenza, il reato di Floyd fosse decisamente insignificante (fermo restando che un trattamento simile non si può infliggere a nessuno per nessuna ragione), i quattro poliziotti accorsi sul posto avevano dichiarato che l’uomo avesse opposto resistenza, gettandosi al suolo di sua spontanea volontà per sfuggire all’ingresso nell’auto della polizia. Una versione smentita sia dalle telecamere di sicurezza installate nelle vicinanze del locale, sia da testimoni presenti sulla scena, uno dei quali ha provvidenzialmente filmato Chauvin nell’ esercizio del suo grave atto di violenza contro Floyd.

Come Eric Garner,  Trevor Martyn, Freddie Gray, Laquan McDonald, Tamir Rice, Michael Brown e tanti altri non assurti agli onori delle cronache, si tratta dell’ennesimo omicidio di un afroamericano da parte di un agente di polizia. Le statistiche ufficiali dell’apparato statale federale degli Stati Uniti lasciano fuori quasi la metà delle morti causate da agenti di polizia, mentre fonti giornalistiche indipendenti, come il Washignton Post e il Guardian, allo stesso modo di siti come Fatal Encounters (https://fatalencounters.org/), o del Sentencing Project (https://www.sentencingproject.org/) riportano statistiche più accurate – e veritiere – sia riguardo alla morte degli afroamericani e delle afroamericane sia al tasso di incarcerazione di questa parte della popolazione. Il verdetto è impietoso: nei “civilissimi” Stati Uniti, nel “faro della democrazia e della libertà”, la probabilità di essere uccisi durante un arresto rientra fra le prime sei cause di morte nel paese. All’interno di questa categoria, gli uomini e le donne afroamericani/e sono rispettivamente 2,9 e 1,4 volte più a rischio dei bianchi e delle bianche, così sono più alte le probabilità di essere uccisi per i latini e i nativi americani. I primi e le prime subiscono cinque volte di più la probabilità di subire una detenzione rispetto ai cittadini bianchi e le cittadine bianche.  Di fronte a tutto questo, il 99% degli agenti di polizia non subisce alcuna punizione…

Una scia di sangue afroamericano lunga 500 anni

Questi dati riflettono la costituzione intrinsecamente razzista degli Stati Uniti. Sin dalle origini, la tratta degli schiavi ha segnato in modo indelebile l’economia nord-americana, caratterizzandone il successivo sviluppo e modellandone le istituzioni politiche. La lotta da parte afroamericana per la liberazione dalla schiavitù prima, dall’assoggettamento economico e sociale poi, ha attraversato tutta la storia del paese. La prima rivolta registrata negli annali risale addirittura al 1663, in Virginia, essendo seguita da innumerevoli altri episodi, fino a giungere al periodo della Guerra Civile, in seguito alla quale, nel 1865, ottennero un’emancipazione solo formale. In realtà, quella che fu poi ideologizzata come guerra per l’abolizione della schiavitù, fu una lotta accanita tra diverse fazioni delle classi dominanti che avrebbe segnato in modo incancellabile la direzione politica ed economica del paese e che, per ragioni contingenti, produsse anche la legge per l’abolizione della schiavitù, Lo stesso Abraham Lincoln, inizialmente era contrario all’abolizione dell’istituto della schiavitù, cedendo poi da un lato alle pressioni degli industriali del Nord, che avrebbero avuto abbondante disponibilità di manodopera per l’attività delle loro fabbriche, dall’altro alle aspettative della popolazione afroamericana, la cui azione nella guerra civile era stata decisiva per il suo esito favorevole alla sconfitta della Confederazione degli Stati del Sud.

Tuttavia, il dispositivo legale così ottenuto, pur essendo in tutta evidenza un relativo avanzamento, non significò una reale emancipazione degli afroamericani e delle afroamericane, ma una diversa forma di assoggettamento politico e sociale, nel quadro di una persistente discriminazione culturale e ideologica, cristallizzata in istituzioni costruite su quella base.

Colpiti da una discriminazione non più legale, ma economico-sociale, dunque, la popolazione afroamericana ha dovuto costantemente lottare contro povertà, disoccupazione e sottoccupazione, e una violenza istituzionalizzata da un lato e alimentata orizzontalmente dall’altro, per mantenerla in stato di subordinazione, su cui evidentemente si regge un pilastro fondamentale dell’ordine capitalistico statunitense.

Le ragioni della rivolta

La rivolta in corso, iniziata il giorno successivo all’omicidio di Floyd, la più vasta dopo la rivolta di Los Angeles del 1992, ha avuto in primo luogo il merito di porre con forza all’attenzione del mondo il razzismo istituzionale degli Stati Uniti, evidenziando la particolare violenza strutturale dei suoi rapporti sociali, di cui gli afroamericani e le afroamericane sono tra le principali vittime. Assenza di prospettive e di futuro; una vita quotidiana fatta di stenti, povertà, disoccupazione, lavoro mal retribuito; lo squallore di ambienti urbani degradati e abbandonati a sé stessi; affitti alle stelle; impossibilità di accedere alle cure sanitarie; una sproporzione nelle morti da Covid19 tra la popolazione afroamericana, sono gli elementi che hanno fatto nuovamente esplodere la scintilla, di cui l’omicidio di Floyd ha costituito l’innesco.

