Il sopraggiungere della pandemia da coronavirus in Cina – al momento in fase di rilancio – ha determinato un vero e proprio shock economico e una caduta drastica di tutti i fattori produttivi. Un fenomeno articolato e complesso che per i suoi effetti devastanti sopravanza nettamente altri periodi critici, come quello determinato dal diffondersi della SARS nel biennio 2002-2003, il tonfo finanziario del periodo 2007-2008 o le turbolenze indotte dalle oscillazioni del mercato azionario del biennio 2015-2016. In effetti per la prima volta dalla morte di Mao Zedong nel 1976 la Cina registra un regresso vero e proprio.
Le imprese che hanno già interrotto le normali attività ammontano a circa mezzo milione; un tracollo rovinoso che coinvolge prevalentemente le imprese medie e piccole che già versavano in difficoltà per il reperimento dei finanziamenti, reso peraltro più difficoltoso per via della lotta intrapresa dalla direzione in carica per contrastare il crescente incremento del debito pubblico. Di conseguenza già si registrano fenomeni di licenziamenti abbastanza diffusi, proprio al termine del capodanno lunare cinese, quando negli anni addietro si determinava un incremento delle assunzioni.
Nel contesto reale venutosi a determinare in conseguenza della recessione globale e dall’insopprimibile esigenza di arginare in qualche maniera il debito pubblico, le prospettive di ripresa sono abbastanza problematiche, quanto meno nei tempi brevi; comunque è chiaro che sarà assolutamente impossibile raggiungere quel 6% di incremento del P.I.L. che era stato pronosticato come obiettivo prioritario dell’esercizio corrente. In primo luogo perché l’epidemia ha visto contrarre vistosamente tutte le aspettative che puntavano a tenere alto il saggio di sviluppo puntando sulla “Nuova via della seta”, dopo che molti Stati che avevano chiesto prestiti ai cinesi per poi commissionare ai cinesi medesimi infrastrutture capaci di sviluppare reciprocamente proficue relazioni commerciali hanno dichiarato candidamente di non poter onorare gli impegni presi a suo tempo, costringendo Xi Jinping e i suoi a dover registrare un vistoso ridimensionamento dell’intera iniziativa. A ciò si aggiunga che il ricorso agli “stimoli” praticati nel 2008 da Hu Jintao per reagire alla crisi finanziaria può essere riproposto solo in parte; e questo per numerose ragioni riconducibili tanto allo spaventoso debito accumulato in conseguenza di quelle iniziative, quanto alle trasformazioni che nel frattempo hanno interessato l’economia cinese, dove all’incremento del ruolo dei servizi ha fatto da riscontro u funzione più ampia dell’industria privata e una conseguente contrazione della presenza delle imprese di Stato, le S.O.E..
Un complesso di fattori che si configura largamente condizionante a fronte del quale le misure antitetiche che già si è provveduto a porre in essere – agevolazioni fiscali, contrazione della “ratio” bancaria di garanzia per erogare crediti, esemplificazioni procedimentali per le imprese per accedere al finanziamento – possono a ragion veduta solo arginare il calo, ma non garantire il rilancio auspicato dai centri effettivi di potere del regime. Nel migliore dei casi si determinerà un incremento del P.I.L. che risulterà largamente inferiore alle impostazioni programmatiche messe a punto prima che sopravvenisse la pandemia.
La leadership cinese che si raccoglie attorno a Xi Jinping si è dovuta per forza di cose rapportare alla situazione venutasi a determinare, dando luogo ad un orientamento che delineasse tanto la prospettiva di fronteggiare l’emergenza dettata dalla crisi ponendo termine alla stasi produttiva, quanto la messa a punto di procedure che garantissero che l’ipotetico rilancio si protraesse nel tempo, cioè comportassero sviluppo – ed egemonia internazionale – anche al di là della fase congiunturale in corso.
Al Consiglio Nazionale del Popolo del 22 maggio Le Keqiang, nella sua qualità di premier in carica, si è fatto carico di una sorta di elaborazione teorica che sembra delineare un progetto finalizzato tanto a superare l’emergenza e a rilanciare l’occupazione, quanto a stimolare lo sviluppo a lungo termine. In primo luogo appare significativo come Le, a conferma della eccezionalità della congiuntura in atto, si sia astenuto da qualsiasi valutazione previsionale attinente eventuali incrementi del P.I.L. per l’esercizio corrente. Il che è come dire che si procede a vista e ci si arrangia come si può nel contesto venutosi a determinare. Tuttavia le indicazioni progettuali non sono venute a mancare. Infatti anche ora si fa affidamento agli “investimenti pubblici”, pari, secondo numerosi osservatori, a valori oscillanti tra i 10 e i 17 miliardi di yuan. Ma mentre nel 2008 la direzione di Hu Jintao provvide a dirottare investimenti estremamente sostenuti verso infrastrutture tradizionali domestiche, oggi Le Keqiang non fa mistero di menzionare come destinatari dei finanziamenti pubblici le “nuove infrastrutture”, costituite sostanzialmente da 5G, data center, stazioni di ricarica per l’intelligenza artificiale e veicoli elettrici. In pratica le “nuove infrastrutture” – come vennero definite già nel 2018 alla “conferenza sul lavoro economico” – sono considerate come dotate di una sorta di elemento moltiplicatore capace di stimolare in tempi brevi il rinnovo tecnologico e di garantire, oltre una sollecita ripresa ed un incremento dell’occupazione, una più accentuata competitività internazionale negli anni a venire.
