È uscito recentemente, presso le edizioni Casagrande, il libro Il lavoro, la fabbrica, la città curato da Mattia Pelli (storico del lavoro e delle migrazioni e giornalista) che raccoglie gli scritti di Sergio Agustoni, intellettuale e giornalista svizzero scomparso nel 2012. Ne abbiamo approfittato per intervistare il suo curatore. (Red)
Curare la pubblicazione di scritti di altri intellettuali permette in qualche modo di conoscerli e riconoscerli. Cosa hai scoperto di Sergio Agustoni?
La redazione di questo libro mi ha permesso di scoprire il suo lavoro intellettuale e mi ci sono rispecchiato anche dal punto di vista della professione giornalistica: Sergio Agustoni è diventato per me molto presto un punto di riferimento per la sua capacità di lavorare e di attingere a quello che io ho chiamato un «giornalismo dialettico».
Che cose intendi con il termine giornalismo dialettico?
Questa definizione è proprio in relazione alla sua formazione marxista, che permane come metodo nei suoi articoli. Ma la dialettica sta anche nella sua capacità, entro i limiti comunque angusti di un articolo, di scavare in profondità e di riuscire a restituire le dinamiche, le linee di sviluppo possibili dei fenomeni economici, sociali e culturali. Per questo credo che per chi faccia il giornalista il lavoro di Sergio Agustoni possa rappresentare un vero e proprio modello.
L’obiettivo di questo libro è infondo quello di riportare alla luce e rendere accessibile a un pubblico più ampio il lavoro di un intellettuale che altrimenti rischiava di venire dimenticato, ci puoi spiegare come è stato costruito il libro?
Il libro si divide in due parti. La prima, preceduta da una prefazione di Christian Marazzi, è il mio saggio vero e proprio che abbozza, sulla base del lavoro archivistico e di alcune testimonianze orali di chi l’ha conosciuto, l’itinerario politico, intellettuale e professionale di Sergio Agustoni. La seconda parte invece ripropone una serie di scritti di Agustoni messi a punto nel suo lavoro di giornalista per la RSI e per diverse altre testate come Area e Azione, ma anche saggi tratti da libri che ci danno un’idea di quello che è stato il suo lavoro intellettuale.
Ci puoi raccontare un po’ più nei dettagli come hai lavorato?
Inizialmente il mandato ricevuto dalla Fondazione Sergio Agustoni era quello di compiere una ricerca sull’operaismo in Svizzera, cioè di come questa tendenza di rinnovamento del marxismo sviluppatasi a partire dagli anni ‘60 in Italia si fosse diffusa nel nostro paese. Mano a mano che leggevo materiale dall’archivio di Sergio, ma anche dagli archivi storici, mi rendevo conto che mi trovavo davanti a una grande ricchezza: il patrimonio di riflessioni di questo intellettuale che aveva vissuto la fase più acuta delle lotte del 1968 in Svizzera e che era rimasto fedele al metodo acquisito in quegli anni anche successivamente nel suo lavoro giornalistico.
Ho dunque proposto che la ricerca si riorientasse nel senso di riproporre questo itinerario intellettuale, riproponendo i testi e dando gli strumenti biografici e politici per collocarli nello sviluppo intellettuale e professionale di Sergio Agustoni. In questo modo si possono quindi scoprire le molte facce della sua attività: militante della sinistra radicale, protagonista del ‘68 all’Università di Ginevra, studioso del movimento dei lavoratori ginevrino, la cui riflessione fin dall’inizio degli anni ‘70 si è interessata alla questione migratoria.
Un intellettuale militante che ha aderito a partire dalla fine degli anni ‘60 a una tendenza del marxismo italiano che, con Raniero Panzieri e i Quaderni Rossi, si pose come obiettivo di rivitalizzare il pensiero della sinistra e di un marxismo impoverito dal monopolio che su di esso reclamava il PCI: Raniero Panzieri, non a caso, era del PSI. Un marxismo – era questa l’intenzione – che fosse più capace di leggere i cambiamenti che stavano avvenendo in Italia nel mondo del lavoro.