Dapprima limitata alla città di Minneapolis, la rivolta si è estesa all’intero paese, coinvolgendo ad oggi venticinque città, tra cui Los Angeles, Miami, Atlanta, Chicago e Philadelphia, le cui autorità hanno dichiarato il coprifuoco, con 1500 arresti finora effettuati. Le autorità, cominciando dal presidente USA, hanno agito sull’onda dell’emergenza, manifestando dapprima un atteggiamento duro, poi conciliatorio, poi ancora duro, con un’oscillazione che dimostra la sostanziale incapacità di coordinamento e di decisione, nonché una indubbia difficoltà politica oggettiva alimentata dall’espansione della rivolta. Se da un lato, rivolte di massa come questa sono un grosso pericolo per l’establishment, dall’altro, proprio la loro estensione e il sostegno di cui cominciano a godere sono il segnale che qualcosa va concesso. A tal riguardo, va ricordato un episodio illuminante in tal senso: Il Dipartimento di Polizia di New York intendeva usare un autobus per trasportare manifestanti arrestati durante una raduno di protesta contro la morte di George Floyd al centro di trasferimento del Barclays Center, ma il conducente si è rifiutato di trasportarli, festeggiato dalla folla presente sulla scena. Il video, girato da un astante, ha subito ottenuto più di un milione di visualizzazioni, mentre J.P. Patafio, vice presidente del sindacato di lavoratori dei trasporti TWU, in rappresentanza di decine di migliaia di autisti a New York, dichiarava alla stampa che il sindacato avrebbe coperto l’azione del suo autista chiarendo che la TWU “non porta in giro sbirri” (possiamo immaginare la risposta di un dirigente della burocrazia CGIL in situazioni analoghe…).

Vi è dunque la necessità da parte delle istituzioni delle classi dominanti USA di praticare la politica del bastone e della carota, sebbene non sia ancora loro chiaro in quali proporzioni.

L’incognita Trump

A tal proposito non possiamo omettere di menzionare l’incognita Donald Trump. L’imprevedibilità del presidente statunitense è un aspetto particolarmente delicato della faccenda. Come agirà? Quali decisioni assumerà se la rivolta dovesse protrarsi? Intanto, abbiamo già alcuni elementi di giudizio, neanche a dirlo, inquietanti. Dicevamo dell’oscillazione del presidente degli Stati Uniti: rassicurazione di giustizia alla famiglia di Floyd, ma al tempo stesso dichiarazioni incendiarie contro i manifestanti. “Comprensione” delle ragioni della rivolta, ma “condanna della violenza” (non sorprendentemente, sono praticamente le stesse parole di Joe Biden, candidato Democratico in pectore alle prossime presidenziali…). Ciò che realmente preoccupa, sono però gli atti concreti e, ancor più, le parole che hanno accompagnato questi atti. Non solo il presidente ha spinto i governatori di un numero significativo di Stati a sguinzagliare la Guardia Nazionale per reprimere la rivolta, ma ha anche lodato l’operato di quest’ultima (richiamata anche a difesa della Casa Bianca, verso cui un numero consistente di manifestanti a Washington, DC, si stava dirigendo) aggiungendo che i manifestanti saranno accolti dai cani più feroci e dalle armi più terribili che abbiano mai visto” e che non permetterà ai “criminali dell’estrema sinistra, delinquenti e altri” di mettere a ferro e fuoco le nostre comunità. Ha inoltre chiesto di sciogliere l’ “organizzazione terroristica ANITFA” (organizzazione politica antifascista statunitense). In queste frasi si concentrano sia la visione del mondo che una necessità elettorale: con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali Trump ha bisogno di rassicurare la propria base elettorale, di cui parte assolutamente non trascurabile sono ultraconservatori, evangelici e suprematisti bianchi (senza dimenticare settori di piccolo commercio), di un piglio deciso e senza mezze misure contro gli odiati “radicali”, “negri”, “devastatori” e altri perturbatori dell’ordine WASP. La polarizzazione in corso esige anche che la destra, compresa quella estrema, si compatti contro il nemico comune. È dunque probabile che, dato l’esito ancora non scontato delle elezioni, Trump sia spinto a radicalizzare ulteriormente (!) la propria retorica con il rischio che le azioni seguano questa radicalizzazione. Certo, non irrilevante sarà il dibattito sia nella cerchia di consiglieri dello stesso Trump sia nel mondo delle corporations, il cui sostegno sarà aspramente conteso con il rivale Biden e che potrebbe mutare con l’evolversi degli eventi in una direzione o nell’altra.