Per di più, mentre Hu Jintao nel 2008 dirottava massicci investimenti verso le infrastrutture tradizionali facendo leva sulle S.O.E. – cioè le imprese statali –, l’attuale establishment con la sua proiezione verso il digitale necessita inevitabilmente del supporto delle società private cinesi tecnologicamente avanzate, conferendo, secondo le esplicite enunciazioni dello stesso Le Keqiang, un maggior risalto al “mercato”, destinato a giocare un funzione più accentuata negli anni a venire. In definitiva l’intero progetto è condizionato a priori dalla capacità effettiva di far convergere l’operato dei settori privati sulle iniziative messe a punto dal potere politico che dal suo canto, va da sé, garantirà i finanziamenti più cospicui, restando inteso che anche i privati saranno chiamati a fare la loro parte. Un bilanciamento di ruoli e di funzioni dalla fattibilità tutta da verificare, anche se qualche indizio lusinghiero non manca, se si deve dare il giusto rilievo alla sinergia sviluppatasi di recente tra pubblico e privato per contrastare la pandemia o, in maniera ancora più significativa, alla netta presa di posizione assunta dal colosso privato Tencent che ha esplicitamente fatto conoscere di essere intenzionato ad investire nei prossimi cinque anni qualcosa come 500 milioni di yuan nelle “nuove infrastrutture”, come le intelligenze artificiali e la sicurezza informatica. E sulla scorta di una messa a punto preventiva così autorevole, non è difficile prevedere che numerose aziende medie e piccole assumeranno atteggiamenti similari.
Tuttavia gli interrogativi e le perplessità non fanno difetto. In ultima analisi tutto dipenderà da come verranno distribuiti i finanziamenti pubblici – destinati a rimanere nettamente prioritari – e quali benefici riterranno di potere ricavare le imprese private da questo progetto largamente inusitato. Anche perché tra le imprese medesime non mancano dubbi e perplessità che magari si accompagnano alla diffusa intenzione di partecipare alle iniziative intraprese dalla leadership in carica, dal momento che permane il dubbio di essere percepite come un’edizione riveduta e corretta delle S.O.E. che, come tali, opererebbero all’occorrenza anche al di fuori degli stretti canoni della “profittabilità”. Il che comprometterebbe la credibilità “merceologica” di queste imprese che, a loro parere, troverebbero ostacoli maggiori ad imporsi nella competitività internazionale.
A ciò si aggiunga che la spinta del potere centrale verso questo progetto inteso ad ottenere maggiore competitività a livello internazionale può indurre una sorta di spinta incontrollata verso le “nuove infrastrutture”, ricalcando nelle grandi linee quanto accaduto nel 2008 quando, per reagire alla crisi finanziaria globale, governi locali e organismi di partito furono sospinti alla costruzione dissennata di infrastrutture anche prive di un’utilità effettiva, che poi contribuirono a determinare la formazione di uno spaventoso debito pubblico. Oggi fenomeni del genere potrebbero riprodursi con le “nuove infrastrutture” che la leadership in carica si appresta a varare. I prodromi, dopo tutto, non mancano, se già nel mese di marzo numerosi organismi provinciali hanno messo a punto avveniristici progetti al riguardo, mentre di lì a poco sono circolate voci relative a iniziative di questo tipo che ammonterebbero a centinaia di miliardi di yuan. Insomma sussiste il rischio di una spinta incontrollata verso queste “nuove infrastrutture” che potrebbe dare luogo ad una vera e propria sovrapproduzione nel settore, che poi inficerebbe necessariamente quel progetto di rilancio e di competitività che la direzione di Xi Jinping ha messo a punto per reagire alle serie difficoltà determinatesi con lo scoppio della pandemia e rilanciare la Cina nell’agone internazionale.
In definitiva un contesto di fattori difficilmente valutabili nel momento dato, tanto per la molteplicità dei fattori in gioco, quanto per le reciproche interferenze di numerosi elementi di giudizio chiamati contestualmente in causa, restando inteso che rimane abbastanza prevedibile come, di fronte ad una mancata o insufficiente riuscita dell’intera esperienza, sarebbero inevitabilmente all’ordine del giorno mutazioni politiche sostanziali e anche fratture rilevanti all’interno degli stessi vertici del regime.