Hai parlato di operaismo, di cosa si tratta esattamente?
Se volessimo riassumere l’elemento principale dell’operaismo è il modo in cui rovescia il pensiero marxista dogmatico del PCI, sostenendo che la storia delle lotte operaie e dell’organizzazione operaia e di classe non è determinata dalla storia dello sviluppo capitalistico e della fabbrica, ma, al contrario, è l’organizzazione delle lotte, del loro sviluppo che influenza l’organizzazione capitalistica. Una tesi per certi versi rivoluzionaria nel mondo della sinistra italiana e non solo in quegli anni: l’interesse per questa corrente di pensiero è ben rappresentato dal fatto che oggi in tutto il mondo, e soprattutto negli Stati Uniti, fioriscono gli studi attorno a quella che viene chiamata l’”Italian Theory”.
Il termine “operaisti” può però essere in un certo senso fuorviante, perché raccoglie sotto il suo cappello personalità che hanno avuto storie politiche spesso molto differenti: le espressioni pratiche di questa tendenza teorica nella politica italiana hanno avuto diverse declinazioni. Alcuni hanno abbracciato l’idea che non fosse possibile una prassi rivoluzionaria al di fuori del PCI; altri invece hanno provato a costruire delle alternative al di fuori di esso: da questa opzione nasce, ad esempio, Potere Operaio, l’organizzazione politica che ha tratto diretta ispirazione dall’operaismo.
Come incontra Agustoni l’operaismo e come lo declina nel suo lavoro intellettuale e di ricerca?
Sergio Agustoni arriva all’operaismo alla fine degli anni ‘60 attraverso l’adesione (a Ginevra) al Movimento Giovanile Progressista, che nella fase finale del suo sviluppo si era avvicinato a Potere Operaio. Egli accoglie questa linea di pensiero teorica che si manifesta nel suo lavoro di mémoire sulle aziende metallurgiche di Ginevra. L’originalità di questo lavoro è data soprattutto dal fatto che la teoria, gli elementi principali dell’operaismo, venga adattata alla situazione reale, materiale, di un paese diverso rispetto a quello in cui l’operaismo è nato, e cioè la Svizzera. Mentre gli operaisti in Italia parlavano di “operaio massa” come soggetto sociale conseguente allo sviluppo industriale di tipo fordista, Agustoni analizza l’industria Svizzera che ha avuto sviluppi diversi, senza quella meccanizzazione estrema raggiunta nei poli industriali italiani, che lascia, per esempio, ancora spazio agli operai specializzati e alla aristocrazia operaia basata sul mestiere. Egli riesce dunque ad adattare e a utilizzare gli strumenti teorici acquisiti dall’operaismo al nostro Paese, grazie anche a una grande conoscenza, ad esempio, della stampa padronale, un aspetto che non perderà mai nel corso del suo lavoro.
Hai detto che i temi toccati e attraversati dai suo scritti sono molti e li potremmo scoprire leggendo i vari testi, uno di essi è quello delle ferrovie e del loro sviluppo. In questo percorso Agustoni ha incontrato anche l’esperienza dello sciopero delle Officine arrivando poi a sostenere questa lotta…
E infatti non è un caso se nel mio saggio il suo itinerario intellettuale si chiude con questo evento che per lui è stato molto importante, e che lo ha riportato un po’ alle radici del suo impegno operaista. Inizialmente egli era tutt’altro che ottimista sul risultato dello sciopero perché il pessimismo della ragione lo portava dire che non avrebbe mai potuto avere successo. Ma ben presto si era reso conto di tutte le implicazioni che quella mobilitazione portava con sé: aveva dunque deciso di impegnarsi a fondo in quella lotta mettendo a disposizione del comitato di sciopero tutta la sua competenza in campo economico e in particolare nel campo ferroviario. In un’intervista, finora inedita, resa a un collettivo zurighese, Agustoni afferma che questa sua partecipazione è stato un po’ come un ritorno ai suoi anni di formazione e di militanza.
Ricordiamo che il libro verrà presentato nel corso di una tavola rotonda domenica 27 settembre a Mendrisio al centro culturale LaFilanda alle ore 16.00