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Che rabbia, il risultato di domenica sugli aerei! Una rabbia esasperata dal fatto che, dopo una successione di sondaggi di malaugurio, d’un colpo, la vittoria sembrava a portata di mano. Alla fin fine, son state meno di 9’000 le schede che han fatto la differenza. Ma, se la sconfitta è amara, lo è anche, amara, la vittoria, per chi gli aerei li voleva, perché il risultato di domenica è più che incoraggiante… Per noi.

Anche i più fini osservatori della vita politica svizzera son rimasti sorpresi dal suspense di domenica, visto che i giochi sembravano fatti da settimane. E non è solo il succedersi di sondaggi che spingeva a pensarlo, ma, soprattutto, l’indigenza della campagna contro gli aerei diretta dal gruppo parlamentare del Partito socialista svizzero.

Malgrado le genuflessioni

Incitavano infatti al pessimismo le genuflessioni e altre professioni di fede in favore dell’esercito e della «necessaria modernizzazione» della difesa dello spazio aereo da parte del Partito socialista e del GSsE. Ma come si poteva sperare di convincere la popolazione a rifiutare l’acquisizione degli aerei se poi questi si davano tanta pena per perorare in difesa della protezione dello spazio aereo -certo meno onerosa di quanto proposto- e a difendersi dall’accusa di avercela con l’esercito?
Diventa infatti difficile, una volta ammessa la necessità di proteggere lo spazio aereo, convincere che tale difesa debba e possa essere assicurata da jet meno cari, quelli che, ironicamente, i militari chiamavano «aerei di cartone».
Ciononostante, però, quasi il 50% delle e dei votanti hanno opposto un Niet! chiaro alle esigenze del Consiglio federale e del Parlamento, alle esigenze dell’esercito.
Questo risultato è poi particolarmente interessante nella misura in cui il governo aveva proprio impostato il dibattito sull’esistenza o meno dell’esercito. E effettivamente, malgrado i dinieghi dei vari Carlo Sommaruga e Pierre-Alain Friedez – ma anche del Gruppo per una Svizzera … senza esercito – la posta in gioco era chiarissima: rispondere ai bisogni della popolazione o a quelli dell’esercito?

E non sarebbe un voto contro l’esercito?

È la scelta di dare la priorità alla soddisfazione dei bisogni della popolazione che ha fatto 1’595’156 votanti, anche se questo avrebbe potuto minacciare l’esistenza dell’esercito. Ed è questo che rende amari i brindisi per la vittoria della Signora Amherd e dei suoi generali.
Ed è d’altronde la stessa Amherd che si è affrettata a dire che «non è stato un voto contro l’esercito»[i], precisazione che è poi stata perlomeno contraddetta dal presidente della società degli ufficiali, Stefan Holenstein, che ha riconosciuto che «abbiamo decisamente un problema di percezione del senso dell’esercito da parte della popolazione»[ii].
È sicuramente vero che, come pretende il vice presidente del PDC, Charles Juillard, è sugli aerei che si è votato[iii]. Però, dal momento in cui l’acquisizione degli aerei è stata presentata e giustificata dal governo come una «condizione indispensabile» all’esistenza dell’esercito, il Consiglio federale l’ha trasformata in plebiscito sull’esistenza di quest’ultimo. E allora, non si può che constatare: trent’anni dopo il 1989, il numero di quanti son pronti a correre il rischio di smantellare l’esercito è cresciuto del 60%!

Indispensabile, urgente, necessario

Il risultato di domenica rappresenta una vera opportunità di ricostruire un movimento antimilitarista capace di pesare sull’agenda politica di questo paese.
Come confermano le ultime peripezie, l’esercito moltiplica le proprie esigenze finanziarie per la modernizzazione e la manutenzione dei suoi sistemi d’armamento; per esempio, secondo quanto riconosciuto dallo stesso DDPS, la manutenzione degli aerei consterà il triplo del loro prezzo d’acquisto, cioè diciotto miliardi da aggiungere ai sei che si è autorizzati a spendere per comprarli.
Le esercitazioni militari, la moltiplicazione delle ore di volo – dal primo gennaio i jet dovrebbero pattugliare lo spazio aereo 24 ore su 24 -, i trasporti di truppe e materiale concorrono in modo non secondario alla produzione di CO2. Nel momento in cui il pianeta soffoca, l’organizzazione dell’azione diretta contro la nocività delle attività militari è urgente.
E le rimesse in discussione, sia in Svizzera che nel mondo, delle conquiste degli ultimi decenni del secolo scorso rendono più necessaria che mai la rinascita dell’antimilitarismo

Conquiste di civiltà

Sul piano nazionale, è il diritto al servizio civile – conseguenza diretta dello tsunami politico del 26 novembre del 1989 – che è oggi attaccato, mentre, su scala internazionale, Trump e Putin stanno allegramente cestinando tutti gli accordi di disarmo nucleare imposti dalle grandi manifestazioni contro gli euromissili dell’inizio degli anni Ottanta.
Però, tanto il diritto al servizio civile quanto i trattati di disarmo nucleare sono delle conquiste di civiltà.
In un mondo che ha visto le spese militari aumentare nel 2019 del 3,6% sino a raggiungere l’assurda somma totale di 1’917 miliardi di dollari statunitensi[iv] e nel momento in cui Trump si prevale di disporre di «un’arma che nessuno ha mai avuto»[v], il rilancio di un vasto movimento per disarmare i poteri è più che urgente.
La votazione, prevista in novembre, sul finanziamento delle ditte produttrici di materiale di guerra potrebbe esserne l’occasione…

*membro fondatore del Gruppo per una Svizzera senza Esercito (GSsE)

[i] La Tribune de Genève, 28 settembre
[ii] Le Temps, 28 settembre
[iii] Idem
[iv] Rapporto 2019 del SIPRI, 27 aprile 2020
[v] Bob Woodward, Rage, conversazioni con Donald Trump, 2020