Lo stato attuale della rivolta e il suo significato

Mentre scriviamo non è ancora ovviamente chiara l’evoluzione della situazione sul campo. Le notizie che ci arrivano dal fronte (è corretto chiamarlo così…) ci dicono di due giornalisti arrestati, e poi rilasciati, di un giovane afroamericano di 19 anni ucciso a Detroit durante una manifestazione da un colpo esploso da un SUV in corsa (estremisti di destra, magari suprematisti bianchi, o settori “deviati” della polizia?), di altri due manifestanti e di un agente ucciso negli scontri in diverse città statunitensi. Risulta agli arresti anche Chiara De Blasio, figlia del sindaco di New York Bill de Blasio, per aver partecipato ad una manifestazione a New York. Ma giungono anche notizie di grande solidarietà, che segnalano peraltro la profondità della frattura espressa ed allargata dalla rivolta: i veterani di guerra per la pace hanno fatto appello ai militari a disobbedire agli ordini e ci sono addirittura notizie di sceriffi di un paio di contee locali che si sono uniti ai manifestanti, di cui uno sicuramente confermato: lo sceriffo Christopher R. Swanson della Contea di Genesee, Michigan. Infine, è importante sottolineare la presenza di numerosi bianchi nelle manifestazioni di massa di questi giorni.

Quello che è chiaro è che la rivolta per ora non accenna a placarsi, e la rabbia continua a correre per tutto il paese. Si tratta di una rivolta spontanea e decentralizzata, senza un “quartier generale” unico, che sta allargando i suoi orizzonti dalla rivendicazione di giustizia per George Floyd e la sua famiglia (infangata ancora una volta da una risibile autopsia ufficiale che ha indicato “problemi cardiaci preesistenti” come causa della morte dell’uomo. Ci ricorda qualcosa?) a rivendicazioni di ordine più generale che riguardano la vita della popolazione afroamericana. Ma attenzione: diversamente da altre mobilitazioni di massa afroamericane del passato, la caratteristica di classe di quella attuale salta immediatamente agli occhi, forse ancor più di quella che aveva dato i natali al movimento Black Lives Matter. SI tratta infatti di una rivolta di importanti settori della classe lavoratrice nera, della parte più sfruttata e oppressa. Si tratta di una rivolta di un settore di proletariato urbano che sente di non aver più nulla da perdere. Non è un caso se gli uomini politici e le donne politiche afroamericani/e, rappresentanti di quella “borghesia nera” che è inserita nel sistema e ha invece tutto da perdere da mobilitazioni come questa, stiano invitando alla calma condannando la “violenza” dei e delle manifestanti, pur, manco a dirlo, “comprendendone le ragioni”. Purtroppo, al coro si sono aggiunte anche deputate progressiste come Ilhan Omar e altri deputati e ufficiali eletti al seguito di Bernie Sanders, mentre una menzione d’onore va fatta ad Alexandra Ocasio Cortez per aver invece espresso solidarietà ai e alle manifestanti, senza condannare l’uso, pienamente giustificato, della forza di massa.

È possibile che la rivolta, prima o poi, si esaurisca. Tuttavia, non sarà passata invano. Essa è innanzitutto una ripresa collettiva di parola. Poi è la messa a nudo della realtà brutale di un sistema strutturalmente razzista. Infine, è la manifestazione di contraddizioni specifiche della congiuntura politica e sociale negli USA a seguito della pandemia di Covid 19.

La rivolta in corso è un grido di libertà contro l’oppressione secolare vissuta dagli afroamericani in questo Paese. (“What?? The Land of the Free? Whoever told you that is your enemy”, cantavano i Rage Against the Machine).

Inoltre, i movimenti antirazzisti hanno sempre in qualche modo anticipato e/o accompagnato grandi cicli di lotte di classe dal basso negli Stati Uniti e, nel quadro della polarizzazione e radicalizzazione in corso nel paese, questo potrebbe esserne nuovamente un caso.

Qualche interrogativo politico e strategico

Ci sono altre domande che si impongono in queste ore e in questi giorni: e la sinistra socialista? Con scarso radicamento nel movimento antirazzista e in BLM, riuscirà a navigare in questo mare per costruirsi ulteriormente?

Dopo il colpo subito dall’esaurimento della candidatura di Sanders come espressione, per quanto contraddittoria, di una parziale ma reale radicalizzazione di massa a sinistra, riuscirà a connettersi al movimento un corso, riuscirà a sfruttare gli avanzamenti fin qui ottenuti per consolidare la sua presenza nei luoghi di lavoro e nei quartieri popolari delle grandi città?

Sono interrogativi pressanti a cui per ora naturalmente non c’è risposta. Ma se la rivolta in corso avrà sedimentato nuovi quadri politici che siano parte di una nuova avanguardia politica e sociale in grado di avanzare sul piano organizzativo verso un nuovo movimento socialista di massa centrato sulla ricostruzione di un movimento delle lavoratrici e dei lavoratori, multisettoriale, interetnico, femminista, allora avrà ottenuto almeno un’importante vittoria di lungo termine.

* Sinistra Anticapitalista